Un esordio notevole che ricorda i "primi" Dardenne
Applaudita a Cannes, e pluripremiata con il "Nastro d'argento " e con il "premio Amidei" come migliore regista esordiente, l'opera prima di Alice Rohrwacher CORPO CELESTE è senz'altro uno dei migliori esordi degli ultimi anni .
La regista, neanche trentenne, non vanta una lunga esperienza. La vediamo prevalentemente alle prese con il montaggio di documentari in passato. Chissà che non sia stata proprio quest'esperienza nell'ambito documentaristico a donarle la straordinaria abilità di "saper guardare". La storia, infatti, si snoda silenziosa, ma carica di una "sana rabbia adolescenziale", tra i mille dettagli che fanno sentire ancora di più che dietro la macchina da presa c'è una donna.
Un esordio che in qualche modo ricorda i primi fratelli Dardenne di "Rosetta" e "L'enfant", in modo particolare per la capacità di spiare quella vita quotidiana, che da sola basta a raccontare una generazione, una terra, una fede.
Protagonista del film la piccola Marta, che dopo aver vissuto per un periodo in Svizzera torna con la mamma (Anita Caprioli) e la sorella, a Reggio Calabria. Qui ci presta i suoi occhi per guardare in faccia una comunità cattolica "brutta" a tal punto da diventare grottesca e un'immensa periferia fatta di cavalcavia e tristi fiumare, che accrescono quella sensazione di desolazione e freddo che accompagna tutto il film.
Si è parlato inoltre, ancor prima dell'uscita in sala, di un'opera di denuncia verso la chiesa, e la regista stessa ha così smentito “Non volevo offendere la Chiesa, anzi, sono un’ammiratrice di padre Giacomo Panizza delle Comunità Progetto Sud e se dovessi scegliere tra Chiesa e tv, per mia figlia Anita che sto crescendo come atea, direi Chiesa”
Effettivamente, la sceneggiatura stessa non mette in evidenza critiche troppo forti, ma nonostante questo lo spettatore non può esimersi dal fare una riflessione intima e onesta sulla chiesa e i suoi apparati.
Renilde Mattioni
Cheyenne (Sean Penn) è una rockstar non più giovanissima che è uscita dal giro. Ha suonato con i grandi, tra cui Mick Jagger e David Byrne (che compare in persona nel film), tant'è che la gente lo riconosce ancora per strada, suo malgrado. Nonostante continui a tenere i capelli cotonati, a coprirsi il volto di cerone, a passarsi il rossetto sulle labbra e lo smalto sulle unghie, sta attraversando un periodo di profonda noia, che scambia a tratti per depressione. Apatico e legato da trentacinque anni alla stessa donna, sua moglie (Frances McDormand), si muove su e giù per le vie di Dublino con il suo carrello della spesa, finché un giorno la morte del padre, ebreo sopravvissuto ai campi di concentramento, non lo porta a New York, dove scoprirà che il genitore aveva intrapreso da anni la caccia ad un criminale nazista, tale Aloise Lange (Heinz Lieven). Per riscattare il rapporto paterno interrotto trent'anni prima, Cheyenne raccoglierà il testimone, avventurandosi in un'improbabile caccia all'uomo lungo gli Stati Uniti, che gli darà nuova spinta vitale...
Quale regista europeo non ha tentato l'esperienza “americana”? Tutti. A quanti è andata bene? Ben pochi.
Paolo Sorrentino, già acclamato a Cannes con Il divo tre anni fa, e vincitore in sordina nell'ultima edizione del Premio della Giuria con questa sua ultima opera, si pone come eccezione che conferma la regola.
Scrivendo la sceneggiatura insieme ad Umberto Contarello, rievocando la storia dell'omonima canzone dei Talking Heads e partendo dall'iniziale idea di “una caccia”, divide il film in due parti. La prima è dedicata interamente alla costruzione di Cheyenne, un personaggio raccontato come da tempo non si vedeva sul grande schermo: un uomo che a cinquant'anni suonati continua a “mascherarsi”, cercando di nascondere il senso di colpa per due suoi fan suicidatisi a causa delle sue canzoni dark, girovagando sempre con un carrello della spesa e poi con un trolley, simboli di un fardello irremovibile. La seconda è volta alla decostruzione dello stesso personaggio, portato a confrontarsi con la figura paterna, per lungo tempo ignorata, ma indimenticabile, che lo condurrà in un lungo viaggio nel cuore degli Stati Uniti, alla ricerca delle radici e di se stesso. Smarrito negli USA, l'ex-cantante si confronterà con vari familiari del criminale ricercato, prima la moglie e poi la figlia, entrambe anime in crisi che ne hanno perso le tracce. Presentatosi come John Smith, quindi ancora una volta mascherato, scoprirà nelle due donne l'importanza della famiglia, rispettivamente per eccesso e per difetto. Alla fine la punizione, malgrado le premesse apocalittiche, sarà solo simbolica.
Utilizzando un Sean Penn in stato di grazia, imperdibile nella versione originale, che parla con una vocina stentata ed assume posture improbabilmente rigide, contornato da un validissimo cast tra cui spiccano Frances McDormand, Judd Hirsch e Harry Dean Stanton, Sorrentino fa della regia il suo punto di forza. Tornando agli stilemi dei primi film ostenta suoi vezzi, come la bottiglia/passaggio a livello e la particolare costruzione di alcune scene, come quella dell'incontro finale col nazista Lange, girata nella scomposizione di una coazione a ripetere, mostrando ogni volta un dettaglio ulteriore, fino a svelare la presenza in stanza dello stesso Cheyenne.
This must be the place è anche un'opera sulla visione: quella filtrata “in soggettiva” dagli occhi bistrati e spesso quasi socchiusi del protagonista, quella spenta per sempre degli occhi ormai serrati del padre, che però per tutta una vita hanno fissato un obiettivo, quella infine che attinge al passato del non (più) vedente Lange, protetto da spessi occhiali scuri.
Il regista partenopeo, come ogni grande autore, fa in fondo sempre lo stesso film: il suo è un cinema di personaggi solitari, al margine, come l'uomo in più Pisapia dell'omonimo esordio, come il Titta Di Girolamo de Le conseguenze dell'amore o il Geremia de' Geremei de L'amico di Famiglia o ancora l'Andreotti esplorato ben oltre i trecentosessanta gradi de Il divo, tutti loro si riversano in Cheyenne che attraversa l'intera storia, filmica e mondiale, nei suoi ultimi settant'anni, arrivando a confrontarsi con l'olocausto, quasi indenne.
Nell'ultima enigmatica scena il cerchio si chiude: un Penn ormai non più Cheyenne ricompare per la visibile gioia della madre dello scomparso amico Tony. Chiunque egli sia (Tony? Cheyenne? Penn?), il viaggio si è compiuto, un uomo è stato trovato ed un altro s'è ritrovato. Ed un regista s'è ancora una volta confermato un autore di razza.
Paolo Dallimonti
Dalla conferenza stampa di A Beautiful Day, l'ultimo film di Lyanne Ramsay con Joaquin Phoenix.
Phoenix ci parla del suo personaggio, un vendicatore ma con grandi fragilità umane.
Atteso dal Festival di Cannes della scorsa stagione è infine arrivato, si fa per dire, nelle nostre sale uno dei pochi autentici film d'autore: "We need to talk about Kevin" diretto dalla giovane regista inglese Lynne Ramsay.
Per noi fortunati spettatori romani la programmazione ha previsto unica sala il Barberini, non oso pensare cosa abbia dovuto fare un appassionato leccese o un trevigiano per poter assistere alla proiezione, forse il biglietto d'ingresso era abbinato a un volo low-cost.
Comunque, dicevo autentico film d'autore riferendomi al fatto che, a parte i soliti noti che l'autorialità se la possono permettere (vedi Malick, Lars Von Trier e ultimamente Nicolas Winding Refn) è diventato sempre più raro assistere a seconde o addirittura in questo caso a terze opere che non debbano scendere a patti con il demone del box-office. Si perchè seppure piuttosto giovane la nostra Lynne è al suo terzo lungometraggio dopo l'esordio notevole di "Ratcatcher" (1999) e il seguente "Morvern Callar" (2002). Un cinema per niente facile quello di Lynne Ramsay, fatto di suspence e di ossessioni, ma che puntualmente al momento del colpo di scena, vede arrestare l'azione narrativa per tornare indietro o addirittura volare oltre a raccontare angosce precedenti o future della protagonista. Protagonista si e al femminile a dispetto del titolo perché se è vero che nel film si parla di Kevin, la protagonista assoluta è Eva, madre di Kevin e non casualmente, per il nome che porta, madre di tutti noi, prima procreatrice di questa santa Terra destinata a generare il Male. Eva è una straordinaria Tilda Swinton che nel suo essere anoressico-androgino raccoglie tutta l'essenza della madre spiazzata, affranta, angosciata da una gravidanza, da una maternità e da un "dopo" che possiamo cogliere e vivere insieme a lei fin dai titoli di testa.
Il suo camminare insicura, inciampando con queste scarpe deformate, indossate da un piede troppo magro e a disagio, rimane una immagine indelebile, che nella scena finale avrà un significato enorme. Il desiderio sarebbe di vederla camminare scalza per non vederla soffrire, magari come Jessica Chastain la signora O'Brien di "The Tree of life" che sembra danzare, libera e in armonia con Madre Natura sull'erba del giardino con i suoi figlioletti. Ma questa è un'altra storia. Tornando all'opening del film, grande significato ha la scena iniziale che ricorderebbe a prescindere dalla successiva apparizione della Swinton, il grandissimo regista inglese Derek Jarman del quale l'attrice era strumento indispensabile per le proprie opere. Non a caso fotografia e messa in scena per Lynne Ramsay sono di uno stile quasi pittorico, durissime nell'essenza ma romanticissime nella forma, proprio come per Jarman. E dire che qualcuno del film alla sua presentazione a Cannes aveva parlato di "film-horror". Ma come si può? Come è possibile focalizzare e ridurre questo film alla sola natura "evil" di Kevin? Se alcune venature horror sono presenti nel film, è solare che da parte di Lynne Ramsay non c'è nessuna intenzione di fare un film di genere: non dobbiamo sottostare ad alcun sussulto sulla poltrona, a musiche "da paura" o peggio a movimenti di macchina nevrotici e caotici tipici del genere horror. Il film scaturisce dalla cultura inglese ed è radicato in modo così netto che mai per un momento ci è dato pensare ai thriller made in USA.
In questo e in molto altro Lynne Ramsay da garanzia di autorialità, di scuola e tradizione culturale che fanno del suo "We need to talk about Kevin" un prodotto spiazzante ma esaltante, angoscioso ma poetico. Una ventata di forte personalità in un panorama cinematografico fin troppo omologato in questi ultimi anni.
La sensazione al termine della visione, o meglio il "sapore" che lascia il film della Ramsay è lo stesso provato vedendo "Lasciami entrare" di Tomas Alfredson alla sua uscita: qualcosa di nuovo e di classico allo stesso tempo, qualcosa di irripetibile nonostante molti ci proveranno...
Marco Castrichella