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Django Unchained

Domenica 30 Dicembre 2012 00:40

 

In effetti, mancava. Mancava un film del genere nella speciale collezione di generi affrontata dal regista Tarantino. Dopo anni e anni di lodi e piccoli omaggi (su tutti, la scena dell'orecchio in Le iene), finalmente il regista realizza il proprio sogno e porta in scena il tanto amato Django.

Aveva sfiorato il tutto 5 anni fa, collaborando al tributo del regista giapponese Takashi Miike, che con il suo Sakiyaki Western Django era riuscito a fondere lo spirito dello spaghetti-western con la tradizione giapponese. D'altra parte, ci si può aspettare solo questo da due pazzi come Miike e Tarantino.

Ed eccoci finalmente all'inizio del 2012, quando iniziano le riprese di questa pellicola. Il cast è pazzesco e in continuo mutamento. Il protagonista dovrebbe essere Will Smith, confermati anche Waltz e Samuel L. Jackson. Poi Smith si ritira, al suo posto viene contattato Idris Elba. Nel frattempo si aggiungono DiCaprio e Kevin Costner. Elba viene accantonato e al suo posto viene preferito il premio oscar Jamie Foxx, al quale si aggiunge Don Johnson. Costner si tira fuori, viene sostituito da Kurt Russell ma poco dopo si tira fuori pure lui. Si completa il casting con Gerald McRaney, M.C. Gainey, Tom Savini, RZA, Anthony LaPaglia e Kerry Washington. Le cigliegine sulla torta dovevano essere Joseph Gordon-Levitt e Sacha Baron Cohen, ma purtroppo hanno dovuto rifiutare per altri impegni. (ps: da apprezzare il cammeo esplosivo dello stesso Quentin...)

Con una squadra del genere a disposizione, molti registi avrebbero già gran parte del lavoro fatto. Ma è qui che si vede la differenza tra normale e speciale. Tarantino prende e mescola, confonde, reinventa, stupisce e serve al pubblico uno spettacolo di toni e colori che superano i suoi lavori precedenti. Tenendo presente che per Kill-Bill (punto di riferimento, vertice della sua opera) ha dovuto scindere il lavoro in due capitoli. Qui riesce a contenersi e crea quasi due capitoli interni, coerenti comunque per carattere e ritmo. Tutto il film è infatti intriso di ironia, tensione e musica.

Questi sono gli elementi che contraddistinguono le due ore e passa di narrazione, intervallati da scene pulp, ingressi trionfali, comicità pura (la scena dei finti membri del Ku Klux Klan su tutte...) movimenti di macchina magistrali e continui riferimenti al genere di partenza, ovvero il western italiano.

E qualcosa di italiano c'è a contribuire alla riuscita dell'opera. C'è l'apparizione, quasi d'obbligo, del Django originale, Franco Nero. C'è la colonna sonora di Morricone e soprattutto, c'è la voce di Elisa che accompagna il momento più delicato del film, cantando proprio in italiano. Il che fa un certo effetto, mischiato all'incomprensibile americano del sud parlato da alcuni personaggi, o al curioso anglo/franco/tedesco parlato da Waltz.

Un ultimo appunto va fatto ai costumi, capaci di creare da soli un personaggio. Da oggi in poi, nelle prossime feste in maschera vedremo quasi di sicuro almeno un paio di genialate uscite da questo film. Non voglio spoilerare nulla, vedere per credere.

In conclusione, consiglio il film a tutti, perchè non manca quasi nulla a quest'opera (niente fantascienza / horror, giusto per capirci...), in particolar modo agli affezionati del regista e agli amanti di un gioco chiamato Red Dead Redemption...qualche spunto l'avrà preso anche da lì...

 

Alessandro Zorzetto

Il Re Leone

Domenica 18 Agosto 2019 10:31
Scordatevi il concetto di “Remake” che conoscete, “Il Re leone” di Jon Favreau non è un semplice rifacimento del capolavoro di animazione Disney del 1994, è l’esempio lampante di quanto stia cambiando il gusto visivo del pubblico, pone, seppure su una scala di differenti valori, la stessa domanda che il mondo si è fatto dopo la creazione della pecora Dolly. 
È una questione morale. 
Le versioni “live-action” dei classici Disney, proposte negli ultimi anni (l’ultima uscita Aladdin, 2018) figlie dell’operazione iniziata nel 1996 con “La carica dei 101-Questa volta la magia è vera” ci propongono le stesse storie rivedute e corrette, interpretate da attori in carne ed ossa, visibilmente preoccupati di rendere giustizia alle controparti in cellulosa, spesso affossati dal confronto con l’originale, generano dibattito e si accodano negli anni, dietro alle miriadi di discussioni generate dai franchise, sebbene siano “inutili” per certi versi, hanno un peso diverso. Questo non è un “live-action” è lo stesso film realizzato con la computer grafica fotorealistica, una diversa tecnica di “animazione”, non è un documentario del National Geographic, non è un film con attori che interpretano personaggi già esistenti e amati (l’umanità lo fa da secoli e mi riferisco anche al teatro) è un esperimento nuovo. Come tale, genera impressioni diverse. Simba è il principe della foresta, l’amato cucciolo è figlio di Mufasa, il Re, saggio e buono che veglia sul cerchio della vita. Scar, lo zio invidioso, vuole rovesciare le sorti della dinastia, prendere il posto di suo fratello e impedire all’erede legittimo di salire sul trono. La storia, a tutti gli effetti, è un dramma dinastico Shakespeariano, liberamente tratto dall’Amleto, funziona in qualsiasi modo venga proposta, tuttavia, si resta perplessi davanti alla totale inespressività degli animali, la forzatura nel far parlare creature che sembrano vere e non lo sono, si rabbrividisce sfiorando l’effetto di nausea provocato da quella che si definisce “zona perturbante” (o effetto “uncanny valley”) quando il nostro occhio si accorge che non sta guardando degli esseri viventi ripresi da una telecamera ma qualcosa di ibrido e finto, costruito così bene che sembra disgustosamente “reale”. Non si discute sull’efficienza dei motori grafici né la bravura degli animatori per certi versi, sebbene peccasse della stessa identica mania di perfezionismo “Il libro della Giungla” (2016) dello stesso Favreau, gli valse l’oscar per i migliori effetti speciali nel 2017 e questo è una sua evoluzione, tuttavia, resta la perplessità generata dagli altri fattori, una su tutte la componente “musical” presente in entrambe le versioni, se la versione precedente, rcca di colori offriva brividi e scene corali, questa può solo contare su fondali monotematici, scenari secchi e aridi, personaggi di contorno superflui (c’è un galagone con Timon e Pumba!) e zero credibilità. Le musiche sono dello stesso compositore Hans Zimmer, nella versione originale Nala è la famosa cantante pop Beyoncé, Simba è Donald Glover, in Italia gli stessi personaggi sono interpretati da Elisa e Marco Mengoni, il resto del doppiaggio italiano, curato con le migliori voci in circolazione tra cui Luca Ward e Massimo Popolizio ha combattuto una guerra impari: il primo “Re Leone” vantava un cast di attori e doppiatori d’eccellenza tutt’oggi viene considerato uno dei migliori mai realizzati (basti citare Vittorio Gassman e Tullio Solenghi come Mufasa e Scar). Si contano le scene soffocate (“Sarò Re” la canzone di Scar è ridotta ad un coro striminzito e un ritornello) le scene eliminate (il “Politically Correct” ci sta rovinando, mi riferisco al rapporto tra Scar e Sarabi) le citazioni forzate (no non avete riso, durante il siparietto di Timon alla fine, quando vuole proporre Pumbaa come portata principale. Vero?) e gli innumerevoli altri difetti, primo fra tutti quello più imperdonabile la ricerca spasmodica delle nostre “lacrime facili” costringendoci ad emozionarci per il ricordo di un film fatto 25 anni fa, come fosse un loro successo. I bambini di oggi amano le nuove tecniche, probabilmente questo film è dedicato a loro a quelli che si annoiano davanti al cartone animato (esistono davvero?) ma una buona fetta di appassionati, piange l’insuccesso. 
 
Francesca Tulli