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Omicidio nel West End

Giovedì 29 Settembre 2022 16:00 Pubblicato in Recensioni

Un godibile giallo è il primo lungometraggio diretto dal regista Tom George, che porta sul grande schermo la verve di una commedia tipicamente anni ‘50 ma dai sapori moderni.

Il film si apre in una sala teatrale, dove sul palco sta andando in scena la centesima replica di “Trappola per topi” di Agatha Christie. Lo spettacolo ha un così clamoroso successo che si sta pensando di farne un film diretto da Leo Kopernick   (Adrien Brody) che è anche uno degli illustri invitati alla festa dopo lo spettacolo. Ed è in quell’occasione che, dietro le quinte, viene clamorosamente e misteriosamente ucciso. Toccherà all’ispettore Stoppard (Sam Rockwell) e all’agente Stalker (Saoirse Ronan) indagare sul caso.

Il mistero nel mistero, il gioco cinematografico di virare una ipotesi verso una conclusione e poi renderla inesatta, gestendo le immagini e la trama come un carillon di indizi forniti agli spettatori e ai poliziotti indagatori centellinandoli, rende la pellicola ritmata e incalzante. Il mondo è quello del giallo, del thriller, ma i toni sono da commedia. Leggeri.

Così come i generi si mischiano e si sovrappongono, anche i media si rincorrono: il cinema e il teatro fanno sfoggio di divertenti antinomie, portando sullo schermo continui colpi di scena.

E se il ritmo è incalzante, a volte la narrazione sfugge allo sguardo dello spettatore, che cerca continuamente il filo conduttore delle continue dinamiche che si presentano sullo schermo.

I costumi, i colori, le ambientazioni e anche qualche strumento visivo (come lo split screen) rendono omaggio a un tipo di racconto che ricorda i toni dei film degli anni ‘50, sentendone forse un poco il peso. Questa dicotomia tra comedy moderna e giallo britannico, seppure godibile, è infatti riuscita a metà.

Gli attori portano sullo schermo personaggi credibili e caratterizzati, facilitando lo spettatore a riconoscerne la personalità che non sembra importare alla narrazione ma la rende espediente per veicolare la trama verso i continui indizi che si presentano sullo schermo. Anzi, i personaggi sono quasi bidimensionali, funzionali al caso d’indagine.

Nonostante i difetti di fruizione, il film non annoia e l’epilogo è inaspettato e risponde alle regole del giallo, più della storia lo precede.

 

Valeria Volpini

Smile

Giovedì 29 Settembre 2022 12:58 Pubblicato in Recensioni
Un'entità malvagia che si impossessa di chi ha subito un trauma ma non ha avuto la forza d'animo per rielaborarlo: questa l' originale idea di fondo di Smile, lungometraggio d'esordio di Parker Finn tratto dal cortometraggio dello stesso regista dal titolo “Laura non ha dormito” (2020).
Il titolo di questo horror psicologico rimanda ad un gesto di allegria e benevolenza ma il sorriso è solo un ghigno malefico e quando compare sul volto la persona alla quale è indirizzato è destinata alla morte.
Lodevole l'interpretazione di Sonie Bacon nei panni della protagonista, una giovane donna psichiatra all'apparenza serena e risolta ma invece tormentata e infelice nel profondo. Il suicidio di una sua paziente mentre si trova al suo cospetto innesca una catena maledetta di eventi che riporteranno in superficie il suo personale trauma vissuto durante l'infanzia che ha covato sotto la cenere senza mai spegnersi del tutto (la morte della madre, suicida anch'essa).
Il film presenta uno sviluppo coerente che determina, scena dopo scena, un crescendo progressivo che arriva in finale al suo apice però i continui e ripetuti jumpscares banalizzano e rendono prevedibile il racconto. Molto più interessante sarebbe stato intervallare le effettive sequenze in cui succede quello che ci si aspetta debba accadere con altre dove si crea suspence ma poi di fatto non succede quello si credeva dovesse capitare. Il film cerca di tenere insieme sia il genere puramente horror (ed è la parte meglio riuscita) con quello più psicologico (e qui ancora non ci siamo del tutto). In linea di massima questo film supera la prova perché incute spavento, disturba, inquieta e lascia con il fiato sospeso fino alla fine che non è definitiva ma lascia intendere un possibile sequel. Invece la parte più psicologica che affronta il tema della malattia mentale, il trauma infantile, il senso di colpa, la solitudine e l'emarginazione avrebbero avuto bisogno di un approfondimento che non si è stati in grado di realizzare del tutto. Nel complesso un film che non delude ma con ampi spazi di miglioramento.
 
Virna Castiglioni

Dante

Giovedì 29 Settembre 2022 12:25 Pubblicato in Recensioni
L'ultimo lavoro di Pupi Avati è un omaggio al sommo poeta e alla sua dimensione più umana. Dante (Alessandro Sperduti) è un ragazzo innamorato, è un amico, un cittadino, un politico. Il talento, le opere del protagonista non sono gli elementi principali messi in luce dalla storia, ma il filo conduttore, l'elemento narrativo che lega la vita di Dante con la sua dimensione letteraria che supera lo spazio e il tempo. E dallo stesso Boccaccio (Sergio Castellitto) ammiratore incontrastato dell'Alighieri, il regista sceglie di far ascoltare la storia agli spettatori che lo seguono nel viaggio che lo porterà a Ravenna, da Suor Beatrice, figlia di Dante, a cui Boccaccio porta in dono dieci fiorini come risarcimento per il trattamento che aveva riservato al padre, condannato ed esiliato, la città di Firenze.
E il tema del viaggio, sempre presente nella poetica di Dante, si ritrova qui, con le veci di Boccaccio, che erra tra le stesse mete che trent'anni prima, aveva attraversato il sommo poeta.
Non c'è l'aria evanescente di portare sullo schermo un personaggio intangibile, inarrivabile, ma c'è la volontà di descriverne le sue pulsioni. C'è la scena dell'incontro con Beatrice (Carrlotta Gamba), la storia dell'amicizia con Guido Cavalcanti (Romano Reggiani), la guerra, la peste, la malattia, la paternità, il decadimento del potere spirituale e la disillusione per quello temporale. E' il racconto della vita adulta di Dante e anche dei suoi turbamenti, delle sue inettitudini e dei suoi errori, mitigando la distaza cronologica che separa lo spettatore dal tempo del racconto.
Una grande eleganza formale descrive quest'ultima opera di Avati. E una leggerezza negli intenti che però cozza con un formalismo che imprigiona inevitabilemnte la pellicola. I temi sono quelli sentimentali che possono raccontare la storia di due ragazzi qualunque che si amano e il cui amore è ostacolato dal destino, o di un'amicizia profonda e messa alla prova dalle scelte individuali dei singoli.
Sentimenti puri nello spirito e intellettuali nella forma, profondi, che cercano l'evocazione artistica e se ne fregiano, crogiolandosene un poco.
La luce, gli affreschi, le evocazioni immaginifiche e oniriche ricalcano un cinema iconografico e che fa delle immagini le protagoniste del film rendendo merito alla qualità dell'opera.
 
Valeria Volpini

Ti mangio il cuore

Giovedì 22 Settembre 2022 17:26 Pubblicato in Recensioni

Ispirato all’omonimo romanzo d’inchiesta di Carlo Bonini e Giuliano Foschini sulla quarta mafia italiana, la Sacra Corona Unita del Gargano, Ti mangio il cuore è stato accolto alla Mostra del Cinema di Venezia 79 con un certo grado di curiosità, che andava ben oltre le forti e violente tematiche con cui doveva misurarsi.

Decisamente particolare che una cantante di successo come Elodie, al debutto cinematografico in ambito attoriale, scelga un ruolo di questo tipo con cui cimentarsi, nei panni della prima pentita tra le famiglie della mafia pugliese.

In questo territorio è sempre scorso copioso il sangue tra gli affiliati alla criminalità locale, con famiglie che sono ascese al potere a suon di estorsioni, ricatti e tradimenti, fino a diventare una potenza paragonabile alle ben più note mafie, camorra e ‘ndrangheta.

Se nel romanzo da cui è tratto, la scalata violenta si concentra sulle modalità e i meccanismi collusi in cui ne è avvenuta l’espansione, in questo adattamento, il regista e sceneggiatore Pippo Mezzapesa, sceglie di usare delle tematiche più shakespeariane per introdurci questo feroce contesto.

Sul sempre attuale modello di Romeo e Giulietta si sceglie quindi di intrecciare i destini di vicende criminali ormai ben note al pubblico italiano, abituato a questioni di delinquenza organizzata purtroppo integrate alla storia del nostro Paese. Un taglio diverso, che funziona per unire la violenza a una storia amorosa fatta di innocenza e corruzione allo stesso tempo.

Elodie assume le fattezze di Marilena, moglie del capofamiglia dei Camporeale, mentre l’altro lato della contesa è incarnato da Andrea (Francesco Patanè), futuro erede dei Malatesta. Le due famiglie sono in eterna lotta per il controllo del territorio, con entrambe le parti pronte a sfruttare ogni segno di debolezza per avere la meglio sull’avversario, e con le vesti di terzi, ai margini della lotta per il potere, nelle figure dei Montanari.

Quando tra i due protagonisti principali comincia una relazione clandestina, si mette in moto un gioco cruento, con cui tutte le pedine di questo racconto dovranno avere a che fare.

E’ quindi una regia che decide di appoggiarsi molto sui propri personaggi per tratteggiare le sensazioni viscerali di illusioni e speranze che si scontrano con la crudezza di una realtà dura e spietata, ed Elodie non se la cava affatto male a trasmettere la passione di una donna combattuta tra il desiderio e la responsabilità del suo ruolo.

Peccato per la sua controparte maschile che appare più caricaturale nel suo percorso narrativo per via di un certo overacting, e incide sull’efficacia di alcune scene.

Dall’altro lato Pippo Mezzapesa sceglie bene di utilizzare una fotografia in bianco e nero, molto contrastata, con un effetto cromatico che rimanda in maniera anche grafica alle lotte della sua opera, in uno scontro molto vivido tra gli opposti bene e male, amore e odio o profano e religioso.

L’intreccio procede quindi prendendosi i suoi tempi e trova anche dei guizzi narrativi piuttosto interessanti in fase di chiusura della vicenda, in un pacchetto confezionato in maniera non sempre omogenea, ma che comunica lo stesso la sensazione di ineluttabilità del male e desolazione emotiva che abitano da sempre il lato più oscuro dell’animo umano.

 

Omar Mourad Agha