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L’opera seconda del giovane regista Gianluca Mangiasciutti è un thriller ambientato nella provincia nordica di una Italia cupa, grigia, isolata. Eterea e allo stesso tempo profondamente concreta, con le sue fabbriche e i suoi tir.
La storia si spande su tre dimensioni temporali: la prima narra l’antefatto che sarà anche l’espediente narrativo per lo svolgimento del corpo della trama nella parte centrale, a cui farà seguito l’epilogo.
In un bosco di una imprecisata provincia nordica Irene, una bambina di otto anni, sta raccogliendo funghi con il papà che, improvvisamente, viene investito mortalmente da una macchina. La bambina accorre sulla scena ma il volto del guidatore è nascosto dal riflesso del finestrino alzato che le fa solo intravedere i lineamenti sbiaditi per pochi istanti, prima della fuga dell’omicida.
Questo evento traumatico porterà la bambina, poi diciottenne (Aurora Giovinazzo), a rendersi prigioniera di una vicenda da cui non riuscirà a scollarsi e che le comporterà l’alterazione del suo modo di relazionarsi con gli altri e con il resto della famiglia. Irene, invasa dal senso di colpa per non ricordare nettamente il volto di chi le aveva portato via il padre, non riesce ad esprimere le proprie emozioni senza trasformarle in sferzate rabbiose di manifestazioni emotive. Implacabili e verso tutto e tutti: in piscina, verso l’avversaria durante la gara di nuoto; in casa, verso la sorella minore, figlia del nuovo compagno della madre e verso la madre stessa che, a un certo punto, decide di mandarla via proponendole di trovare un lavoro. Irene si trasferisce allora a casa della zia, proprio nello stesso paese che, dieci anni prima, era stato lo scenario dell’incidente mortale di suo padre.
E il lavoro che trova è, per uno strano gioco del destino, come operaia nella fabbrica il cui proprietario è Michele, quello stesso pirata della strada il cui volto sfocato era rimasto incastonato nella testa della giovane protagonista che lo ricercherà per dieci anni in tutti gli uomini che si troverà di fronte, imprimendolo su un blocco da disegno e cercandone i lineamenti più definiti.
Michele (Lorenzo Richelmy) è il contraltare della rabbia cieca e adolescenziale della protagonista femminile. E’ invorticato in una vita che non avrebbe voluto ma che sceglie di condurre per scontare una pena che, scappando, aveva eluso. E’ consapevole di non essere più padrone della propria esistenza, accompagnata costantemente dal senso di colpa che si tramuta in possibilità di redenzione quando incontra Irene, che lui sa essere la figlia dell’uomo che, dieci anni prima, ha indebitamente ucciso a causa dell’incoscienza dei suoi 20 anni.
I due protagonisti sono abitati ognuno dal proprio senso di colpa che entrambi custodiscono come un oggetto da sublimare. Quando Michele inizierà a seguire, controllare Irene, come una figura protettiva che la possa salvare dallo stesso destino beffardo che lo aveva reso protagonista della sua condizione di orfana, la sua vera anima sopita comincerà a riemergere dalle acque profonde della sua identità fantoccio. Le stesse acque che per Irene rappresentano, con il nuoto, una immersione nella sua adolescenza turbata dal trauma. Michele incoraggerà infatti Irene a non abbandonare il nuoto, l’unica dimensione dove la ragazza riesce ad esprimere le proprie emozioni e dar loro sfogo senza una rabbia disfunzionale.
Il regista riesce a rendere credibile, grazie soprattutto all’interpretazione dei due bravi protagonisti, l’esegesi psicologica dei due personaggi, senza approfondirla più del necessario funzionalmente alla storia raccontata. La regia è asciutta e i colori delle scene grigi, freddi s’inoltrano tra le crepe delle loro anime tormentate. La misura c’è e salva la pellicola che finisce per risultare un thriller che scimmiotta lo stile dello stesso genere oltreoceano: nel linguaggio, nei personaggi, nella scrittura, in alcuni set. E dove l’imitazione prende il posto dell’omaggio, chi ne fa le spese è l’autenticità dell’opera che viene un po’ sacrificata per far posto a delle velleità non necessarie.
Valeria Volpini
La regista di Chocholat mette in scena una storia semplice ma dai tratti cupi e frenetici, come cupi e frenetici sono i desideri reconditi degli innamorati.
Sara (Juliette Binoche), una conduttrice radiofonica che si occupa soprattutto di integrazione razziale, convive da dieci anni con Jean (Vincent Lindon) un ex giocatore di rugby con un passato non ben definito di carcerato. Abitano in un moderno appartamento parigino, piccolo e luminoso; set delle scene principali della pellicola e metafora dell’interiorizzazione e dell’intimità dei sentimenti messi in scena dalla regista.
Un giorno, per caso, la protagonista incontra Francois (Gregoire Colin), l’uomo che aveva lasciato per il suo attuale compagno e responsabile lui stesso di averli fatti incontrare anni prima.
Viene, da subito, messa in scena la routine quotidiana dei due innamorati: una coppia solida, centrata, con poche ombre; se non quelle personali che s’intravedono ma non si manifestano mai sullo schermo.
La svolta narrativa avviene quando Francois propone un lavoro a Jean e lui lo accetta, costringendo Sara a fare i conti con una parte che credeva abbandonata della sua vita passata e svelando, al contempo, una ipostatica rappresentazione dei suoi desideri.
L’apertura della scena è in una fresca località marittima in cui i due protagonisti trascorrono- s’intuisce- una vacanza. Questo preludio, leggero e rilassato, si tuffa voracemente nel grigiore cittadino; tra i tetti di asfalto prospicienti il terrazzo vetrato dei due protagonisti.
La città rende l’uomo più solo. Vestito solo dei propri sentimenti e delle proprie relazioni più intime. Non lascia spazio alle esplosioni artificiose del sentimentalismo urlato e privo di intimità. E nella pellicola della regista francese Claire Denis l’intimità è il sottopancia che segue ogni scena. La camera entra sui corpi e sui volti degli attori come a volerne cogliere i sentimenti più raccolti, quelli che disarmano e umiliano, ma non vuole portare a compimento il compito. E’ discreta e insieme invadente. Insiste sui particolari delle facce, dei profili, dei corpi degli attori ma s’insinua dolcemente, senza perversioni.
E lo stesso fa la sceneggiatura, che si fa strada nel percorso filmico riuscendo a esplicarsi nei non detti, più che nei dialoghi palesati. I sentimenti sono introiettati e prendono corpo facendo lo slalom tra i clichè dei menage amorosi che riguardano i terzetti cinematografici. Le paure dei protagonisti vagolano tra le parole che sono misurate e centellinate, anche nelle scene più impetuose.
L’aspetto pruriginoso del tradimento femminile e del senso di colpa e d’impotenza che ne consegue viene qui messo da parte. C’è il tentativo di fare capolino in una storia comune, fornendo allo spettatore solo il tramite del presente. Pochi esterni, pochi riferimenti al passato dei protagonisti e solo pochi altri personaggi che escono dalla cerchia ristretta dei principali. C’è, per esempio, il figlio problematico di Jean, che vive con la nonna e che non riesce ad avere un rapporto sereno col padre, ma è più funzionale alla costruzione del personaggio principale che elemento dinamico della narrazione.
E se la sceneggiatura, le inquadrature, la fotografia, i movimenti di macchina, le performance degli attori, la colonna sonora, forniscono l’esempio di un cinema elegante, autentico, senza fronzoli artificiosi; sfugge un po’, agli occhi e alla mente dello spettatore il senso finale dell’intenzione registica che resta una fuoriclasse nelle storie familiari ma si affaccia troppo dolcemente su uno scenario che avrebbe bisogno di svolte emotive più utili al racconto che ne vuole trarre.
Valeria Volpini
Sono iniziate a Roma le riprese di All in one day, nuova fatica registica di Massimo Paolucci, reduce dall’horror Medium e dal thriller Soldato sotto la luna.
Sceneggiato da Sara Paolucci, All in one day racconta la storia di Daniele, manager di professione, pieno di vita e di energia, che vedrà sconvolgere i propri equilibri quando riceverà una notizia inaspettata destinata a trascinarlo in un incubo da cui dovrà uscire e dare fondo a tutte le sue forze… fino ad un finale inaspettato.
Il regista dichiara: “È un bel giallo ambientato ai giorni nostri. Sicuramente una scommessa, con tanti attori emergenti e nuove promesse del mondo del cinema italiano. Abbiamo cercato di dare al film un tocco internazionale, soprattutto nella fotografia, sperimentando nuove tecniche. Con All in one day pensiamo di candidarci alla sezione Orizzonti della prossima edizione della Mostra Internazionale del Cinema di Venezia”.
Fanno parte del cast Daniele Pompili, Dafne Barbieri, Danilo Brugia, Valerio Paolucci, Ronald Russo, Gianluca Potenziani, Vincenzo Della Corte e Gabriella Barone.
Prodotto da Alberto De Venezia per Ipnotica Film srl, All in one day prevede tre settimane di riprese nella capitale, tra il quartiere dell’EUR e il litorale.
Pompili osserva: “Sono molto felice e orgoglioso di essere stato scelto come protagonista dal regista Massimo Paolucci per questo film che tocca molte emozioni, e so che è una grande prova da attore per il grande schermo. Ringrazio la produzione di Alberto De Venezia e tutta la squadra che ha lavorato con me”.
Si occupa della fotografia Marko Carbone, mentre il montaggio è a firma di Andrea D’Emilio, le scenografie sono di Tonino Di Giovanni, i costumi di Patrizia Zappalà, trucco e parrucco di Deborah Bisterzo.
La colonna sonora è stata affidata alla band pugliese ITNA, le cui sonorità fondono quelle del punk rock anni Ottanta all’elettronica moderna.
Produttori associati del film sono Cristiano Frasca e Salvatore Digiacomo.
All in one day sarà distribuito da Ipnotica Film srl.
Perfetta illusione è un'analisi lucida e accurata, senza sconti, di una generazione di giovani ambiziosi che, per inseguire e cercare di raggiungere i propri obiettivi, è disposta a calpestare anche gli affetti più cari fino anche a spingersi a barattare il bene massimo per ognuno che è la libertà personale.
Toni (Giuseppe Maggio) è un semplice inserviente in una spa di un hotel ma sta per essere promosso responsabile. Per un gesto incauto,scoperto dalla persona sbagliata, questo traguardo sfuma per sempre. La vita però ha in serbo per lui un destino ancora più beffardo. Grazie all'aiuto della stessa persona che ha contribuito al suo primo fallimento lavorativo e, che sancirà anche quello umano, riuscirà a riscoprire la sua vera e unica passione che è la pittura. Il prezzo che sarà costretto a pagare per diventare artista ma, soprattutto per essere riconosciuto tale anche da chi fa parte da sempre di questo mondo, è altissimo. Pappi Corsicato mette in scena un triangolo costituito da tre solitudini che si servono gli uni degli altri solo ed unicamente per i loro biechi scopi. In questa storia intrisa di egoismo, cinismo e spregiudicatezza non si salva neanche l'amore, né quello tra Toni e la moglie Paola (Margherita Vicario) più interessata alla realizzazione professionale che familiare né quella fra Toni e Chiara (Carolina Sala) che assomiglia più ad un ricatto che ad uno scambio paritetico fra due persone affini. Anche l'amore genitoriale da questa disamina esce con le ossa rotte perché prevale la salvaguardia delle apparenze borghesi a scapito della giustizia e della morale. I dialoghi fra i personaggi sono ridotti all'essenziale e spesso si sceglie proprio di celarli, lasciando ai primi piani efficaci e alla colonna sonora riuscita, il compito di veicolare il messaggio di incompatibilità e di mancanza di ascolto empatico, come se le parole dette risultassero superflue se non proprio inutili proprio perché i fatti e i comportamenti di ciascun personaggio sono in netto contrasto con quanto detto a parole. Il finale rimane aperto e, come una porta che si spalanca sul mondo, si va alla ricerca di un altro senso, di un altro modo di vivere, di un'altra occasione di affermazione e riscatto. Un film intimista che mette in luce in modo sincero e diretto i sentimenti meno nobili che attraversano gli esseri umani e nel farlo non teme di risultare troppo severo nei giudizi.
Virna Castiglioni