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Dopo oltre 5 anni di tempo Darren Aronofsky torna con l’opera successiva al discusso Madre!, un film particolarmente complesso nelle tematiche e nella struttura, le cui critiche nettamente polarizzate presso pubblico e stampa avevano creato più di un grattacapo alla carriera del regista americano.
Con questo The Whale si ricrea un’atmosfera a lui più congeniale, indagando sulle tensioni delle nostre pulsioni emotive e guardando in faccia personaggi che spingono le proprie esistenze al limite del baratro, percorso già esplorato con titoli del calibro di Requiem for a Dream o il Cigno Nero.
Il protagonista Charlie (Brendan Fraser), è un insegnante di letteratura inglese dal peso di oltre 270Kg, una stazza che gli impedisce o rende faticosissimo anche il più comune dei movimenti per una persona normale. Dopo essere scampato ad una crisi potenzialmente fatale, visto che l’obesità è notoriamente una condizione fisica molto pericolosa, il nostro docente si rende conto di dover rimettere ordine nella propria vita. Cercherà una rivalsa sociale e personale riallacciando i rapporti con la famiglia e proverà ad affrontare demoni del passato che lo hanno direzionato verso questa situazione.
Come nelle precedenti opere, l’occhio del regista è inquisitore, crudo e senza filtro, talvolta sembra sconfinare nel vouyerismo e nel proibito, ma è necessario per cristallizzare un momento di pura sincerità nella vita dei suoi protagonisti.
Se ad esempio nel già citato Cigno Nero i tormenti della giovane Nina sfociavano in un autolesionismo che non lasciava nulla all’immaginazione, in questo The Whale, Charlie ci rende testimoni della schiavitù nei confronti della sua condizione con altrettanta efficacia. I primi piani mentre si nutre con voracità e senza alcun ritegno mostrano una creatura votata a saziare un istinto primordiale, con uno sguardo predatorio, ma tragicamente incapace di riempire i vuoti della sua intimità.
Trova necessario e salvifico cercare conforto nel cibo quando i legami sono così labili e saltuari, con la solitudine interrotta solo dall’intervento routinario delle visite mediche a domicilio.
Nonostante la dura realtà a schermo, la vicinanza col protagonista viene però molto naturale; Brendan Fraser si dedica anima e corpo, in tutti i sensi, a conferire dignità e umanità alla sofferenza di Charlie.
La sua è una prova attoriale di assoluto livello, con un ruolo di rinascita personale in cui ha infuso ogni tentativo di raddrizzare una carriera costellata di alti e, soprattutto negli ultimi anni, di profondi bassi.
Se il regista riesce a dipingere un ritratto così lucido, gran parte del merito è ovviamente suo; egli veste i panni di un personaggio anche fisicamente molto impegnativo, ma lo sforzo lo riporta al centro dei riflettori e in prima linea nella stagione delle premiazioni.
Il resto del cast, a partire dalla Sadie Sink di Stranger Things, colpisce meno, ma è anche comprensibile perché l’epopea personale di Charlie lascia poco spazio a tutto ciò che gravita intorno. Non sembra necessario indagare da altre parti quando c’è così tanto del protagonista ad appesantire le nostre emozioni.
Anche la forma segue le stesse intenzioni, perché questo diventa l’ennesimo film recente ad adottare un formato 4:3, ormai tipico nel creare più coinvolgimento nello spettatore, e tutta la vicenda è ambientata in un set praticamente unico, l’interno dell’appartamento di Charlie, a non voler spostare nemmeno fisicamente l’epicentro della narrazione.
The Whale si rivela quindi un film di grande livello, che si inserisce perfettamente nel filone drammatico-psicologico tracciato da Darren Aronosfky lungo tutta la sua filmografia. Egli rimane uno dei pochi artisti in grado di creare personaggi profondamente umani, forti e fragili, con un’autorialità che a volte respinge, ma comunque colpendo l’immaginario dello spettatore, lasciando il segno e generando discussione. Se ne sentiva decisamente la mancanza.
Omar Mourad Agha
L’ultimo lavoro di Alessio Cremonini, regista del precedente “Sulla mia pelle” che raccontava il celebre caso di cronaca di Stefano Cucchi, sposta ora la propria attenzione sul terreno bellico della Siria (già esplorato con il precedente “Border”), al tempo della presa di Kobane da parte dei curdi contro l’esercito del’ISIS, nel 2015.
Lo schermo si illumina con il primo piano della protagonista: Sara Canova (Jasmine Trinca), seduta su un pavimento di una stanza che sembra essere un bagno. S’intuisce poco dell’ambiente ma la camera si sofferma sul suo viso piangente, disperato. Ecco quindi che la scena cambia e ci mostra un flashback di 105 giorni prima, quando la donna che poco prima avevamo visto disperarsi in quel primo piano struggente e senza soluzione, sta intervistando una giovane combattente curda che le mostra fiera i motivi della sua militanza con queste parole: “Combatto per i curdi, per la libertà e per le donne. Perché noi donne siamo il principale nemico dell’Isis. Ma l’Isis non è l’unico problema. In Medio Oriente, se sei una donna, devi imparare a difenderti il prima possibile. Qui, la maggior parte dei regimi è basata sulla sottomissione, sull’oppressione delle donne. È per questo che le uniche persone che possono cambiare questa mentalità sono le donne”.
Si apre, con queste parole, calme, serafiche espresse con la freddezza fiera di una militante risoluta ma al tempo stesso consapevole, uno dei filoni principali della pellicola di Cremonini: il femminile nell’accezione antitetica di una occidentale e una estremista asservita al Califfato islamico.
La narrazione prende forma quando, mentre sta lavorando e sta esplorando una chiesa cristiana abbandonata e semidistrutta, la giornalista viene rapita dall’Isis che ne fa un ostaggio da lì per i successivi 141 giorni. Ma Sara non può abitare nello stesso luogo in cui sono presenti degli uomini, così viene ospitata da Nur (Isabella Nefar), una foreign fighter cresciuta a Londra che ha sposato, oltre che la causa del califfato, anche un mujahidin che la sottomette al suo volere e di cui è perdutamente innamorata.
Le due donne iniziano una convivenza che ne mette in risalto le differenze. Da una parte c’è il femminile occidentale: duro; con un forte senso di riscatto. Indipendente e concreto, che identifica la propria spiritualità senza dover passare necessariamente per il canale della religione.
Dall’altra parte c’è il femminile islamico. Anzi, estremista: asservito all’uomo che è considerato “un essere superiore”. Devoto e manicheo, che non ammette sfumature di confine sulla condotta morale (religiosa): propria e degli altri, a cui non è data possibilità di scelta.
C’è nella pellicola un continuo sguardo divino: la camera scruta dall’alto i personaggi come un Dio inflessibile che mostra il proprio volere senza restrizioni: un infedele decapitato, il sogno della conversione, le preghiere verso la Mecca, sono scene osservate dall’occhio rigoroso del regista che ne esplicita sullo schermo il senso ieratico senza orpelli ma con disincanto. Con discrezione ma autorevolezza.
L’uomo è sopraffatto e lo spettatore si sente parte di questa sopraffazione: la guerra, la punizione divina, il vacillare della speranza della liberazione dalla prigionia, il senso d’impotenza per la spietata uccisione di altri ostaggi... E questa sopraffazione non ha risoluzione, né per i personaggi, né per lo spettatore.
Il regista non vuole necessariamente giungere a una qualsivoglia conclusione. Vuole raccontare, informare senza giudicare- usando le parole della protagonista- un mondo di antinomie e di contraddizioni, in cui la donna è protagonista pur restando nell’ombra sgualcita di un ideale che nulla o poco ha a che vedere con lo stereotipo di genere o con un’appropriazione culturale facilona.
Valeria Volpini
Co-produzione internazionale tra Stati Uniti, Italia e Arabia Saudita, Road to Urmi racconta le terribili vicende del massacro degli assiri perpetrato dall’esercito ottomano. Una poco conosciuta pagina di storia segnata dalla morte di oltre un milione di persone tra il 1914 e il 1916 e a proposito di cui il regista dichiara: “Quella che rievochiamo nel film è una storia vera dallo spaventoso impatto emotivo che troppo spesso il mondo sembra non ricordare. Una pagina buia che qualcuno, prima o poi, doveva affrontare sullo schermo, poiché le persone hanno dimenticato la tragedia del mio popolo assiro”.
In cerca di una cura per la malattia della pelle di suo figlio Emanuel, durante la Prima Guerra Mondiale Mary, partita dal villaggio montuoso di Hakkari, incontra nella città di Ninive Fatma, infermiera marocchina che la aiuta senza chiedere nulla in cambio. Mentre Mary, una volta tornata al villaggio, viene arrestata insieme ad Emanuel da un battaglione dell'esercito ottomano che li porta nella città di Diar Baker, Fatma si ritrova trasferita nello stesso posto, dove le donne vengono vaccinate contro la salmonella. Decide quindi di aiutarla a fuggire in un luogo sicuro, finendo però arrestata a sua volta. La mamma e il bambino, invece, nel corso della fuga incontrano un uomo pronto a difenderli e con il quale formano una famiglia.
Fanno parte del variegato cast Casper Van Dien (Alita – Angelo della battaglia), Natalie Burn (i mercenari 3), Rewan Elghaba (la serie tv The godfather), gli egiziani Hala Marzouk e Yassin Wael Nour, il marocchino Anas El Baz e gli Italiani Martina Marotta, Valerio Largo, Antonio Ciarallo e Gianluca Scuotto. Il Coach per gli attori di Hollywood é il regista italiano Alessandro Derviso, mentre casting è diretto dall'attrice Ira Noemi Fronten.
Road to Urmi è prodotto da FG Productions inc., Artemation Productions e la Bic Production di Daniele Gramiccia.Il cast tecnico include il direttore della fotografia Yohan Charin, l’autore della colonna sonora Erkan Erginci e, agli effetti speciali, il candidato al premio Oscar e due volte vincitore del David di Donatello Vittorio Sodano.