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Festa del Cinema di Roma: l'apertura!

Mercoledì 16 Ottobre 2019 22:17 Pubblicato in News
 
Una Greta Garbo sognante ed eterea è la protagonista quest’anno del manifesto ufficiale della 14esima Festa del Cinema di Roma. Richiamo alla forza immortale del cinema, la Garbo adolescente diviene simbolo della curiosità verso nuove forme visive, verso un cinema che non smette mai di mettersi in discussione. Dal 17 al 27 Ottobre l’Auditorium Parco della Musica di Roma ospiterà la kermesse romana più famosa ed eclettica dedicata alla settima arte. Molti sono i film in concorso quest’anno, ognuno di essi caratterizzato da aspetti differenti, capaci di toccare temi di svariata natura. Anche quest’anno la pre-apertura è un evento imperdibile e ricco di film molto attesi dal pubblico. Infatti verrà presentato proprio oggi in anteprima mondiale Jesus Rolls- Quintana è tornato! lo spin-off de Il Grande Lebowski, inoltre sarà presente alla kermesse anche John Turturro e una parte del cast. Sempre in pre-apertura verranno presentati due film italiani, quali Gli anni amari di Andrea Adriatico e Le beatitudini di Sant’Egidio di Jacques Debs. Ma passiamo subito agli eventi più attesi di questa 14esima edizione di Festa e cioè agli incontri ravvicinati con alcuni dei più grandi nomi del mondo del cinema, della cultura e dello spettacolo. Farà ritorno a Roma Ethan Coen, che in occasione degli incontri ci riserverà delle sorprese “deliranti” (ma per ora è tutto top secret); Fanny Ardant parlerà di alcuni dei momenti più salienti della sua lunga carriera di attrice; presente anche Olivier Assayas e lo scrittore Bret Eston Ellis. Grande attesa per l’arrivo di John Travolta, Edward Norton e Benicio Del Toro, i quali parleranno di cinema e di alcuni dei film più noti a cui hanno preso parte. I prestigiosi premi alla carriera quest’anno vedranno come protagonisti due grandissimi attori della scena statunitense quali Bill Murray, che sarà accompagnato da Wes Anderson, e Viola Davis. Spostiamoci ora sui titoli all’interno della selezione ufficiale di questa edizione, e quello che più attrae attenzione è The Irishman, il film più atteso in questo momento, vero fiore all’occhiello della kermesse. Sempre in concorso Tornare di Cristina Comencini e il nuovo documentario di Werner Herzog intitolato Nomad. Ron Howard è in concorso e prenderà parte alla rassegna con il suo documentario su Pavarotti, film di cui parlerà durante il suo incontro ravvicinato. Si fa spazio anche (e fortunatamente) al genere horror ed è infatti tra i titoli della selezione ufficiale Scary Stories to Tell in The Dark film diretto da André Ovredal e prodotto da Guillermo del Toro, anch’esso attesissimo dai fan del genere. Pertanto, queste sono solo alcune delle pellicole che popolano una selezione ufficiale davvero ricca e polimorfa, la quale si inserisce all’interno di una Festa del Cinema che ogni anno tenta sempre di accostare generi tra loro diversi, creando intrecci con il mondo della letteratura e della musica. Ci rimane solo che augurare a tutti un buon festival!
 
Giada Farrace

Joker

Giovedì 03 Ottobre 2019 21:53 Pubblicato in Recensioni
Arthur Fleck (Joaquin Phoenix) è una persona ai margini della società, in una Gotham City in cui puoi morire sul marciapiede ed essere tranquillamente pestato e scavalcato. Col sogno del cabarettista e maledetto da un'involontaria risata isterica, è convinto di vivere in una perfetta tragedia.
Todd Phillips, regista della trilogia della Notte da Leoni, prende qualche spunto dalle fonti fumettistiche e si ispira a materiale quale Toro Scatenato o Taxi Driver, ma scrive una genesi del Joker prettamente originale, cercando un nuovo modo di raffigurare l'ascesa verso la pazzia e l'alienazione totale.
Con un taglio registico cupo e opprimente, egli si focalizza sulle ossessioni e le psicosi del suo protagonista, in un contesto di degrado mentale e urbano indissolubilmente legati; il Joker incarna la propagazione del caos nelle strade di Gotham City in una esclation sempre crescente di drammaticità. 
Il suo percorso da reietto a villain conclamato è senza dubbio uno dei piú riusciti dell'intero contesto fumettistico cinematografico, ed è scandito da momenti di apprensione e inquietudine che arrivano potenti e viscerali. Grazie ad uno sguardo intimo, personale, ma allo stesso tempo diretto e crudo, lo spettatore è investito dalla sofferenza e dalla lotta emotiva del protagonista, e avverte distintamente la sua voglia di un amore mai ricevuto, né in contesti sociali né famigliari. 
Ma, come a dare un po' di respiro in uno spettacolo troppo denso di contenuti, assistiamo inaspettatamente anche a situazioni ironiche e inquietantemente divertenti.
Tutto questo incredibile impianto narrativo non sarebbe possibile senza una sceneggiatura scritta eccellentemente, che conferisce spessore ai dialoghi e alle vicende, e usa precise svolte narrative per caricare di tensione la pellicola. Il contesto del film è poco intrecciato con la storia dell'uomo pipistrello, ma alcuni importanti personaggi sono inseriti ottimamente nell'economia della trama, e il pathos verso uno snodo chiave in particolare del passato di Batman è gestito in maniera impeccabile.
Ma il vero motivo dell'encomiabile rappresentazione di questo fantastico Joker è assolutamente l'interpretazione di Joaquin Phoenix. Si può dire senza mezzi termini che il suo protagonista siede allo stesso tavolo del pazzo mascherato di Jack Nicholson e del compianto Heath Ledger, dando un'impostazione personale e ulteriormente diversificata a un soggetto già ampiamente ricalcato. E' stato necessario perdere 20 chili per raggiungere la conturbante forma ossuta e scarna che riveste nel flm, ma il lavoro attoriale è stato arricchito anche da un meticoloso lavoro sulle disturbanti espressioni e sulla già iconica incontrollabile risata. Ed anche da una messa a punto sulle movenze, accattivanti e sinuose. Non c'è alcun dubbio che una prova del genere valga una seria ipoteca sull'Oscar come miglior attore.
Da citare ovviamente anche una splendida parte di Robert De Niro, che cura con la solita estrema professionalità e abilità, dando profondità e grandezza nonostante il limitato minutaggio a sua disposizione.  
Impressionante infine la scenografia dei contesti urbani in cui Arthur Fleck è vittima della violenza della città, in una ricostruzione degli ambienti metropolitani tratti da contesti di una New York anni '70, cosí come anche i costumi dell'epoca e il trucco, che conferiscono ulteriore spessore alla già densa atmosfera.
Todd Phillips in sostanza confeziona uno dei migliori cinecomic di sempre, arricchendo un'icona cinematografica di questo calibro con una memorabile interpretazione attoriale e un contesto narrativo straordinario. Un film assolutamente consigliato a chiunque, che trascende il suo universo fumettistico di origine e si confronta con una cinematografia moderna e matura.
 
Omar Mourad Agha
 
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In una Gotham ambientata agli inizi degli anni 80 (in particolare nel 1981), evocante una New York dalle tinte noir del cinema di Scorsese, si svolge la vicenda che vede protagonista Arthur Fleck (Joaquin Phoenix), un aspirante comico dal turbolento passato familiare che sbarca il lunario con un lavoro da clown che gli permette di sopravvivere e di prendersi cura della madre malata.
Quanto la vita possa essere una commedia delle parti e un ambiguo coacervo di paure, incertezze e rivendicazioni è una consapevolezza che rende profondamente umani chi la raggiunge. Tra un complesso edipico malamente sublimato e una improbabile sintomatologia psichiatrica che lo costringe a scoppi di una risata scrosciante e inadeguata,  Arthur Fleck sembra arrivare a tale consapevolezza in un momento della sua vita in cui ciò che lo rende umano lo allontana, allo stesso tempo, da ecumenici sentimenti di pietas. 
Il viaggio dell’eroe che Todd Phillips racconta in “Joker” è uno spietato viaggio interiore di un personaggio che prima (e qui mai) di essere un cattivo da fumetto è un esempio di una tragica parabola discendente che raggiunge il suo climax nella esaltazione della vendetta. Una mirabolante crescita emotiva che parla, urla, allo spettatore che non può fare a meno di prendere una netta posizione a favore del protagonista in un moto di empatia e protettività che nella storia gli sono continuamente negate. 
La crescita emotiva di Arthur, che nella definizione della sua nuova identità diventa Joker, è una discesa agli inferi; uno psicodramma permeato di citazioni (dal cinema muto di Chaplin e Keaton al Joker di Heath Ledger) e che rivolge la sua perturbante evoluzione nel rapporto verso l’altro. Si potrebbe definire una decrescita emotiva che punta la sua direzione verso l’involuzione della società nei suoi lati più avvizziti e spigolosi, nella sua drammatica insofferenza verso la fragilità della diversità. 
 “Il lato peggiore della malattia mentale è che la gente si aspetta che tu ti comporti come se non l’avessi” dice il Joker di Phillips, il cui fisico emaciato e il cui ghigno sanguinolento sintetizzano la metafora della follia umana ravvisata ancor più che nella malattia mentale del protagonista, nello stato emotivo del ferale e aggressivo universo sociale che lo circonda. 
La valenza del film non trova il suo spessore nella trama o nell’azione, che è quasi assente, ma nella capacità di raccontare come si possa rendere diabolico l’umano e umano il diabolico e di come entrambe le dimensioni siano profondamente connaturate con la capacità del singolo di relazionarsi col prossimo e con l’ambiente in cui è immerso (“Ora devono rendersi conto che esisto” dice Arthur).
L’esorcizzazione delle fragilità mentali, le cui espressioni trovano la massima rappresentazione nell’interpretazione magistrale di Phoenix, prendono forma con una violenza iconografica rappresentata con un gusto estetico e una narrazione che alterna momenti di delicata dolcezza ad attimi di puro splatter. 
Quello che Philips racconta sullo schermo non è un antieroe da fumetto, né il contraltare del protagonista “buono” da combattere, ma un personaggio che ricorda i tormentati protagonisti delle tragedie di Euripide, con una morale subissata dalle continue vessazioni di una vita ingiusta ma profondamente terrena. 
 
Valeria Volpini
 

It-Capitolo due

Giovedì 05 Settembre 2019 14:08 Pubblicato in Recensioni
A due anni di distanza dal primo fortunatissimo capitolo, Andy Muschietti torna a dirigere la seconda ed ultima parte di It. In questo film, si affronta la sezione più delicata della storia, ossia il riaffiorare del raccapricciante passato dei protagonisti e la sfida finale con il tremendo pagliaccio. La cittadina di Derry richiama a sé i suoi prescelti, i Losers, ma sono trascorsi molti anni dal giorno in cui i cinque strinsero un patto di alleanza, giurando aiuto reciproco qualora It fosse tornato a seminare terrore. Da quel giorno, a seguito di circostanze poco favorevoli, molti di loro hanno scelto di allontanarsi da Derry, provocando un lento congelamento del reciproco rapporto affettivo. Ventisette anni dopo, Mike, l’unico rimasto a Derry, decide di riunire il gruppo dopo una strana ed inquietante apparizione. Egli deve assolutamente comunicare ai suoi amici qualcosa di urgente. Così dopo aver contattato ognuno di essi, stabilisce la data dell’incontro. Tuttavia durante questa euforica e attesa rimpatriata, gli entusiasmi per essersi finalmente ritrovati lasciano ben presto spazio al dipanarsi di quella presenza terrificante, quell’incubo minaccioso che ha da sempre perseguitato le loro vite: It. Il pagliaccio è tornato, e animato da un’insaziabile ferocia, continua a seminare terrore. Il suo scopo è fin troppo chiaro: disintegrare Il Club Dei Perdenti. In un tormentoso labirinto di inseguimenti e trappole efferate, Pennywise tenterà in ogni modo di attirare a sè i Losers, i quali stavolta dovranno giocarsi l’ultima carta per eliminare definitivamente questo malvagio pericolo. Un progetto ambizioso quello di Muschietti, che ha come scopo quello di restare fedele al libro, seminado nel corso della storia qualche variazione sul tema. È fuor di dubbio che il materiale a dispozione è davvero ingombrante, denso di dettagli e digressioni che potrebbero spaventare anche il regista più impavido. Ma Muschietti non si è di certo lasciato intimidire, lanciandosi a capofitto in un lavoro sicuramente per certi versi stuzzicante, ma che presenta degli evidenti limiti. Ciò che si apprezza è giusto lo sforzo atto a tenere unito un film molto lungo, sconcatenato e totalmente privo di un climax angosciante. Quest’ultimo aspetto, è infatti un importante punto debole che inizia a far sentire il suo peso dopo la prima metà del film, quando si attende ansiosamente l’irreparabile, ossia quel momento in cui tutto dovrebbe diventare più spaventoso e lugubre. Ma ciò non accade. E se durante i primi sessanta minuti di film, il saparietto comico poteva essere legittimato dalla parentesi della rimpatriata per alleggerire il plot prima dello svelamento del terrore, nella seconda metà del film questo comic relief inzia a stonare, ma di parecchio. La mancanza di tensione è invalidante, dimostrandosi la principale causa di un approccio un pò troppo evasivo sulle apparizioni di Pennywise e sull’aura stessa del pagliaccio. Altro grande assente è l’elemento conturbante, probabilmente trascurato per dare spazio allo spettacolo, a lunghe (e sfibranti) sequenze con impeccabili effetti speciali, tipici dei grandi blockbuster. Ma non stiamo guardando un film dei fratelli Russo. Detto ciò, il film non è totalmente un fiasco, soprattutto, come già citato, nella prima parte, la quale fa un po' da salvagente, regalando alcune scene disturbanti, una tra tutte quella con protagoniste Beverly e l'anziana donna dietro alla quale si cela Pennywise. D'altronde, se il quadro complessivo risulta apparentemente stimolante è anche grazie ad un cast davvero ricco di nomi apprezzatissimi nel panorama cinematografico attuale quali James McAvoy, Jessica Chastain, Jay Rayan e molti altri, che tentano di illuminare le molteplici zone d'ombra nel corso del film. In conclusione, It- Chapter Two è paragonabile ad un allettante involucro di contenuti, al cui interno però si rimane insoddisfatti, come alla perenne ricerca di un affresco sul male, di un confronto diretto con il terrore. Una ricerca che purtroppo si dimostra vana.  Al cinema dal 5 Settembre. 
 
Giada Farrace

Martin Eden

Mercoledì 04 Settembre 2019 10:38 Pubblicato in Recensioni

Lo smarrimento del senso della propria arte ha condotto Jack London ad un periodo di stasi profonda, di brusca interruzione nell’intimo processo comunicativo con il mondo. Qualche anno più tardi, lo scrittore statunitense scolpisce il suo Martin Eden ispirandosi a questo punto di arresto, a quel suo autoritratto di individuo in conflitto con alcune zone d’ombra della società a cui appartiene. Pietro Marcello decide di ispirarsi liberamente a questo vivace e profondo romanzo, facendo propria la parabola dell’antieroe. La vicenda narrata dal film, parte proprio nel momento in cui la vita del giovane Martin Eden subisce un totale cambiamento. Egli, audace marinaio alla continua ricerca di nuove avventure e curioso esploratore di luoghi estranei, si ritrova a dover salvare da un pestaggio Arturo, un ragazzo appartenente all’alta borghesia industriale. Martin viene così ricevuto in casa della famiglia del ragazzo, ed è qui che tra i numerosi convenevoli per il miracoloso salvataggio, il giovane si ritrova a stretto contatto con Elena, l’incantevole e colta sorella di Arturo, di cui egli si invaghisce da subito. Un’immagine quasi eterea e inarrivabile quella di Elena, che oltre a rappresentare un’ossessione amorosa, esprime indirettamente quel desiderio di riscatto sociale a cui Martin ambisce da sempre. Tra numerosi ostacoli e limiti che inizialmente appaiono insormontabili, Martin riesce a superare lo scoglio della sua umile origine, coltivando autonomamente la passione per lo studio e per la lettura. La tenace aspirazione ad elevarsi, un po’ per la voglia di migliorarsi e un po’ per amore di Elena, lo porta a realizzare quel sogno a tratti inaccessibile di diventare uno scrittore. Ma lo scotto da pagare è amaro, l’emancipazione della cultura può portare a stretto contatto con circoli borghesi di un certo stampo, un mondo asfissiante e fittizio, troppo lontano dal pensiero sincero di Martin. Il film diretto da Pietro Marcello, seconda opera italiana in concorso quest’anno alla 76esima Mostra Internazionale del Cinema di Venezia, è una libera trasposizione del romanzo forse più intimo e autobiografico di Jack London. Il Martin Eden di Marcello, è un affresco sincero e appassionato sui grandi cambiamenti avvenuti nel corso del Novecento e soprattutto sulle aspre difficoltà da parte di un giovane di umili origini nel rapportarsi alla società Borghese, emancipandosi solo attraverso la cultura e le proprie capacità. Libero da ogni forma di limite temporale, questo ambizioso lavoro, è ambientato simbolicamente in una Napoli colorata e consumata dalla società industriale, come avvenne per molte altre città in quel periodo. Al flusso narrativo del film, Pietro Marcello decide di alternare delle suggestive immagini di repertorio donando al racconto un respiro ancor più vivido. Il regista entra quasi in punta di piedi in questa vicenda, lasciando parlare il protagonista e il paesaggio, incontrastato fulcro dell’immagine in molte sequenze. Dietro questo giovane ed audace antieroe c’è Luca Marinelli, qui intenso come non si vedeva da tempo e aderente in massimo grado al ruolo. Attraverso i suoi occhi percepiamo molte sfumature dell’ambiente circostante ed è come se vivessimo in prima persona le situazioni a cui prende parte. Purtroppo l’unica debolezza del film, risiede nella parte finale, dove il quadro diviene più denso e artificioso. Si cede un po’ troppo al manierismo e questo rende molti passaggi forzati, generando una stonatura anche sul piano interpretativo. Un finale più sentito e meno conformato avrebbe chiuso il cerchio in modo più coerente. Nelle sale a partire da martedì 4 Settembre. 

Giada Farrace