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In effetti, mancava. Mancava un film del genere nella speciale collezione di generi affrontata dal regista Tarantino. Dopo anni e anni di lodi e piccoli omaggi (su tutti, la scena dell'orecchio in Le iene), finalmente il regista realizza il proprio sogno e porta in scena il tanto amato Django.
Aveva sfiorato il tutto 5 anni fa, collaborando al tributo del regista giapponese Takashi Miike, che con il suo Sakiyaki Western Django era riuscito a fondere lo spirito dello spaghetti-western con la tradizione giapponese. D'altra parte, ci si può aspettare solo questo da due pazzi come Miike e Tarantino.
Ed eccoci finalmente all'inizio del 2012, quando iniziano le riprese di questa pellicola. Il cast è pazzesco e in continuo mutamento. Il protagonista dovrebbe essere Will Smith, confermati anche Waltz e Samuel L. Jackson. Poi Smith si ritira, al suo posto viene contattato Idris Elba. Nel frattempo si aggiungono DiCaprio e Kevin Costner. Elba viene accantonato e al suo posto viene preferito il premio oscar Jamie Foxx, al quale si aggiunge Don Johnson. Costner si tira fuori, viene sostituito da Kurt Russell ma poco dopo si tira fuori pure lui. Si completa il casting con Gerald McRaney, M.C. Gainey, Tom Savini, RZA, Anthony LaPaglia e Kerry Washington. Le cigliegine sulla torta dovevano essere Joseph Gordon-Levitt e Sacha Baron Cohen, ma purtroppo hanno dovuto rifiutare per altri impegni. (ps: da apprezzare il cammeo esplosivo dello stesso Quentin...)
Con una squadra del genere a disposizione, molti registi avrebbero già gran parte del lavoro fatto. Ma è qui che si vede la differenza tra normale e speciale. Tarantino prende e mescola, confonde, reinventa, stupisce e serve al pubblico uno spettacolo di toni e colori che superano i suoi lavori precedenti. Tenendo presente che per Kill-Bill (punto di riferimento, vertice della sua opera) ha dovuto scindere il lavoro in due capitoli. Qui riesce a contenersi e crea quasi due capitoli interni, coerenti comunque per carattere e ritmo. Tutto il film è infatti intriso di ironia, tensione e musica.
Questi sono gli elementi che contraddistinguono le due ore e passa di narrazione, intervallati da scene pulp, ingressi trionfali, comicità pura (la scena dei finti membri del Ku Klux Klan su tutte...) movimenti di macchina magistrali e continui riferimenti al genere di partenza, ovvero il western italiano.
E qualcosa di italiano c'è a contribuire alla riuscita dell'opera. C'è l'apparizione, quasi d'obbligo, del Django originale, Franco Nero. C'è la colonna sonora di Morricone e soprattutto, c'è la voce di Elisa che accompagna il momento più delicato del film, cantando proprio in italiano. Il che fa un certo effetto, mischiato all'incomprensibile americano del sud parlato da alcuni personaggi, o al curioso anglo/franco/tedesco parlato da Waltz.
Un ultimo appunto va fatto ai costumi, capaci di creare da soli un personaggio. Da oggi in poi, nelle prossime feste in maschera vedremo quasi di sicuro almeno un paio di genialate uscite da questo film. Non voglio spoilerare nulla, vedere per credere.
In conclusione, consiglio il film a tutti, perchè non manca quasi nulla a quest'opera (niente fantascienza / horror, giusto per capirci...), in particolar modo agli affezionati del regista e agli amanti di un gioco chiamato Red Dead Redemption...qualche spunto l'avrà preso anche da lì...
Alessandro Zorzetto
Film non ancora usciti in Italia o quasi introvabili recensiti per noi da Alessandro Zorzetto
Ormai la tecnica del found footage è nota a tutti ed è sfruttata, non sempre al meglio, per ridurre al minimo le spese di produzione di molti film horror. Per i pochi che ancora non siano a conoscenza di che si tratta, in poche parole il film sarà una specie di collage di video raccolti da più fonti, che possono essere amatoriali, telecamere di sicurezza, riprese fatte con telefonini o webcam, insomma, materiale eterogeneo e quasi sempre di media/bassa qualità.
Tutto ciò coinvolge molto di più lo spettatore, portandolo a pensare “questo potrei girarlo pure io!” e allo stesso tempo dimezza i costi di realizzazione, evitando attrezzature troppo care e (quasi sempre) eliminando attori di alto profilo o un numero troppo elevato di componenti nelle troupe.
Se a tutto questo aggiungiamo gli altissimi risultati ai botteghini riportati da questa tipologia di film, pare che nessuno ci vada a perdere. Se non fosse che ogni tanto si esagera, e con la scusa di guadagnare soldi facili, vengono portati sul grande schermo dei prodotti assolutamente inguardabili.
Esempi positivi di questo genere di film possono essere Hannibal Holocaust (1980, capostipite), The Blair Witch Project, Rec, Cloverfield, Paranolmal Activity (sa notare che i produttori sono gli stessi di The Bay). Esempi negativi sono essere i sequel o le improbabili versioni low low budget.
Per fortuna, non è il caso di The Bay, finto (?) documentario, non ancora distribuito in Italia, sui terribili fatti avvenuti in una tranquilla cittadina americana durante i festeggiamenti del 4 luglio.
Non voglio entrare troppo nella trama della pellicola, che è molto più vicina ad un documentario piuttosto che al filone horror eppure quello che vediamo spaventa, spaventa eccome. E non a causa della violenza (non ce n'è traccia) o di creature ultraterrene (idem...), ma per la possibilità concreta che tutto quel che vediamo sia vero, sia avvenuto in passato o, ancora peggio, possa accadere in futuro. Il punto di forza di “The Bay” è proprio l'aver sfruttato al meglio fattori che sono del tutto reali e preoccupanti, anche se, ovviamente, in questo caso vengono portati agli estremi.
Le reazioni dei cittadini sono le stesse che potremmo avere noi. Quel che accade non ha nulla di straordinario e, anzi, non si avverte assolutamente la possibilità che quel che ci viene proposto sia finto o improbabile.
Il ritmo del montaggio è ottimo e accompagna al meglio il susseguirsi degli eventi. Fotografia, audio e costumi lavorano al meglio e (presumo) senza troppi sforzi proprio grazie alla succitata tecnica del found footage. Se proprio si vuol trovare un difetto, ma è minimo, gli effetti speciali non sono sempre al top, in compenso il reparto trucco fa un lavoro ottimo, con pustole e mutilazioni di prima qualità.
Un film di sicuro per gli amanti del genere, ma anche per chi crede nei complotti mondiali e chi si domanda cosa ci sta nascondendo il governo. Assolutamente da evitare per chi soffre di misofobia o di talassofobia! (vedi anche http://www.madvero.it/articoli/paurefobieedintorni.asp)
Alessandro Zorzetto
La terza opera del regista tuttofare Cortés (qui contemporaneamente produttore, sceneggiatore, montatore e compositore) divide a metà la critica.
Red Lights inizia affrontando in maniera analitica, razionale e spudorata l'argomento a volte spinoso del paranormale. Protagonista della prima parte è una Sigurney Weaver in grande spolvero, maestra in tutti i sensi di un giovane Cillian Murphy (che non riesce più a raggiungere i livelli di “Red Eye”). Anche sfruttando la grandissima interpretazione della Weaver, la prima ora fila liscia come l'olio, coinvolge appieno lo spettatore, senza tempi morti e sembra preparare i fuochi d'artificio con l'ingresso in scena dell'altro pezzo da novanta: il mito, Robert De Niro.
Invece, come in un big match calcistico, i due fuoriclasse si danno il cambio, fuori la Weaver, dentro De Niro, lasciando le redini del gioco vengono in mano all'inesperto Murphy ed ecco il contraccolpo. La seconda ora di film cambia registro: non si tratta più di analisi scientifica e lotta razionale contro un sedicente medium, si passa ad una questione quasi personale, una lotta interna tra il “credere” o meno.
Da questo punto in poi vengono meno i due grossi punti di forza che avevano caratterizzato la pellicola, ovvero l'analisi razionale e l'immensa interpretazione della Weaver. Di contro ci ritroviamo con un “debole” e lasciato a se stesso Cillian Murphy e con un istrionico De Niro, che senza alcun freno si ritrova purtroppo a strafare.
Due estremi che stonano se messi uno dopo l'altro. Sorprendentemente però, tutto il lavoro iniziale riesce a sostenere abbastanza questa rivoluzione interna, così da portare lo spettatore al climax finale senza troppo malumore, sempre se si accetta il colpo di scena, dal momento che moltissime opere perfette vengono rovinate da finali “imprevisti”.. Figuriamoci opere non perfette!
Una scelta conclusiva dunque difficile e capace di scatenare i più vasti dissapori su questo ultimo lavoro di Cortés.
Per il resto in effetti “Red Lights” è più che sufficente, nonostante dei giri a vuoto nella parte centrale, lo stile è sempre pulito e asseconda gli stati d'animo dei personaggi. Il fatto che il regista faccia da factotum rivestendo più ruoli strategici risulta evidente e aiuta sicuramente il ritmo e l'intenzione narrativa. La fotografia tra il cupo e l'autunnale di Xavi Gimenez contribuisce ancora di più a creare la giusta atmosfera.
Un film da vedere senza troppe aspettative, con molte potenzialità, purtroppo non sfruttate al meglio.
Alessandro Zorzetto