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Noi

Giovedì 04 Aprile 2019 12:44 Pubblicato in Recensioni
Anno 1986: Adelaide, una bambina di nove anni in gita con i genitori, si perde in un luna
park a Santa Cruz e finisce nella casa degli specchi dove incontra una bambina identica a
lei: il suo doppio. Da questa esperienza rimarrà traumatizzata, tanto che, anni dopo,
quando tornerà nello stesso posto con marito e figli, sarà pervasa costantemente dalla
paura del ricordo, che si materializzerà con la presenza di una famiglia identica alla sua e
che, armata di forbici dorate, cercherà di uccidere i loro doppi.
“Noi” è un horror che fa paura. Già questa caratteristica rende interessante la seconda opera di Jordan Peele, attore comico cimentatosi da pochi anni con la regia cinematografica di genere thriller-horror. 
La gestione della tensione è puntellata da battute ironiche che delineano una scrittura originale e riescono, a tratti, a detendere il laccio emotivo che nel corso del film rende lo spettatore cosciente del pericolo, non subitaneamente manifesto, che correranno i protagonisti della storia.  
La storia è incentrata su Adelaide, interpretata dalla superba Lupita Nyong’o che ci regala una doppia performance entusiasmante, tanto credibile da far dimenticare allo spettatore che il ruolo è interpretato dalla stessa attrice.
Se in Get Out la tematica affrontata da Peele era razziale, in “Noi” la questione diventa di classe sociale in cui la politica si intreccia all’esegesi psicologica della personalità dello stereotipo americano.
“Siamo americani” dice Adelaide al marito Gabe (Winston Duke) in una battuta. E sono americani anche i doppi che abitano nel sottoterra e cercheranno di ribellarsi a una vita in cui i privilegi sono dei loro ricchi gemelli in superficie. Così come sono americani i vicini di casa, contraltare della famiglia protagonista: bianchi, ricchi, superficiali, vacui. 
“Perciò, così parla l’Eterno: ecco, io faccio venir su loro una calamità, alla quale non potranno sfuggire. Essi grideranno a me, ma io non li ascolterò”. E’ il verso di Geremia 11:11 che compare più volte e che è insieme prodromo e nodo della storia. La lotta tra noi e loro, tra i ricchi e i poveri, tra i borghesi e i derelitti, tra chi vive alla luce del sole e chi nei fetidi sotterranei. Una lotta che sarà lo strumento e il risultato di una rivoluzione che avrà i tratti di tute rosse e forbici dorate.
Questi cloni però non vivono con la coscienza dei loro gemelli originali, hanno una propria identità, delle esigenze, sono persone con una propria sinistra coscienza dalle trame infime, che esacerba le caratteristiche peculiari dei propri doppi. Questa dicotomia ha un senso squisitamente introspettivo. Non nutre il gusto del cinema del genere privando il film del senso del messaggio che il regista vuole significare. Non c’è una scena splatter fine a se stessa, non una lotta, anche violenta, tra i doppelganger, non funzionale alla trama e all’allegoria. 
Peele sembra volerci dire che ogni essere umano ha in sé un proprio doppio, un’anima cupa, foriera di inganni, colpe e peccati che cerca di non far affiorare in superficie. E’ quindi una colpa essere umani? E ancor più specificatamente americani? Forse sì. Forse la colpa sta proprio nella discriminazione, nella ricchezza in un mondo in cui la politica trascura i più deboli. 
“Noi” e il suo regista rendono quindi merito a un filone del genere horror ancora inesplorato, in cui elementi iconografici come la danza, ironia, tensione, paura, introspezione, emotività (l’amore materno, l’amore di coppia, le dinamiche familiari e interpersonali espressi a resa evidente dell’intima natura dei personaggi), psicologia e politica s’intrecciano in un plot che riesce a tenere alta la tensione senza strumentalizzare elementi orrorifici visionari, ma inserendoli nella realtà più familiare anche per lo spettatore, che si sente trasportato nella narrazione e inevitabilmente finisce per analizzare le sue emozioni e i sui comportamenti paragonandoli a quelli dei protagonisti sullo schermo. 
E poco importa se la credibilità della conclusione (inaspettata e anch’essa doppiamente allegorica) è in effetti debole e messa in discussione dal raziocinio che non trova totale soddisfazione nella sua spiegazione. Ciò che conta è che quello che vediamo sullo schermo ci fa reagire ed emozionare non per la paura di un mondo onirico, ignoto e mefistofelico, ma per il trauma di sentirci persi nel mondo reale, in cui la costante minaccia della rivoluzione degli oppressi fa capolino tra le nostre più abiette e ancestrali colpe di esseri umani.
 
Valeria Volpini
 
 
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Dal creatore del successo mondiale Scappa - Get Out, arriva un nuovo lungometraggio annoverabile nel filone del thriller psicologico.
La storia ruota attorno agli eventi vissuti dalla benestante famiglia Wilson: madre (Lupita Nyong’o), padre (Winston Duke) e dai due esuberanti figli (Evan Alex e Shahadi Wright Joseph).
Nonostante il livello generale di recitazione del cast non sia sorprendente, le espressioni facciali e le reazioni emotive di cui fanno sfoggio gli attori sono estremamente evocative. Il film, difatti, si distingue dai suoi simili per i plot-twist mai banali e ben inseriti: c’è una ricerca graduale dello spavento, piuttosto che giocare sul sicuro con dei jump-scare poco originali.
Una costante atmosfera rilassata e tranquilla permane in stridente contrasto anche nelle scene di estrema tensione, facendo di questo straneamento percettivo un crescendo di pathos, che avviene in modo del tutto naturale e funzionale ad un'esperienza godibile e mai noiosa.
Il finale aperto ed una sceneggiatura non pienamente compiuta sembrerebbero preannunciare un possibile sequel. L’opera di Peele potrebbe essere soggetta a molteplici interpretazioni; da una critica sociale e politica ad un manifesto contro la discriminazione razziale. Tuttavia se ci si aspettava di vedere qualcosa sui toni cruenti che il trailer aveva preannunciato, si finisce col rimanerne in qualche modo delusi.
Interessante invece il punto di vista dell’intreccio narrativo che sembra farci credere di giocare tutto sul concetto di un Black Mirror, dove ci specchiamo, ottenendo indietro un’immagine di noi corrispondente, ma sporca, oscura e contorta. Quello che vediamo nello specchio siamo noi, o almeno quel lato scabroso, che giace dormiente, al nostro interno.
L'approcciarsi ad un simile lavoro sarà fondamentale per capire che tipo di corde riesce a toccare e a quali paure ancestrali riesce ad attingere, rimanendo prima di ogni altra cosa un'esperienza del tutto personale per poterne valutare o meno l'efficacia.
 
 
Valeria Marra

Fratelli Nemici - Close Enemies

Giovedì 06 Settembre 2018 12:09 Pubblicato in Recensioni
Nati e cresciuti in una banlieue in cui domina la legge del narcotraffico, Manuel (Matthias Schoenaerts) e Driss (Reda Kateb), entrambi immigrati di seconda generazione, un tempo erano come fratelli. Da adulti però le loro vite  si separano: Manuel ha abbracciato la vita criminale, Driss al contrario, è diventato un poliziotto. A seguito di un grande affare di droga andato storto, Manuel sarà costretto ad accettare la protezione di Driss rendendosi conto di essere indispensabili l’un l’altro quando, l’unica cosa rimasta a unirli, è l’attaccamento viscerale al luogo di appartenenza. 
Una città gelida di notti livide e cieli spenti è antefatto e sfondo di questo noir poliziesco, presentato alla 75esima Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia. Dopo l’acclamato Far From Men (basato su un racconto di Camus,sempre presentato a Venezia nel 2014 e con Kateb nel cast ad affiancare Viggo Mortensen), Oelhoffen si affina ancora di più sul dramma psicologico nato da una fratellanza che va ben oltre i legami di sangue.  Ne scaturisce un polar su terre di confine, specchio di una società deviata nella quale si agitano personaggi la cui vita ha percorsi obbligati. Il contesto mostratoci è di assoluta criminalità, tipico di tante storie reali prima che immaginate, dove le uniche leggi presenti sono quelle imperniate sui codici d’onore, di famiglie che si sostituiscono alle leggi dello stato aggirandole, corrompendole, mostrando di muovere ugualmente i loro illeciti su binari paralleli e perfettamente coesistenti. L’unico concetto di economia presente in certi nuclei organizzati è quello dell’homo homini lupus, complici lotte intestine all’interno della stessa fazione, perché alla fine dei conti si arriva sempre soli di fronte alla morte. Due grandi interpretazioni quelle di Schoenaerts  e  Kateb, quest’ultimo eccezionale in un perenne conflitto con se stesso, abitante di un mondo di mezzo tra un’alternativa di vita ed il suo opposto speculare, a monito costante quello che sarebbe potuto diventare, al contrario di Manuel che, nonostante tutta la sua rabbia, resterà sempre un topo in una gabbia. 
Oelhoffen sostiene l’importanza di un lavoro nato da uno sguardo disincantato sulla nuova realtà francese (ormai è storia comune e vicina a tutti), in cui la cultura araba è molto presente. Non c’è una famiglia francese – continua - senza un membro che non abbia un solo legame con qualcuno in Algeria o di origini maghrebine: il centro della Francia e il Maghreb sono intimamente legati, è il frutto della storia coloniale molto tormentata, quello che i suoi lavori cercano di restituire.
Appare chiara la volontà di costruire un film che si concentri sull’aspetto umano, senza voler essere giudicanti o limitati in dei cliché, cercando di mostrare un’umanità a tutto tondo in cui forte è l’identità emotiva. Ogni personaggio potrebbe così essere tranquillamente interscambiabile, a testimonianza che non è una questione di popoli o razze ma di contesto in cui si è inseriti a farci scivolare in certi schemi. L’emotività, qui avulsa dalle azioni commesse al di là di qualsiasi forma di biasimo, è l’aspetto che anche Schoenaerts tenterà di calcare nella costruzione del suo Manuel, il cui operato diviene il mero risultato di imposizioni e regole di un ambiente fortemente compromesso, dal quale ognuno cercherà di uscirne vivo come può.
 
Chiara Nucera

In Guerra

Sabato 19 Maggio 2018 16:40 Pubblicato in Recensioni
Ancora una volta insieme Stéphane Brizé e Vincent Lindon, dopo l’amaro La legge del Mercato (Palma a Lindon come miglior protagonista nel 2015). E come allora, il regista francese scrive il suo En Guerre con Olivier Gorce.
La storia (di finzione) a cui assistiamo è la battaglia sindacale di un gruppo di lavoratori traditi dalla propria azienda. Hanno rinunciato a premi ed a diverse ore settimanali di stipendio per garantire alla società il proseguimento dell’attività. E poi questa decide di chiudere i battenti e trasferire la produzione all’Est, dove la manodopera costa meno ed i guadagni a fine anno avranno conseguentemente un notevole incremento.
L’azienda sventola orgogliosa la bandiera della competitività come arma di difesa. I lavoratori vogliono però far sentir la loro voce alla direzione tedesca e anche lo stato, che dovrebbe tutelarli, si schiera al fianco dei potenti. Il portavoce dei lavoratori all’interno delle assemblee e dei dibattiti è Eric Laurent (Vincent Lindon).
Funzionario tenace e sempre in prima linea. La lotta, dopo un lungo periodo di scioperi e proteste e scarse risposte, rende i 1100 dipendenti “En Lutte” irascibili e l’unione tra di loro piano piano viene a mancare. La troppa tensione mista alla paura di perdere tutto lacera irrimediabilmente i rapporti tra colleghi. Anche quando sembra che il dialogo con la dirigenza si possa riaprire, questo è solamente un castello di carte che alla prima leggera folata di vento viene giù peggiorando la situazione. Contingenza che diventa estremamente aspra e degenera in violenza.
 
At War (titolo all’inglese), in concorso al Festival di Cannes, è stato accolto da molti applausi. Ci sentiamo di condividere questa accoglienza, in quanto il film di Stéphane Brizé, anche se molto simile al precedente La legge del mercato (stessa forma e un marcato realismo), è un film compatto, che mette in evidenza quanto siano in caduta libera e ormai perduti i valori morali, calpestati e ghettizzati. Evidenzia con spietata verità le difficoltà dei lavoratori odierni in balia del cinismo delle grandi multinazionali. Di En Guerre colpisce la profondità e la potenza che emana. Il regista per la realizzazione di questo lungometraggio si è avvalso della consulenza di Xavier Mathieu, leader della rivolta degli impiegati della Continental di Clairoix. Il suo supporto ha potuto garantire all’autore una visione molto vicina alla verità. Lo sguardo pragmatico di Stéphane Brizé entra così prepotentemente all’interno di quei temi politici, a lui tanto cari.
Regia che si infiltra nelle riunioni tra dirigenti e sindacalisti, al limite del documentario. Ridotto al lumicino lo spazio per la fiction. Direzione attenta, rigorosa e scrupolosa. Usando anche le nuove tecnologie (fotocamera di uno smartphone) per avvicinarci sempre più alla realtà. Denuncia i fatti. Reportage televisivi degni della CNN. Tutto questo sfoderando uno stile asciutto, senza tanto perdersi in inutili magheggi. E’ perennemente presente nei momenti clou con il suo Virgilio, un Vincent Lindon strepitoso. La sua è una magnifica interpretazione in sottrazione: sofferta, energica e amara. Anima del film, baluardo ed icona di dignità. Rappresenta l’intera lotta e la débacle del suo gruppo. Brizé non vuole incitare alla violenza, ma vuole dare spazio a quelle persone che hanno perso tutto. In un mondo sempre meno attento al concetto di umanità. Praticamente deriso e schiacciato come una formica. Si schiera, ma fondamentalmente lo fa solo scegliendo di fare un film del genere, non nel film stesso. Non è retorico, ma rispetto alla Legge del mercato spinge un po’ troppo sul dramma. Piccola pecca, che comunque non lede il valore assoluto del film. 
 
En Guerre piace sicuramente a Ken Loach (Io, Daniel Blake, Palma d’Oro Cannes 2016). Evidente la tematica cara al pluripremiato regista britannico. Lo spettatore uscirà dalla sala con un groppo alla gola e uno stato d’animo destabilizzato dallo sconforto, che cresce minuto dopo minuto. Si perché, ad un certo punto, si percepisce che la strada intrapresa dai scioperanti non ha una via d’uscita ed il peggioramento non conosce fine. 
 
David Siena
 
 

Yomeddine

Venerdì 18 Maggio 2018 16:27 Pubblicato in Recensioni
Senza infamia né lode l’opera prima dell’egiziano A.B. Shawky. Forse non proprio da concorso di Cannes, ma in un’annata dove le piattaforme più gettonate del nuovo millennio (Netflix e Amazon) sono state boicottate senza diritto di replica, ci si può aspettare un’opera forse non proprio all’altezza di un palmares così prestigioso, che ha comunque il pregio di non mettere in scena gli scontati stereotipi politico-culturali dell’Egitto contemporaneo. Crediamo nella sua sincerità e a conti fatti gli si può perdonare il suo fare ricattatorio e moralista. 
 
Lontano dalle piramidi e dal turismo, un’anonima località egiziana ospita un lebbrosario. L’elemento umano più rappresentativo si chiama Beshay (Rady Gamal). Per lui la tremenda malattia ha fatto il suo corso. Non è più infettivo e ora l’unico suo pensiero è rivolto alla moglie, in gravi condizioni di salute. Beshay non ha mai lasciato la colonia e probabilmente non ha idea della vastità del deserto che lo circonda. E’ stato portato lì da piccolo e quella minuscola porzione di mondo è tutto quello che possiede. Ma quando la consorte viene a mancare prende una rivoluzionaria decisione: intraprendere un viaggio in sella ad un asino alla ricerca del padre. Appena fuori da quella reietta comunità vive Obama (Ahmed Abdelhafiz), ragazzino nubiano rimasto orfano. Il lebbroso si è sempre preso cura di lui e anche adesso non lo abbandona al suo destino, ma lo porta con se. Inizia così un’improbabile viaggio avviato da altrettanti improbabili personaggi. Cammino in una terra povera, fatta di povere persone, alla ricerca di se stessi. La terra promessa si chiama famiglia, amicizia ed integrazione. Il mondo vero è duro da affrontare. Il percorso è impervio e pieno di buche (dispiaceri), ma in fondo alla strada la casa (con tutto il suo più umano e caldo significato) sembra non essere più solo un miraggio.
 
Anche i muri ormai sanno che il genere on the road è un tipo di film che aiuta a migliorare, perdere, ritrovare se stessi o i rapporti con gli altri. Forse i deserti però non lo sanno. A parte l’ironia, sono pochi i film in sella ad un somaro o ad un cammello rispetto ai classici motori. Qui il regista, che per il suo esordio dietro la macchina da presa ha collaborato con attori non professionisti, si avvale del genere ondivago per raccontare l’incredibile vita ritrovata di un personaggio ai confini del mondo insieme ad un affettuoso ragazzino a digiuno di genitori. Crescita impensabile alle premesse. E A.B. Shawky, con fare un po’ ruffiano, si prende cura dei legami; ne giova la confezione, che risulta gradevole. Il tutto coadiuvato da un lineare, frizzante, ed in alcune scene ironico, sviluppo narrativo. Scorre veloce senza appesantire. Il film non ha sotto testi particolari, è tutto lì, in superfice. Studiato per prendere il cuore. Diretto con uno sguardo occidentale; il ragazzo non si chiama Obama mica per niente. Decisamente a fuoco la fotografia, sincronizzata con il realismo della pellicola.
 
Tra i deformi della storia del cinema ci piace accostare Beshay a Sloth (dei Goonies). E’ un accostamento un po’ bizzarro, che fa sorridere, ma se pensate al risultato finale, il paragone calza a pennello. Chi non ricorda Sloth, quell’omone dallo storto sorriso, che tanto ci ha fatto tifare per lui e per la sua fuga da una famiglia crudele e terribile. La si fuggiva dalla famiglia, ma se ne trovava un’altra (con il suo fidato amico Chunk). Qui si fugge da un’esistenza spezzata in partenza e si arriva esattamente dove è arrivato Sloth. Entrambe sono storie di formazione, diametralmente opposte nel contesto (caccia al tesoro/deserto), che trovano nell’amicizia la formula per trovare un’isperata felicità.
 
Yomeddine non si piange mai completamente addosso e auto ironizza con intelligenza narrativa. Poi, come già accennato ad inizio recensione, il film può passare velocemente nell’anonimato. Opera dai buoni propositi, che non scopre nulla di nuovo e ha una forza limitata, in grado di colpire fino all’accensione delle luci in sala, per poi non lasciare per forza un ricordo indelebile nello spettatore.
 
David Siena