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Felix Van Groeningen e Charlotte Vandermeersch, i registi dell’intenso Alabama Monroe, portano in sala Le otto montagne, con i nostri Alessandro Borghi e Luca Marinelli. Premio della giuria a Cannes 75, il film è tratto dal libro omonimo di Paolo Cognetti, premio Strega nel 2017. Ottima l’alchimia cinematografica tra i due attori italiani, che si immergono anima e corpo in un nuovo “Into the Wild”. Narrativamente incalzante, il film fa riflettere sul proprio essere e su quanti siano i nostri posti nel mondo: dal più piccolo e remoto posto italiano, agli innumerevoli luoghi meraviglie del pianeta.
La storia d’amicizia raccontata ne Le otto montagne è il fulcro indissolubile del film. Ce la racconta proprio Pietro (Marinelli), attraverso le parole dello stesso Cognetti, per tutta la durata della pellicola. Pietro è un ragazzino che vive in una grande città e passa sempre le vacanze estive in montagna con la famiglia. Il giovane pastore Bruno (Borghi) conosce invece solo la sua casa incastonata nelle montagne. I due si incontrano durante l’estate e tra di loro si crea un rapporto unico ed onesto. Legame che si perpetuerà nei molti anni a venire, fino all’età adulta. Anche se Pietro va e viene dalla montagna, gli incontri con Bruno sono fondamentali per la sua formazione. Entrambi assorbono ed imparano i dolci e i duri dettami della vita: l’amore, la sconfitta, la privazione e il lutto. Senza mai dimenticare le proprie origini, diventano l’uno complementare all’altro e quindi amici per sempre. Insieme imparano a fare molte cose e il tempo li aiuta a scoprire le bellezze e le difficoltà della montagna: i verdi prati e il loro profumo genuino per poi arrivare agli sconfinati boschi, che ci introducono alle prime salite e ai paesaggi vuoti. Qui la vegetazione è minima e secca. Una grande metafora della vita, che loro abbracciano insieme senza mai staccarsi veramente.
I due registi belgi hanno girato prevalentemente tra le vette della Val d’Aosta. Ed al contrario di quanto ci si poteva aspettare, hanno usato un formato cinematografico anomalo per rappresentare una storia ambientata per lo più in spazi sterminati e ampi. Non il classico 16:9, ma un 4:3 (quattro terzi). Registicamente parlando hanno voluto puntare l’attenzione sulle persone e sulla loro intima evoluzione, tagliando nel vero senso della parola gli spazi naturalistici. Spazi perennemente cercarti dai due personaggi in maniera oggettiva e soggettiva. E se queste ampie zone non le vediamo sullo schermo è perché i protagonisti le hanno trovate dentro di loro e ne fanno tesoro, sia che queste siano fra alte vette o in qualche zona sperduta dell’Asia, l’importante è che tra amici vengano rispettati i reciproci spazi. La vita di tutti i giorni viene lasciata appositamente fuori campo e ci si concentra sulle visite di Pietro a Bruno: meeting brevi, ma carichi di vita e suggestioni. Una vita per Bruno sempre vissuta nella propria zona comfort, il contrario per Pietro, che osa. Lontananze che possono dividere, ma che qui avvicinano più che mai. Si culmina con l’apoteosi di un inverno tra le nevi vissuto finalmente insieme. I registi hanno la maestria di raccontare con un linguaggio filmico intenso e con uno sguardo raffinato e autentico una vicenda incentrata sullo scorrere del tempo. Tempo che quasi si ferma per il montanaro Bruno, che non lascia mai la propria montagna. Tempo che scorre velocissimo per Pietro che viaggia e vive il mondo.
Le otto montagne ha un focus al maschile, che dà comunque una grande importanza all’universo femminile. Consigliato a tutti, ma soprattutto a chi ama le storie tormentate, vivide e toccanti. Unica vera pecca sono le 2h30 di girato: si poteva ridurre di qualcosa, ma lascia comunque, dopo la visione, un retrogusto piacevole e gratificante.
David Siena
Alberto De Venezia presenta Volti coperti – Storia di un ultras, disponibile su Prime Video a partire dal 27 Dicembre 2022.
Distribuito da Ipnotica Film, Volti coperti – Storia di un ultras è il nuovo lungometraggio diretto da Stefano Calvagna, regista di Non escludo il ritorno e Il lupo.
Un docufilm che racconta la vera storia di Fabrizio Toffolo, uno dei protagonisti della tifoseria laziale nel mondo ultras. Attraverso le proprie vicende, dalla prima volta allo stadio a diventare uno dei leader della Curva Nord della Lazio, Toffolo fornisce aneddoti di un nostalgico mondo che, a partire dagli anni Settanta, si è contraddistinto per il suo "credo calcistico". E lo fa affidandosi alla macchina da presa di Calvagna, con il quale ha condiviso diversi momenti negli anni Ottanta, sia in casa che in trasferta.
Il regista dichiara: “Frequentavo insieme a Fabrizio Toffolo la Curva Nord dagli anni Ottanta, siamo stati insieme nello stesso gruppo, Irriducibili; poi, per diverso tempo, non ci siamo più visti e ci siamo rincontrati, quando mi ha proposto di realizzare questo docufilm che già aveva provato a mettere in piedi con altre persone che, purtroppo, però, non hanno portato a compimento il lavoro. Si trattava di un’intervista all’interno di un teatro, mentre io ho tentato di portare avanti tramite la sua vicenda la mia idea di cinema, cercando di mettere in strada Fabrizio e ricorrendo anche a pianosequenze. Non c’era un copione, tutto è stato tirato fuori spontaneamente da Fabrizio e ciò credo che arrivi a tutti, anche a chi non ama il calcio. In realtà il film era stato terminato nel Maggio 2019, ma, tra pandemia dovuta al Covid-19 e tipici problemi generali relativi alla distribuzione di un’opera indipendente, siamo riusciti soltanto ora a renderlo visibile al pubblico”.
Impreziosiscono Volti coperti – Storia di un ultras un contributo vocale di Pino Insegno e immagini di repertorio del mondo Lazio cui ha collaborato il giornalista Michele Plastino; mentre l’attore Claudio Vanni, già più volte interprete per Calvagna, affianca come co-protagonista Fabrizio Toffolo, il quale osserva: “Ho voluto raccontare quel mondo ultras che mi rapì sin da bambino e di cui, poi, ho orgogliosamente incarnato i valori. Che possa piacere o no, è stata parte della mia vita, nel bene e nel male. Fanculo la quiete”.
Prodotto da Poker Film 2005 e da Ettore Terzo per Strikemonth, in collaborazione con Associazione Culturale Trevi, Volti coperti – Storia di un ultras vede Massimiliano Cuzzupoli alla fotografia, Roberto Salvatori al montaggio e Paolo Carnevali alla sonorizzazione e mix audio. Responsabile dei materiali di distribuzione è Andrea D’Emilio.
La diffusione del film su Prime Video anticipa delle uscite evento nelle sale cinematografiche previste a partire dalla metà di Gennaio 2023.
L’opera seconda del giovane regista Gianluca Mangiasciutti è un thriller ambientato nella provincia nordica di una Italia cupa, grigia, isolata. Eterea e allo stesso tempo profondamente concreta, con le sue fabbriche e i suoi tir.
La storia si spande su tre dimensioni temporali: la prima narra l’antefatto che sarà anche l’espediente narrativo per lo svolgimento del corpo della trama nella parte centrale, a cui farà seguito l’epilogo.
In un bosco di una imprecisata provincia nordica Irene, una bambina di otto anni, sta raccogliendo funghi con il papà che, improvvisamente, viene investito mortalmente da una macchina. La bambina accorre sulla scena ma il volto del guidatore è nascosto dal riflesso del finestrino alzato che le fa solo intravedere i lineamenti sbiaditi per pochi istanti, prima della fuga dell’omicida.
Questo evento traumatico porterà la bambina, poi diciottenne (Aurora Giovinazzo), a rendersi prigioniera di una vicenda da cui non riuscirà a scollarsi e che le comporterà l’alterazione del suo modo di relazionarsi con gli altri e con il resto della famiglia. Irene, invasa dal senso di colpa per non ricordare nettamente il volto di chi le aveva portato via il padre, non riesce ad esprimere le proprie emozioni senza trasformarle in sferzate rabbiose di manifestazioni emotive. Implacabili e verso tutto e tutti: in piscina, verso l’avversaria durante la gara di nuoto; in casa, verso la sorella minore, figlia del nuovo compagno della madre e verso la madre stessa che, a un certo punto, decide di mandarla via proponendole di trovare un lavoro. Irene si trasferisce allora a casa della zia, proprio nello stesso paese che, dieci anni prima, era stato lo scenario dell’incidente mortale di suo padre.
E il lavoro che trova è, per uno strano gioco del destino, come operaia nella fabbrica il cui proprietario è Michele, quello stesso pirata della strada il cui volto sfocato era rimasto incastonato nella testa della giovane protagonista che lo ricercherà per dieci anni in tutti gli uomini che si troverà di fronte, imprimendolo su un blocco da disegno e cercandone i lineamenti più definiti.
Michele (Lorenzo Richelmy) è il contraltare della rabbia cieca e adolescenziale della protagonista femminile. E’ invorticato in una vita che non avrebbe voluto ma che sceglie di condurre per scontare una pena che, scappando, aveva eluso. E’ consapevole di non essere più padrone della propria esistenza, accompagnata costantemente dal senso di colpa che si tramuta in possibilità di redenzione quando incontra Irene, che lui sa essere la figlia dell’uomo che, dieci anni prima, ha indebitamente ucciso a causa dell’incoscienza dei suoi 20 anni.
I due protagonisti sono abitati ognuno dal proprio senso di colpa che entrambi custodiscono come un oggetto da sublimare. Quando Michele inizierà a seguire, controllare Irene, come una figura protettiva che la possa salvare dallo stesso destino beffardo che lo aveva reso protagonista della sua condizione di orfana, la sua vera anima sopita comincerà a riemergere dalle acque profonde della sua identità fantoccio. Le stesse acque che per Irene rappresentano, con il nuoto, una immersione nella sua adolescenza turbata dal trauma. Michele incoraggerà infatti Irene a non abbandonare il nuoto, l’unica dimensione dove la ragazza riesce ad esprimere le proprie emozioni e dar loro sfogo senza una rabbia disfunzionale.
Il regista riesce a rendere credibile, grazie soprattutto all’interpretazione dei due bravi protagonisti, l’esegesi psicologica dei due personaggi, senza approfondirla più del necessario funzionalmente alla storia raccontata. La regia è asciutta e i colori delle scene grigi, freddi s’inoltrano tra le crepe delle loro anime tormentate. La misura c’è e salva la pellicola che finisce per risultare un thriller che scimmiotta lo stile dello stesso genere oltreoceano: nel linguaggio, nei personaggi, nella scrittura, in alcuni set. E dove l’imitazione prende il posto dell’omaggio, chi ne fa le spese è l’autenticità dell’opera che viene un po’ sacrificata per far posto a delle velleità non necessarie.
Valeria Volpini
La regista di Chocholat mette in scena una storia semplice ma dai tratti cupi e frenetici, come cupi e frenetici sono i desideri reconditi degli innamorati.
Sara (Juliette Binoche), una conduttrice radiofonica che si occupa soprattutto di integrazione razziale, convive da dieci anni con Jean (Vincent Lindon) un ex giocatore di rugby con un passato non ben definito di carcerato. Abitano in un moderno appartamento parigino, piccolo e luminoso; set delle scene principali della pellicola e metafora dell’interiorizzazione e dell’intimità dei sentimenti messi in scena dalla regista.
Un giorno, per caso, la protagonista incontra Francois (Gregoire Colin), l’uomo che aveva lasciato per il suo attuale compagno e responsabile lui stesso di averli fatti incontrare anni prima.
Viene, da subito, messa in scena la routine quotidiana dei due innamorati: una coppia solida, centrata, con poche ombre; se non quelle personali che s’intravedono ma non si manifestano mai sullo schermo.
La svolta narrativa avviene quando Francois propone un lavoro a Jean e lui lo accetta, costringendo Sara a fare i conti con una parte che credeva abbandonata della sua vita passata e svelando, al contempo, una ipostatica rappresentazione dei suoi desideri.
L’apertura della scena è in una fresca località marittima in cui i due protagonisti trascorrono- s’intuisce- una vacanza. Questo preludio, leggero e rilassato, si tuffa voracemente nel grigiore cittadino; tra i tetti di asfalto prospicienti il terrazzo vetrato dei due protagonisti.
La città rende l’uomo più solo. Vestito solo dei propri sentimenti e delle proprie relazioni più intime. Non lascia spazio alle esplosioni artificiose del sentimentalismo urlato e privo di intimità. E nella pellicola della regista francese Claire Denis l’intimità è il sottopancia che segue ogni scena. La camera entra sui corpi e sui volti degli attori come a volerne cogliere i sentimenti più raccolti, quelli che disarmano e umiliano, ma non vuole portare a compimento il compito. E’ discreta e insieme invadente. Insiste sui particolari delle facce, dei profili, dei corpi degli attori ma s’insinua dolcemente, senza perversioni.
E lo stesso fa la sceneggiatura, che si fa strada nel percorso filmico riuscendo a esplicarsi nei non detti, più che nei dialoghi palesati. I sentimenti sono introiettati e prendono corpo facendo lo slalom tra i clichè dei menage amorosi che riguardano i terzetti cinematografici. Le paure dei protagonisti vagolano tra le parole che sono misurate e centellinate, anche nelle scene più impetuose.
L’aspetto pruriginoso del tradimento femminile e del senso di colpa e d’impotenza che ne consegue viene qui messo da parte. C’è il tentativo di fare capolino in una storia comune, fornendo allo spettatore solo il tramite del presente. Pochi esterni, pochi riferimenti al passato dei protagonisti e solo pochi altri personaggi che escono dalla cerchia ristretta dei principali. C’è, per esempio, il figlio problematico di Jean, che vive con la nonna e che non riesce ad avere un rapporto sereno col padre, ma è più funzionale alla costruzione del personaggio principale che elemento dinamico della narrazione.
E se la sceneggiatura, le inquadrature, la fotografia, i movimenti di macchina, le performance degli attori, la colonna sonora, forniscono l’esempio di un cinema elegante, autentico, senza fronzoli artificiosi; sfugge un po’, agli occhi e alla mente dello spettatore il senso finale dell’intenzione registica che resta una fuoriclasse nelle storie familiari ma si affaccia troppo dolcemente su uno scenario che avrebbe bisogno di svolte emotive più utili al racconto che ne vuole trarre.
Valeria Volpini