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Poor Things

Domenica 24 Settembre 2023 15:41 Pubblicato in Recensioni

Poor Things - Povere Creature! di Yorgos Lanthimos fa tremare il Lido con un impatto degno di un fulmine, che squarcia la tranquillità di un bosco secolare. Torna in concorso alla Mostra di Venezia dopo il successo mondiale di “La Favorita” del 2018. Il regista greco con le sue 2h20 di lungometraggio ci strega visivamente e non ci fa mancare una sagace riflessione sulla rinascita senza vincoli. Qui al femminile, con una Emma Stone (Bella) neofita creatura di un dottor Baxter (Willem Dafoe), dichiaratamente affine al famoso dottor Frankenstein e cugino prossimo di Prometeo.

Il film è l'adattamento cinematografico dell'omonimo libro di Alasdair Gray del 1992. Qui portato sullo schermo dal fidato collaboratore di Lanthimos: lo sceneggiatore Tony McNamara.

Bella viene riportata alla vita dall’eccentrico dottor Godwin Baxter, che porta in viso il segno inequivocabile di una storpiatura fisica; richiamo diretto della sua crescita non convenzionale. Il corpo della ragazza viene portato nel laboratorio dopo essere stato prelevato dalle acque del Tamigi. La giovane donna stava scappando dal marito violento. Lo scienziato, con metodi non proprio consoni alla classica medicina, riesce a resuscitarla. Ma ora il suo cervello è diverso e pronto a scoprire il mondo dal punto zero. Godwin le insegna i primi passi e tende con molto amore a proteggere Bella dalle insidie dell’umanità. Ma lei vuole imparare sempre di più e stando chiusa nella villa del medico i suoi orizzonti sono limitati. Il colpo di scena è dietro l’angolo e Bella affascinata dall’avvocato Duncan Wedderburn (Mark Ruffalo) parte alla scoperta delle meraviglie dei nostri continenti. Tra di loro nasce una storia d’amore molto particolare, fatta di tanto sesso e di supremazia da parte della ragazza. Predominio incontrollabile guidato dalla voglia di libertà e di equità. Bella non teme il giudizio altrui, il suo potere è palpabile e la sua emancipazione è totale. Vive ogni giorno con un’insaziabile fame di conoscenza mista a curiosità.

La giuria delll'80ª Mostra internazionale d'arte cinematografica di Venezia ha riconosciuto a Poor Things un meritato Leone d’Oro. L’uscita italiana è prevista per il 25 Gennaio 2024, proprio a ridosso degli Oscar.

Ma ora veniamo alla critica vera e propria: il film è incorniciato in uno strepitoso ed affascinante bianco e nero con l’uso del colore nei surreali e daliniani paesaggi delle città che Bella visita. Lanthimos si conferma regista di talento e la forma che usa per raccontare questa fiaba dark è impeccabile. Non solo Salvador Dalì, ma anche espressionismo tedesco in quest’opera che scardina il moralismo, con una direzione anti didascalica, moderna e visionaria. Anche pungente, ma non ai livelli di “The Lobster” e “Dogtooth”. Il cineasta greco come sempre va contro lo status quo. Irrompe con un’eroina molto libertina, che strappa le regole e ne crea delle proprie. Il viaggio di Bella è il classico viaggio di formazione, che nelle mani di Lanthimos diventa un’avventura tutt’altro che classica, con dialoghi spassosi ed inaspettati, Si gioca anche una forte guerra maschio/femmina, stravinta dalla giovane rampante. Perché l’autore offre alla sua creatura nuovi spunti e canoni. L’uomo perde la sua posizione di leader fino ad arrivare al pianto. Derisorio e subdolo il regista mantiene comunque un’accuratezza e squisitezza narrativa, in modo da non trovarsi mai tra le mani strappi vistosi. Tecnicamente l’uso del grandangolo ci offre su un piatto d’argento l’alterazione della realtà, ulteriore mezzo per far capire allo spettatore, che siamo lontani anni luce dal considerarci uguali gli uni agli altri.

In ogni aspetto cinematografico la pellicola è di grande livello. A noi ha colpito particolarmente fotografia, scenografia e trucco. Ed infine non si può dimenticare la performance di Emma Stone, qui anche produttrice. Si mette completamente in gioco con un ruolo assurdo e sotto certi punti di vista anche sporco. Ma con la sua squisita naturalezza mista a bravura si prenota, ancora una volta, a salire sul palco degli Academy Award.                                          

David Siena

Talk to me

Domenica 24 Settembre 2023 15:31 Pubblicato in Recensioni

Cosa fa di una storia inquietante un ottimo esempio di cinema horror? Sicuramente tanti elementi capaci di coesistere e contaminarsi reciprocamente generando un intreccio in cui la suspense e il colpo di scena riescono ad alternarsi in modo equilibrato. Accade molto poco ultimamente, ma ci sono pellicole che possono tracciare una linea definita su quello che si è finora narrato al cinema. La A24 è stata probabilmente una delle poche ad avere puntato gli occhi su autori carismatici ancora poco conosciuti, investendo in modo lungimirante ed acuto in progetti nuovi, vettori di un inedito concetto di cinema horror. Il duo registico composto dai gemelli Philippou è destinato a diventare un punto di riferimento per gli appassionati del genere, riscrivendo con maggiore convinzione ciò che il cinema contemporaneo d’oltreoceano ha tentato di raccontarci in svariati esempi di storie del terrore: il contatto tra terreno ed ultraterreno. Ciò che finora non ha funzionato in molti film è la totale assenza di originalità nella trama, vittima di un intreccio molto scontato che finisce poi per demolire le seppur deboli basi esposte nella premessa. Morale della favola, molti film horror finiscono per somigliarsi l’uno con l’altro senza permettere allo spettatore di entrare nel cuore della storia e di provare pertanto paura. La fretta è antagonista della suspense, e soprattutto è un elemento che poco si concilia con la chiarezza e la credibilità di molti passaggi necessari affinché un horror possa spaventare il pubblico. Detto ciò, con Talk to me siamo di fronte ad un momento chiave della cinematografia del terrore quello in cui si pongono delle basi importanti e differenti dalla visione soprannaturale finora sviluppatasi in tantissime opere minori. Nonostante si ricalchi il terreno del feticcio, mezzo attraverso il quale si apre una porta temporale con l’aldilà, il racconto assume un tono più drammatico e attento alle dinamiche interiori dei personaggi, qui finalmente approfonditi in modo dignitoso. Nel film, la protagonista Mia, ha diciassette anni ed è reduce da una situazione familiare tragica legata al triste suicidio della madre,  da tempo afflitta da una profonda depressione. Una sera come tante, Mia si ritrova a casa di amici senza sapere che quella festa tra coetanei avrà come catalizzatore una seduta spiritica. Quel momento sarà soltanto l’inizio di una lenta ed inesorabile discesa negli inferi, che sfocerà nell’infausto contatto tra il mondo dei vivi e quello dei defunti. Il duo registico dei fratelli  Philippou, australiani e conosciutissimi su youtube per le loro piccole opere d’orrore a puntate, ha da subito attirato l’attenzione della A4 che in precedenza aveva già puntato gli occhi addosso ad autori di un certo carisma e sempre di matrice australiana, vedi la folgorante Jennifer Kent regista di Babadook. Insomma, l’Australia sembra non sbagliare un colpo in fatto di autorialità horror, proponendo idee sempre innovative e mai modellate su quelle statunitensi (che di per sé è già una grande vittoria). Talk to me convince per la volontà di scrollarsi di dosso il solito contorno soprannaturale, fatto di spiriti che gattonano tutti allo stesso modo, frutto di un immaginario che va rivisitato ampiamente. Semina ciò che di buono possiamo apprezzare in un film horror e quindi, ambiguità e profili psicologici più complessi e per questo maggiormente credibili. Certo è che nella sua ambizione a distaccarsi dalla solita storiella disegnata su jump scare e rantoli demoniaci, trascura un po' troppo quello che è lo scopo principale di un film horror: spaventare. Stiamo facendo passi da gigante rispetto a qualche anno fa, ma la strada è ancora lunga.

 

Giada Farrace

 

 

La verita' secondo Maureen K.

Domenica 24 Settembre 2023 15:19 Pubblicato in Recensioni
Una donna al potere, nella società attuale, può rimanere solo se non crea disordine e se non arreca disturbo. Invece Maureen Kearney è tutt’altro che disposta a soprassedere quando scopre un accordo portato avanti in gran segreto da un alto dirigente della compagnia per cui lei riveste il ruolo scomodo di sindacalista. Pur di difendere i posti di lavoro, messi in serio pericolo da decisioni politiche scellerate, cerca in ogni modo di bloccare questo disegno oscuro trascinando la sua stessa vita e quella di chi le sta accanto in un tunnel dal quale uscire diventa sempre più tortuoso e complicato con il passare del tempo.
 
 
Aggredita in casa sua, al mattino quando è sola, viene seviziata e vilipesa. Legata mani e piedi, con la bocca chiusa dal nastro adesivo, con un coltello infilato nelle parti intime e una A, che riporta al nome dell’azienda per la quale lavora, incisa con un coltello sul ventre.
 
Dopo il ritrovamento da parte della collaboratrice domestica seguono vere e proprie umiliazioni inflitte da investigatori che conducono le indagini in maniera poco approfondita ma soprattutto svincolata da condizionamenti e che vedranno imboccare una direzione contraria alla verità dei fatti facendo passare questa donna da vittima a principale indiziata.
 
La giustizia non giusta può essere una macchina che si inceppa, gira a vuoto e alla fine ingrana una pericolosa retromarcia e investe di nuovo chi quella giustizia dovrebbe averla dalla sua parte senza se e senza ma.
 
Il film, dal classico impianto giallistico, si regge quasi totalmente sull’interpretazione perfetta di Isabelle Huppert. Questa attrice navigata incarna, con naturalezza, il personaggio di questa donna forte, risoluta, combattiva ma anche fragile ed esposta, giudicata per i suoi comportamenti poco ortodossi ma anche per il suo passato e per le sue scelte anticonformiste e libere. La sua recitazione è magnetica, gesti, modi di fare, espressioni: tutto studiato nei minimi dettagli e molto efficace per la narrazione.
 
La vicenda così paradossale parrebbe inventata. Invece, il film prende spunto da un fatto di cronaca realmente accaduto, raccontato nel libro “La Syndicaliste” di Caroline Michel-Aguirre.
 
La regia, ed è un peccato, non riesce fino in fondo a creare la giusta suspence, non si giunge mai ad un consono livello di tensione, non si è catturati dal procedere degli eventi in modo totalizzante ma anzi il racconto procede in modo alquanto prevedibile e anche il colpo di scena del ribaltamento processuale viene presentato con poca enfasi e si è quasi sollevati per l’interruzione di una linearità presentata in modo troppo scontato.
 
Un film senza particolari guizzi, forse troppo classicheggiante nell’impianto e che si lascia guardare senza quel coinvolgimento completo che una vicenda reale, di tale gravità, avrebbe maggiormente meritato.
 
Virna Castiglioni

Sick of Myself

Domenica 24 Settembre 2023 15:14 Pubblicato in Recensioni
Fino a che punto ci si può spingere per ottenere attenzione ed essere considerati dagli altri come noi vorremmo ma soprattutto come riteniamo sia giusto per la nostra storia e il nostro vissuto? “Sick of myself”, nuovo lungometraggio del regista norvegese Kristoffer Borgli, presentato nella sezione “Un certain Regard” al Festival di Cannes del 2022 affronta questa tematica e lo fa in modo irriverente e politicamente scorretto. Thomas e Signe sono una giovane coppia in cerca della propria strada nel mondo. Per farlo sono disposti a tutto. Signe anche a rimetterci la salute. Attraverso tentativi maldestri, strategie balzane, si arriva sempre ad esiti grotteschi e per nulla edificanti. Il loro imperativo categorico è quello di spingersi sempre oltre e soprattutto cercare di colpire l’attenzione degli altri per avere riconoscimenti e sentirsi vincenti in una società che ha sempre più bisogno di inclusività e di storie forti da gettare in pasto all’opinione pubblica.
 
In una personale e strampalata scala di valori entrambi cercano in tutti i modi di far parlare di sé, non importa con quali e quanti mezzi, soprattutto se illeciti e proibiti dalla morale comune. Il fine giustifica i mezzi sempre e comunque per questa coppia di drogati di consenso. Non importa, quindi, se per avere una casa con complementi d’arredo di designer famosi e più in auge l’unica soluzione sia quella di derubare negozi, allestimenti, eventi ai quali ci si imbuca esclusivamente per compiere queste infantili scorribande. Nello stesso modo ogni mezzo è consentito per appropriarsi di bottiglie costose di vino che verranno poi offerte alla cerchia di amici vantandosi dell’impresa compiuta come se si trattasse di una bella azione di cui andare fieri. Un film che incastra come un puzzle vari generi (body horror, grottesco, drammatico, black comedy) per indagare un tema complesso e sempre più urgente nella società attuale dove la forma sembra aver soppiantato la sostanza e dove basta diventare vittime di qualcosa per ottenere consenso e approvazione.  Un gioco pericoloso che spinge chi non è sano ed equilibrato a percorrere un crinale di deriva morale che non ha freni inibitori e conduce sempre ad esiti infausti.
 
La protagonista, interpretata da una superlativa Kristine Kujath Thorp, muta in continuazione atteggiamento, assecondando gli eventi che si manifestano per trarne vantaggio o semplicemente per evitare che il castello di bugie costruito con meticolosa cura crolli all’improvviso schiacciandola sotto il peso delle sue atroci responsabilità.
 
In una escalation che sembra non aver mai fine si assiste ad un peggioramento fisico voluto, cercato con acribia e nascosto con tenacia il più a lungo possibile. Un atto autolesionistico che non teme le conseguenze perché il fine che si prefigge nella mente disturbata di chi lo pone in atto risulta essere più appetibile della vita stessa, che non sembra degna di essere vissuta se non lo è sotto i riflettori e alla mercè di tutti. Una ricerca spasmodica di successo e visibilità che non è avvalorata dal minimo contenuto.
 
Attraverso la trasformazione fisica della protagonista femminile, resa verosimile da un trucco speciale di pregevole fattura, il regista ci ricorda che non basta cercare di ingannare gli altri per avere un ritorno positivo perché si finisce sempre e solo per ingannare se stessi ottenendo in cambio di sopportarne le conseguenze deleterie per il resto dei propri giorni.
 
Un film che esaspera i toni, dalle dinamiche estreme, assurdo, al limite della credibilità ma che instilla nello spettatore il dubbio che la realtà non sia poi così tanto lontana e basti poco perché questa ricerca affannosa di approvazione costante diventi l’unico scopo di vita e scavalchi sentimenti e progetti fino ad arrivare a mettere a rischio la propria incolumità.
 
Un aspetto che sembra essere centrale all’inizio della pellicola ma che piano piano si eclissa per lasciare posto quasi soltanto alla malattia fisica della protagonista che fagocita tutto il resto è la dinamica di coppia. Avrebbe meritato uno sviluppo maggiore e un approfondimento che invece rimane un po' a latere di tutta la vicenda dando, a tratti, l'impressione che il racconto deragli per la tangente.
 
Virna Castiglioni