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Visualizza articoli per tag: new york
Il 22 marzo scorso è uscito Grief Is The Thing With Feathers di Teho Teardo. Otto intensissime tracce sulla scia dell’elaborazione di una perdita. L’idea nasce nel 2017 a seguito della lettura dell’omonimo libro di Max Porter (Il dolore è una cosa con le piume, edito in Italia da Guanda) alla quale, un mese dopo, si accoda il regista e scrittore Enda Walsh (tra i suoi lavori più importanti nella scrittura Lazarus con David Bowie e Hunger di Steve Mc Queen) che decide di farne uno spettacolo teatrale. Cillian Murphy ne è il protagonista, ora in scena al St. Ann’s Warehouse di New York fino a metà maggio e già sold out nel mese di aprile al Barbican di Londra.
L’album si fregia di validissimi musicisti oltre che di collaborazioni altisonanti del calibro di Joe Lally (Fugazi) al basso. Grazie ad un ascolto privato e riservato a pochi, ho potuto sentirlo in anteprima, nello studio dove è stato creato, e questa intervista è frutto di questo straordinario incontro. 
 
 
Per partorire questo album hai impiegato quasi 2 anni, quanto è cambiato dal 2017?
 
È cambiato un bel po’ c’erano delle cose che ad un certo punto non mi piacevano più e ho dovuto limare dei passaggi che in scena vanno benissimo ma non hanno lo stesso effetto dentro un disco.
Al 95% la musica è la stessa ma con alcune variazioni. Quando sei in uno spettacolo devi interagire con il luogo, con necessità degli attori e altre di scena e anche l’ascolto di un album ha necessità ben precise, ci sono altri livelli di dinamiche, altre durate. Per lo spettacolo importante è stato anche il buon rapporto con Cillian,con cui già mi ero trovato a lavorare. Lui di fatto è un musicista mancato, avendo iniziato la sua carriera nella musica ma poi, proprio grazie ad Enda, si è riscoperto attore.
 
 
 
È necessario un diverso approccio al cinema rispetto al lavoro per il teatro?
 
No, per me si tratta sempre di fare della musica che deve trovare una via per un progetto. Non  ho uno stile per il teatro, uno per il cinema, questo mi sembrerebbe una stronzata. 
Quando ero ragazzino andavo al cinema e sentivo delle colonne sonore, compravo il disco e talvolta succedeva che aveva tutt’altro effetto non funzionando più o viceversa, ad esempio con la colonna sonora di Paris Texas sono nati bambini anche di persone che conosco. Bisogna tenere presente però che la musica per il cinema o per il teatro deve essere più semplice avere meno elementi, in genere più è elaborata e più tende a sgonfiarsi.
 
Qual’è il tuo riferimento per la composizione nei film o nel teatro?
 
C’è un disco fondamentale che dovrebbe essere studiato ed è la colonna sonora di Sandokan dei De Angelis, quel lavoro ha i titoli che corrispondono alle sequenze del film e quando lo ascolti hai sempre quell’unico riferimento e inevitabilmente questo arresta tutta una serie di possibilità che si potrebbero avere. Se cristallizzi la musica in un punto preciso della narrazione riduci la potenzialità della musica stessa. La diversità del teatro è che comunque lo spettacolo ha un certo numero di repliche ma poi finisce rischiando di trasformare l’ascolto successivo in qualcosa di tendenzialmente nostalgico. 
Io perciò compongo basandomi unicamente sulla sceneggiatura e sui colloqui che ho col regista, questo mi garantisce maggiore libertà.
 
Noi in Italia abbiamo codificato un modo di fare musica per il cinema, penso ad esempio ad Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto di Morricone che raggiunge vette altissime. Quando ho iniziato a far questo lavoro mi sono domandato che tipo di impostazione volessi seguire, inserirmi in una scia che mi avrebbe portato dritto al piano bar oppure fare altro? Io vengo dal punk rock e ho ritenuto che ci potesse essere anche un altro modo per avvicinarsi ad un racconto. Facendo musica senza basarmi unicamente sulle immagini hai musica svincolata ma legata alla storia, entrando in un gioco che dà vita anche ad una serie di contraddizioni, in una ricerca di connessioni tra quello che ti lancia la musica e quello che evocano le immagini. Si creano così infinite possibilità perché l’immagine ha un perimetro ben definito mentre la musica ha un raggio molto più vasto.
 
 
Hai un compositore di riferimento?
 
I miei compositori di riferimento sono i Cramps, il rock’n roll primitivo e brutale, essenzialmente elementare, perché ci sono talmente pochi elementi che o funzionano oppure no, non c’è scampo. Con la tecnologia, i mezzi, un’orchestra, si può in qualche modo confondere le acque per far passare degli andamenti come delle composizioni invece spesso è soltanto aria fritta. Mi piace quel tipo di musica che poi deriva dal blues degli anni 20/30 dove c’era soltanto un uomo con una chitarra e per allargare le cose usava un collo di bottiglia, erano a quel tempo gli archi dei poveri perché, non potendo permettersi altro, davano in questo modo una distorsione. Amo il concetto di ultraeconomia che con pochissimo devi trovare una soluzione. Molta musica che arriva dal cinema non è così e a me stanca tanto. Le cose che mi colpiscono del cinema sono poche, penso ad esempio al lavoro che ha fatto Sakamoto che però non veniva dal cinema, o Trent Reznor che è un gigante ma arriva da un altro ambito musicale, e secondo me è necessario che dopo cento anni di colonne sonore si cambino un po’ le cose. 
 
Una cosa fighissima dei compositori italiani è che di solito hanno sempre il budget più basso rispetto a tutti. Morricone faceva 50 film in un anno, adesso nell’ipotesi migliore uno ne fa tre, quattro, all’epoca lui aveva molto meno tempo per lavorarci il che vuol dire che tutta una serie di cose non le poteva fare e doveva operare delle scelte, questo modo di lavorare continua ad intrigarmi molto. 
 
Sembra tu abbia un marchio ben chiaro oltre che una forte vicinanza a Londra.. 
 
Sono diversi anni che lavoro assieme ad un certo team e Londra è sempre la base dell’operazione e per me è diventato un luogo di riferimento importante e di conseguenza lo è per la mia musica. Mi fa piacere che si senta che c’è un marchio perché quello che faccio è tentare sempre di cancellarlo per poi immancabilmente ritrovarlo. Uno dei miei gruppi preferiti sono i Ramones che hanno un sound ben codificato che si riconosce nell’immediato. È importante avere uno stile preciso che cambia e si trasforma nel tempo ma che faccia sempre riferimento a ciò che precede e ciò che verrà.
 
 
Qual’è il messaggio che vorresti lanciare e c’è un’evoluzione personale all’interno di questo album? 
 
Non ho messaggi politici palesi, però se penso alle persone che hanno suonato in questo disco, al tipo di circuitazione che ha questa musica è già un tipo di messaggio evidente del mio modo di pensare. È interessante anche vedere che queste idee possano poi avere una diffusione ultramainstream come al Barbican di Londra, però arrivano da un altro punto di inizio e questo è già un messaggio. È comunque una questione talmente privata da diventare politica. Non sono assolutamente in sintonia con l’andamento politico di questo paese e credo che questa musica lo manifesti pienamente. È una musica che non è allineata in alcun modo con gli standard estetici che, sia in modo mainstream che underground, sono imperanti, è un no evidente a tutto questo. PJ Harvey diceva che non serve fare delle gran critiche basta fare dei pezzi e non serve nemmeno fare delle interviste per dirlo, basta fare musica. 
In Italia che musica esce? Ok c’è tutto quello che sappiamo ma c’è anche questo e poi tu le cose le metti tutte lì vicine e le cose parlano da sole, dipende anche da chi vuole ascoltare e da come vuole ascoltare.
 
È una musica che però ritrova le sue basi nel passato e che quindi dovremmo già aver metabolizzato, secondo te rimane ancora solo un ascolto di nicchia? Cosa è successo, ci siamo  arrestati? 
 
Cosa io penso degli ultimi 20 anni di questo paese è che ha iniziato a guardarsi l’ombelico sempre più spesso fino a non vedere più niente. C’è stata un’invenzione del rock italiano che in realtà era rock anglosassone ma solo cantato in italiano e questo secondo me è un problema serio. 
Io ad esempio suono perché a 17 anni un mio amico m’ha portato a vedere James Brown a Pordenone e quando l’ho visto sono rimasto folgorato capendo che volevo fare veramente musica nella vita, essere una presenza sul palco che dice delle cose, io volevo far qualcosa: è come un processo di impollinazione dove c’è un seme nell’aria che ti feconda. Se tu metti in un sistema delle cose sterili non fecondano niente ed è evidente. La musica rock è scomparsa ed è strano che sia letteralmente sparita nelle nuove generazioni. Anche in altri ambiti non c’è tutto questo gran fermento e ho la certezza che all’inizio degli anni ‘90 si sia fatta questa invenzione del rock italiano che abbia distrutto una buona fetta di musica e soprattutto anche un pubblico di ascoltatori. Io sono italiano ma non rappresento l’Italia quando suono, è importante non essere ascrivibili ad una precisa nazione perché non facciamo musica etnica, noi suoniamo per tutti. Negli anni ‘90 sono comparsi una serie di imitatori italiani a rifare quello che facevano gli stranieri. C’è stato un atteggiamento di autoreferenzialità imbarazzante, nonostante vi siano un sacco di artisti talentuosi costretti a tagliare la corda. 
Un esempio di tutto ciò può essere dato da Joe Lally, un bassista impressionante, veniva spesso da me perché ha abitato 8 anni a Roma e siamo molto amici, non l’ha mai chiamato nessuno a suonare nel periodo che ha passato qui. È un fuoriclasse, oltre ad essere un uomo che ha avuto un’esperienza clamorosa nella musica, avrebbero potuto contattarlo prima di fare ritorno a Washington 2 anni fa, invece non sapevano nemmeno chi fosse, questa è una cosa davvero significativa.
 
 
Max Porter parlando del tuo album dice: è difficile ascoltare la musica senza sentirsi tristi ma anche pieni di speranza, sei d’accordo?
 
Sì sono d’accordo nel senso che la mia musica è nel dark side delle cose che è un punto di osservazione, il che non significa che io abbia uno sguardo pessimista ma che guardo da un’altra angolazione per vedere la realtà. 
 
Mi è venuta in mente una bella intervista a Jim Jarmusch, in occasione di un suo film dove ho lavorato, nella quale diceva che l’hanno ispirato i cani nel guardare, perché i cani quando osservano inclinano la testa per capire meglio. Nello stesso film c’è Blixa che dice io per capire una cosa devo rovesciarla e, sempre in questo film, c’è Bowie che dice io per mettere bene a fuoco una cosa devo farla saltare per aria. Sono tutte espressioni abbastanza forti, quasi negative, ma in realtà è il contrario. Qui c’è un punto d’osservazione che parte dall’oscurità ma poi guarda verso una possibilità. Credo che questo sia il mio lavoro più oscuro e che sia anche il disco dove la maggior parte degli elementi dentro spingono per venire alla luce. 
 
Sembra un percorso di elaborazione del lutto anche in base alla scaletta che hai scelto, questa rottura dell’abitudine fino all’ultima traccia dove si ha una sensazione quasi di lasciare andare dopo aver raschiato il fondale, di risalire per riprendere aria.. 
 
Il tema principale è tutto giocato sulla scia del ricordo e sull’elaborazione della perdita. Poco tempo fa se n’è andata la mamma di Enda e volevamo qualcosa che servisse a rievocarla, sia una voce quindi che una sonorità ricercata e adatta a questo scopo, la voce di Susanna Buffa non ha un testo sono solo dei vocalizzi e anche la melodia è molto contenuta, è quasi un ectoplasma sonoro che arriva ad un certo punto e poi se ne va.
 
 
Ma come si può musicare una perdita? 
 
Evocare qualcuno che non c’è è un modo per raccontare una perdita, mi allungo così tanto verso te per cercarti ma nel buio non ti trovo. Questa voce questo fa, si appoggia a tutta una serie di passaggi di pizzicato di violoncello e viola che non portano da nessuna parte e ad un certo punto si srotola verso una parte musicale più melodica, ma la voce gira intorno a se stessa ed è come se brancolassimo un po’ nel buio. 
Uno dei modi per approcciarci a questo lavoro con Enda è stato parlare delle nostre rispettive madri domandandoci dove fossero adesso, come qualcosa che era presente nei detriti dei nostri discorsi. 
Si evoca qualcuno che non c’è più forse per prendersi cura di quelli che sono rimasti. Molti di noi hanno avuto dei vuoti difficili da colmare e nella musica io ho trovato uno dei modi per farmela passare.
 
Significativa è stata anche la collaborazione passata di Enda con Bowie per Lazarus. Bowie, quando seppe della sua malattia, lo contattò dicendogli è l’ultima cosa che faccio e vorrei farla con te, Enda ebbe un infarto per il carico di responsabilità. E a proposito di perdite ci sono montagne di provini che Bowie mandava tutte le mattine ad Enda tramite pc, perché per un periodo lavoravano a distanza. Un giorno Enda dimenticò questo computer in aereo e tutto quel materiale è andato perso per sempre.
 
 
Chiara Nucera

Joker

Giovedì 03 Ottobre 2019 21:53
Arthur Fleck (Joaquin Phoenix) è una persona ai margini della società, in una Gotham City in cui puoi morire sul marciapiede ed essere tranquillamente pestato e scavalcato. Col sogno del cabarettista e maledetto da un'involontaria risata isterica, è convinto di vivere in una perfetta tragedia.
Todd Phillips, regista della trilogia della Notte da Leoni, prende qualche spunto dalle fonti fumettistiche e si ispira a materiale quale Toro Scatenato o Taxi Driver, ma scrive una genesi del Joker prettamente originale, cercando un nuovo modo di raffigurare l'ascesa verso la pazzia e l'alienazione totale.
Con un taglio registico cupo e opprimente, egli si focalizza sulle ossessioni e le psicosi del suo protagonista, in un contesto di degrado mentale e urbano indissolubilmente legati; il Joker incarna la propagazione del caos nelle strade di Gotham City in una esclation sempre crescente di drammaticità. 
Il suo percorso da reietto a villain conclamato è senza dubbio uno dei piú riusciti dell'intero contesto fumettistico cinematografico, ed è scandito da momenti di apprensione e inquietudine che arrivano potenti e viscerali. Grazie ad uno sguardo intimo, personale, ma allo stesso tempo diretto e crudo, lo spettatore è investito dalla sofferenza e dalla lotta emotiva del protagonista, e avverte distintamente la sua voglia di un amore mai ricevuto, né in contesti sociali né famigliari. 
Ma, come a dare un po' di respiro in uno spettacolo troppo denso di contenuti, assistiamo inaspettatamente anche a situazioni ironiche e inquietantemente divertenti.
Tutto questo incredibile impianto narrativo non sarebbe possibile senza una sceneggiatura scritta eccellentemente, che conferisce spessore ai dialoghi e alle vicende, e usa precise svolte narrative per caricare di tensione la pellicola. Il contesto del film è poco intrecciato con la storia dell'uomo pipistrello, ma alcuni importanti personaggi sono inseriti ottimamente nell'economia della trama, e il pathos verso uno snodo chiave in particolare del passato di Batman è gestito in maniera impeccabile.
Ma il vero motivo dell'encomiabile rappresentazione di questo fantastico Joker è assolutamente l'interpretazione di Joaquin Phoenix. Si può dire senza mezzi termini che il suo protagonista siede allo stesso tavolo del pazzo mascherato di Jack Nicholson e del compianto Heath Ledger, dando un'impostazione personale e ulteriormente diversificata a un soggetto già ampiamente ricalcato. E' stato necessario perdere 20 chili per raggiungere la conturbante forma ossuta e scarna che riveste nel flm, ma il lavoro attoriale è stato arricchito anche da un meticoloso lavoro sulle disturbanti espressioni e sulla già iconica incontrollabile risata. Ed anche da una messa a punto sulle movenze, accattivanti e sinuose. Non c'è alcun dubbio che una prova del genere valga una seria ipoteca sull'Oscar come miglior attore.
Da citare ovviamente anche una splendida parte di Robert De Niro, che cura con la solita estrema professionalità e abilità, dando profondità e grandezza nonostante il limitato minutaggio a sua disposizione.  
Impressionante infine la scenografia dei contesti urbani in cui Arthur Fleck è vittima della violenza della città, in una ricostruzione degli ambienti metropolitani tratti da contesti di una New York anni '70, cosí come anche i costumi dell'epoca e il trucco, che conferiscono ulteriore spessore alla già densa atmosfera.
Todd Phillips in sostanza confeziona uno dei migliori cinecomic di sempre, arricchendo un'icona cinematografica di questo calibro con una memorabile interpretazione attoriale e un contesto narrativo straordinario. Un film assolutamente consigliato a chiunque, che trascende il suo universo fumettistico di origine e si confronta con una cinematografia moderna e matura.
 
Omar Mourad Agha
 
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In una Gotham ambientata agli inizi degli anni 80 (in particolare nel 1981), evocante una New York dalle tinte noir del cinema di Scorsese, si svolge la vicenda che vede protagonista Arthur Fleck (Joaquin Phoenix), un aspirante comico dal turbolento passato familiare che sbarca il lunario con un lavoro da clown che gli permette di sopravvivere e di prendersi cura della madre malata.
Quanto la vita possa essere una commedia delle parti e un ambiguo coacervo di paure, incertezze e rivendicazioni è una consapevolezza che rende profondamente umani chi la raggiunge. Tra un complesso edipico malamente sublimato e una improbabile sintomatologia psichiatrica che lo costringe a scoppi di una risata scrosciante e inadeguata,  Arthur Fleck sembra arrivare a tale consapevolezza in un momento della sua vita in cui ciò che lo rende umano lo allontana, allo stesso tempo, da ecumenici sentimenti di pietas. 
Il viaggio dell’eroe che Todd Phillips racconta in “Joker” è uno spietato viaggio interiore di un personaggio che prima (e qui mai) di essere un cattivo da fumetto è un esempio di una tragica parabola discendente che raggiunge il suo climax nella esaltazione della vendetta. Una mirabolante crescita emotiva che parla, urla, allo spettatore che non può fare a meno di prendere una netta posizione a favore del protagonista in un moto di empatia e protettività che nella storia gli sono continuamente negate. 
La crescita emotiva di Arthur, che nella definizione della sua nuova identità diventa Joker, è una discesa agli inferi; uno psicodramma permeato di citazioni (dal cinema muto di Chaplin e Keaton al Joker di Heath Ledger) e che rivolge la sua perturbante evoluzione nel rapporto verso l’altro. Si potrebbe definire una decrescita emotiva che punta la sua direzione verso l’involuzione della società nei suoi lati più avvizziti e spigolosi, nella sua drammatica insofferenza verso la fragilità della diversità. 
 “Il lato peggiore della malattia mentale è che la gente si aspetta che tu ti comporti come se non l’avessi” dice il Joker di Phillips, il cui fisico emaciato e il cui ghigno sanguinolento sintetizzano la metafora della follia umana ravvisata ancor più che nella malattia mentale del protagonista, nello stato emotivo del ferale e aggressivo universo sociale che lo circonda. 
La valenza del film non trova il suo spessore nella trama o nell’azione, che è quasi assente, ma nella capacità di raccontare come si possa rendere diabolico l’umano e umano il diabolico e di come entrambe le dimensioni siano profondamente connaturate con la capacità del singolo di relazionarsi col prossimo e con l’ambiente in cui è immerso (“Ora devono rendersi conto che esisto” dice Arthur).
L’esorcizzazione delle fragilità mentali, le cui espressioni trovano la massima rappresentazione nell’interpretazione magistrale di Phoenix, prendono forma con una violenza iconografica rappresentata con un gusto estetico e una narrazione che alterna momenti di delicata dolcezza ad attimi di puro splatter. 
Quello che Philips racconta sullo schermo non è un antieroe da fumetto, né il contraltare del protagonista “buono” da combattere, ma un personaggio che ricorda i tormentati protagonisti delle tragedie di Euripide, con una morale subissata dalle continue vessazioni di una vita ingiusta ma profondamente terrena. 
 
Valeria Volpini