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Yomeddine

Venerdì 18 Maggio 2018 16:27
Senza infamia né lode l’opera prima dell’egiziano A.B. Shawky. Forse non proprio da concorso di Cannes, ma in un’annata dove le piattaforme più gettonate del nuovo millennio (Netflix e Amazon) sono state boicottate senza diritto di replica, ci si può aspettare un’opera forse non proprio all’altezza di un palmares così prestigioso, che ha comunque il pregio di non mettere in scena gli scontati stereotipi politico-culturali dell’Egitto contemporaneo. Crediamo nella sua sincerità e a conti fatti gli si può perdonare il suo fare ricattatorio e moralista. 
 
Lontano dalle piramidi e dal turismo, un’anonima località egiziana ospita un lebbrosario. L’elemento umano più rappresentativo si chiama Beshay (Rady Gamal). Per lui la tremenda malattia ha fatto il suo corso. Non è più infettivo e ora l’unico suo pensiero è rivolto alla moglie, in gravi condizioni di salute. Beshay non ha mai lasciato la colonia e probabilmente non ha idea della vastità del deserto che lo circonda. E’ stato portato lì da piccolo e quella minuscola porzione di mondo è tutto quello che possiede. Ma quando la consorte viene a mancare prende una rivoluzionaria decisione: intraprendere un viaggio in sella ad un asino alla ricerca del padre. Appena fuori da quella reietta comunità vive Obama (Ahmed Abdelhafiz), ragazzino nubiano rimasto orfano. Il lebbroso si è sempre preso cura di lui e anche adesso non lo abbandona al suo destino, ma lo porta con se. Inizia così un’improbabile viaggio avviato da altrettanti improbabili personaggi. Cammino in una terra povera, fatta di povere persone, alla ricerca di se stessi. La terra promessa si chiama famiglia, amicizia ed integrazione. Il mondo vero è duro da affrontare. Il percorso è impervio e pieno di buche (dispiaceri), ma in fondo alla strada la casa (con tutto il suo più umano e caldo significato) sembra non essere più solo un miraggio.
 
Anche i muri ormai sanno che il genere on the road è un tipo di film che aiuta a migliorare, perdere, ritrovare se stessi o i rapporti con gli altri. Forse i deserti però non lo sanno. A parte l’ironia, sono pochi i film in sella ad un somaro o ad un cammello rispetto ai classici motori. Qui il regista, che per il suo esordio dietro la macchina da presa ha collaborato con attori non professionisti, si avvale del genere ondivago per raccontare l’incredibile vita ritrovata di un personaggio ai confini del mondo insieme ad un affettuoso ragazzino a digiuno di genitori. Crescita impensabile alle premesse. E A.B. Shawky, con fare un po’ ruffiano, si prende cura dei legami; ne giova la confezione, che risulta gradevole. Il tutto coadiuvato da un lineare, frizzante, ed in alcune scene ironico, sviluppo narrativo. Scorre veloce senza appesantire. Il film non ha sotto testi particolari, è tutto lì, in superfice. Studiato per prendere il cuore. Diretto con uno sguardo occidentale; il ragazzo non si chiama Obama mica per niente. Decisamente a fuoco la fotografia, sincronizzata con il realismo della pellicola.
 
Tra i deformi della storia del cinema ci piace accostare Beshay a Sloth (dei Goonies). E’ un accostamento un po’ bizzarro, che fa sorridere, ma se pensate al risultato finale, il paragone calza a pennello. Chi non ricorda Sloth, quell’omone dallo storto sorriso, che tanto ci ha fatto tifare per lui e per la sua fuga da una famiglia crudele e terribile. La si fuggiva dalla famiglia, ma se ne trovava un’altra (con il suo fidato amico Chunk). Qui si fugge da un’esistenza spezzata in partenza e si arriva esattamente dove è arrivato Sloth. Entrambe sono storie di formazione, diametralmente opposte nel contesto (caccia al tesoro/deserto), che trovano nell’amicizia la formula per trovare un’isperata felicità.
 
Yomeddine non si piange mai completamente addosso e auto ironizza con intelligenza narrativa. Poi, come già accennato ad inizio recensione, il film può passare velocemente nell’anonimato. Opera dai buoni propositi, che non scopre nulla di nuovo e ha una forza limitata, in grado di colpire fino all’accensione delle luci in sala, per poi non lasciare per forza un ricordo indelebile nello spettatore.
 
David Siena