Fuoritraccia

Newsletter

Messaggio
  • EU e-Privacy Directive

    This website uses cookies to manage authentication, navigation, and other functions. By using our website, you agree that we can place these types of cookies on your device.

    View e-Privacy Directive Documents

Home » Full Screen » Info
A+ R A-
Info

Info

E-mail: Questo indirizzo e-mail è protetto dallo spam bot. Abilita Javascript per vederlo.

SanSebastian63. High Rise

Mercoledì 07 Ottobre 2015 16:02 Pubblicato in Recensioni
L’ossessione di J.G. Ballard (autore britannico, prolifico e di fama internazionale scomparso nel 2009) di portare i suoi personaggi a scontrarsi con il proprio subconscio spingendosi oltre i propri limiti, viene ampiamente descritta nel suo “High-Rise” libro di cui il regista Ben Weathley dopo anni riesce a farne un adattamento cinematografico. A Londra in un futuro ignoto Ballard costruisce un Condominio dotato di ogni confort: supermercati, piscine, palestre, scuole parcheggi sconfinati. Annulla il desiderio degli inquilini di cercare qualcosa al di fuori di questo perfetto alveare, dove c’è lavoro per tutti e nessuno vuole andarsene. Gli usi e i costumi sono quelli degli anni 70 (il 1975 è l’anno in cui venne scritto il romanzo) Il Dottor. Robert Laing (Tom Hiddleston) impassibile anatomopatologo, svolge ancora la sua professione di medico e insegnate all’università fuori da quelle mura, si estranea dal macrocosmo che cambia fuori la sua abitazione e cerca ancora di vivere la sua monotona vita sociale. Richard Wilder (Luke Evans) violento e rozzo uomo di televisione vuole invertire le gerarchie all’interno dell’edificio. Charlotte Melville (Sienna Miller), vicina di Laing madre single e insoddisfatta, vede suo figlio crescere in un mondo finto dove per cercare un diverso panorama bisogna guardare all’interno di un caleidoscopio che a detta del bambino mostra “il futuro.” Anthony Royal (Jeremy irons) è l’architetto e l’ideatore di questo ecosistema, ne possiede altri 5 di palazzi identici, vive sull’attico, un surreale paradiso terrestre, dove il cavallo bianco di sua moglie Ann pascola indisturbato tra i fiori rigogliosi del suo giardino. Come un frutto perfetto, matura, marcisce e si secca, allo stesso modo gradualmente, la perfezione di questo equilibrio artificiale si sgretola e viene inghiottito dall’anarchia. L’assassinio del cane adorato della Diva del cinema Jane Sheridan (Sienna Guilliroy) dà inizio ad un concatenarsi di eventi macabri, suicidi, omicidi, atrocità di ogni tipo, una novità entusiasmante per gli inquilini curiosi che fanno della cronaca nera il proprio pane quotidiano. Si scatena in poco tempo una guerriglia tra i diversi piani del grattacielo, si creano bande e fazioni, si vive nella spazzatura, si può paradossalmente fuggire dall’orrore in ogni momento varcando la porta di ingresso ma ci si concentra sul come restarci per il proprio tornaconto su come sfruttarlo a proprio vantaggio. Lo stesso fa Laing, perfettamente consapevole del “proprio posto” escluso dalle feste dei ricchi, anonimo nella quotidianità perfetta, emerge nella disfatta e comincia un gioco pericoloso per diventare il capo branco di questo nauseante specchio del regno animale. Le donne si coalizzano e proteggono i bambini, Helen Wilder (Elisabeth Moss) la moglie del sovversivo, è incinta è una dolce ragazzotta vittima della violenza del marito che silente aspetta di trovare il suo posto. La soluzione al problema è l’istinto di sopravvivenza, ognuno trova il suo spazio, tra orge e violenza gratuita nell’imperfetto schema del chaos, l’uomo incapace di vivere in armonia, trova la sua vera natura, e la musica classica del compositore Clint Mansell che accompagnava lo spettatore nella prima ora di film diventa gradualmente un disperato e malinconico “S.O.S” degli ABBA nel dolce remix slow-jem dei Portishead. Ben Weathley dopo essersi chiesto perché mai nessuno lo avesse fatto prima (fissando la copertina del libro dalla poltrona del suo salotto) gira un film onesto e spietato, che non trova pace con i distributori perché troppo “cattivo” in questo mondo di film “buonisti” che vanno incontro ai gusti di tutti. Presentato in anteprima europea al 63° San Sebastian Film Festival sarà presentato al pubblico solo a fine del 2016. Ballard come non si vedeva dai tempi de “L’impero del Sole” brillante, crudo e autentico.
 
Francesca Tulli

Pixels

Giovedì 01 Ottobre 2015 10:04 Pubblicato in Recensioni
Generazioni di “nerd” hanno sempre pensato che valesse la pena spendere la propria infanzia a giocare con i videogiochi, convincendosi così a passare nello stesso modo i ritagli di tempo dell’adolescenza e non poterne fare a meno per il resto della loro vita. Il regista Chris Columbus è uno di questi. I protagonisti del suo Pixels, sono quattro eroi sfigati, come nella migliore tradizione dei Ghostbusters. Brenner (Adam Sandler) per vivere installa Hi-Fi per la ditta “Nerd”, Cooper (Kevin James) non ha lasciato mai la casa della nonna e il suo seminterrato dove pretende di sventare attacchi segreti e risolvere casi irrisolti, Eddie (Peter Dinklage de “Il trono di Spade”) è in prigione per furto e spaccio e Ludlow (Josh Gad) il grasso compagno di giochi di Brenner, fido “Chewbacca” del duo, ora è Presidente degli Stati Uniti. Negli anni 80 dove spopolavano le sale giochi, i quattro erano i migliori nei tornei, ognuno con la sua specialità, Brenner decodificava gli schemi di PacMan e centipede, Eddie bruciava i record a Donkey Kong, Cooper era innamorato dell’eroina fantasy Lady Liza. La gloria eterna a chi, avrebbe vinto il torneo ripreso su una VHS e spedita nello spazio remoto. Decenni dopo il pentagono, riceve dal cielo una risposta, un attacco inspiegabile: da uno squarcio nel cielo compaiono le astronavi di Galaga e trasformano in pixels qualsiasi cosa sulla loro strada. Persone, alberi, strade. Le alte sfere dell’esercito ottuso e americano, danno la colpa ai russi, all’Iraq, ma solo il presidente capisce la reale natura degli attacchi, e riunisce il vecchio gruppo. Gli Alieni travisano il contenuto della videocassetta, pensando che sia una dichiarazione di guerra e muovono attacchi alla terra usando le stesse “armi”. Il film è una goduria per gli appassionati, in tanti anni di cinematografia, ancora nessuno aveva scalato i cantieri dello scimmione tira barili con i propri piedi, ne partecipato a un inseguimento in strada con le auto dei colori dei fantasmi contro lo smile gigante più famoso della storia. Delle partite reali che mischiano la grafica al girato dando un delizioso effetto alla “Chi ha incastrato Roger Rabbit” versione 3D. I cliché non mancano, Michelle Monaghan con la sua prosperosa presenza femminile, riempie il ruolo dei film parodia. Le battute non sempre fanno scattare la risata, sono mirate ad un pubblico specifico. La colonna sonora alza l’indice di gradimento, con un bellissimo remix di VonLichten di “We will Rock you”. Gli Arcaders ameranno come si faccia riferimento ad un preciso periodo “storico”, il film trasuda anni 80 e 90, i videogiochi di oggi senza schemi dove bisogna solo “fingere di essere lui e cercare di non essere ucciso” vengono superati dall’immortalità dei classici. Thoru Iwatani il vero inventore di Pac-Man ha realmente partecipato al film, svelando che la sua creatura, era stato creata per essere un “amico di tutti” quello con cui “mangi un panino, e a cui racconti i tuoi problemi”. Un mondo esagerato dove solo alcuni possono sentirsi a casa, una dedica a chi sa che crescere non significa abbandonare le proprie passioni, un film dove i nerd “baciano meglio perché ci tengono di più” la rivincita dei nerd, con la semplicità dei film comici di oggi. 
 
Francesca Tulli
 

Looking For Grace. Anteprima Venezia 72

Giovedì 10 Settembre 2015 09:46 Pubblicato in Recensioni
Nel panorama dei Festival contemporanei, Looking for Grace, diretto e scritto dall’australiana Sue Brooks (al Festival di Venezia nel 2003 col bellissimo Japanese Story), per molti addetti ai lavori potrebbe passare inosservato.  Certamente non brilla in originalità, ma a dispetto di polpettoni dilatati e tediosi, nella drammaticità del film troviamo un insolito umorismo, che funziona e stempera i disastri legati al destino ineluttabile di una famiglia qualunque.
L’ironia (tipicamente australiana?) tiene a galla il film diviso in diversi capitoli legati ai personaggi principali. Questi, incrociandosi, formano un puzzle figlio del caso. Dalla vicenda principale, la fuga di Grace (Odessa Young, presente alla Mostra di Venezia 72 con un altro titolo: The Daughter), teenager in erba alle prese con le problematiche tipiche delle sua generazione, scaturiscono avvenimenti imprevisti. Segreti, bugie e ansie, chiusi per troppo tempo nella monotonia quotidiana, esplodono coinvolgendo tutta la famiglia e non solo. La ragazzina verrà a contatto con la realtà, fino ad allora nascosta dai genitori. Le mancanze del padre (Richard Roxburgh, Moulin Rouge – 2001) e della madre (Radha Mitchell, Silent Hill – 2006) creano asprezze ed evidenziano le incomprensioni che trovano i ragazzi d’oggi nel rapporto con gli adulti.
Looking for Grace, non solo è diretto da una donna, ma è un film realizzato quasi completamente da donne (dalla direttrice della fotografia ad un trio di produttrici) per le donne. Un cinema al femminile che parla al gentil sesso contemporaneo, accumunato ed impantanato, ancora nostro malgrado, ad un folle conformismo.
Il titolo del film, non è solo riferito alla ricerca di Grace, ma soprattutto alla ricerca da parte dei personaggi di se stessi e della grazia. Vera sfuggevole condizione, che ogni essere umano ricerca spasmodicamente per dare un senso alla propria vita. Caccia al tesoro o estenuante partita nella quale tutti cercano il pallone. Come bambini spinti dalla voglia di arrivare prima di altri per segnare un goal strepitoso e portare la propria squadra verso la vittoria. Molte volte la grazia risiede nei gesti comuni, come vedere i propri genitori che si allacciano le scarpe. Attimi che ci ricorderanno quella persona per sempre e ci conforteranno nei momenti difficili. Luce in uno scenario di tenebra. 
Se fossimo tutti più comunicativi (a parole) e meno legati al caos mediatico (cellulari e social media), la pace sarebbe più a portata di mano. Pace intrinseca alla zona geografica nella quale è ambientato il film: la Cintura del grano. Meravigliosa regione dell’Australia occidentale caratterizzata da ampi spazi aperti, che assume una forte e naturale valenza simbolica di semplicità in contrasto con le problematiche caotiche e personali dei protagonisti. La regista con questo mette anche in contrasto la vastità del mondo con i piccoli momenti intimi ripresi nel film: primi piani ad oggetti e parti del corpo. Esplora e studia la complessità dell’esistenza.
Looking for Grace attraverso il suo viaggio on the road ci parla d’amore, di legami d’amicizia e famigliari e di crescite e cadute personali. Compresa la morte alla fine della strada. Insomma di persone normali legate all’unica vera cosa dalla quale non si può sfuggire: il fato. Realtà oggettiva e tarlo ossessivo della regista. 
 
Il film è ancora in attesa di una distribuzione Italiana. 
 
David Siena
 

The Danish Girl. Anteprima Veneziana

Venerdì 11 Settembre 2015 09:09 Pubblicato in Recensioni
Rimane saldamente ancorato al suo cinema delicato e politicamente corretto, Tom Hooper (Les Miserables – 2012), e per l’ennesima volta non sbaglia. The Danish Girl colpisce al cuore parlando di amore universale e di come si possa trovare se stessi in fondo alla propria anima. 
La pellicola tratta la storia di una coppia danese di inizio novecento, entrambe affermati pittori e dediti alle belli arti. Gerda Wegener (Alicia Vikander, Ex Machina - 2015) ed il marito Einar Wegener (Eddie Redmayne, fresco di premio Oscar come Miglior Attore protagonista per La Teoria del tutto – 2014) vivono in una Copenhagen patinata e per bene. La loro relazione è salda ed affiatata, ma quando per pura casualità la sposa chiede al marito di posare per un suo dipinto che ritrae una ballerina, in Einar scatta qualcosa di anomalo. Un desiderio che è presente nella sua mente fin dall’infanzia. Una voglia irrefrenabile di uscire dalla sua mascolinità per entrare in quel universo femminile tanto agognato. Tormento interiore che ha trovato l’uscita dal labirinto grazie alla bellezza dell’arte. 
The Danish Girl è liberamente tratto dal libro omonimo di David Ebershoff pubblicato nel 2000, che racconta la vita della prima transgender della storia attraverso i suoi diari segreti. La trasformazione da uomo a donna di un artista affermato, che ad un certo punto della sua vita ha deciso di diventare Lili Elbe.
Il regista Tom Hooper, premio Oscar per Il Discorso del Re (2010), a livello umanistico punta sull’amore e meno sulle forti problematiche legate all’integrazione nella società dell’epoca. Dirige con intimismo due personaggi uniti dalla passione per la vita e per se stessi, che vivono l’amore all’unisono. La sua tecnica di regia è ineccepibile. Inquadrature artistiche che sembrano quadri parlanti. Uso degli spazi e delle profondità che mettono in risalto ed aiutano la narrazione a fluire con dinamicità, portandoci nelle stanze e nei salotti aristocratici, mai appesantendoci. Merito è dovuto anche alla fedele ricostruzione storica ed alla sua compattezza. Menzione d’obbligo è per l’uso della fotografia (Danny Cohen, cinematographer dei due precedenti film del regista). Le geometrie sono esaltate dall’uso perfetto delle luci.
Uscendo dai tecnicismi, che erano d’obbligo menzionare, parliamo dei meriti di un film che osa nell’interpretazione dell’amore ed un po’ meno sul dolore e sulle frustrazioni, che un argomento del genere implica. Per capirci, il disagio interno ed il dualismo faticoso da accettare tra la materialità del corpo ed il proprio essere immateriale. E’ l’unica mancanza in The Danish Girl, dove della critica pungente potrebbe trovare dei difetti, imputandogli una visione classica e corretta da film acchiappa Oscar. La drammaturgia si avvale di due interpretazioni sopra la norma: Eddie Redmayne prenota la Coppa Volpi al Festival di Venezia edizione 72 come migliore attore, o magari attrice? Sembra veramente il caso di dubitare sulla categoria, perché la sua Lili emerge in superficie. E’ una donna che si rivela e scopre la sua femminilità. Si realizza con lo spazio creato dall’arte. Identità forte e coraggiosa come lo è nella realtà una transgender. Non vi è il minimo dubbio che si innamori di se stessa, pronta per vivere una vita autentica. Corroborata dal partner, una Alicia Vikander in stato di grazia. Da lei traspare la sofferenza, ma anche la tenacia nel supportare il suo unico vero amore. Un affetto senza distinzione di sesso, oltre le barriere fisiche, reso imprescindibile dall’amore per la bellezza intrinseca nei sui quadri. L’espressione massima di se espressa su tela aiuta Lili a sbocciare.  Il potere curativo dell’arte, non è corretto dire che ci può solo salvare, indubbiamente porta in trionfo l’anima rimasta per troppo tempo legata alle convenzioni e falsi moralismi.
Assolutamente da non perdere The Danish Girl, in Italia uscirà nel mese di Febbraio 2016, al quale nel finale gli abboniamo qualche manierismo di troppo, che scaturisce in momenti di commozione. Sinceramente, se valutiamo il messaggio unico della pellicola, non dovremmo piangere, ma alzare gli occhi al cielo facendo esplodere la gioia.
 
David Siena