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Ti Guardo. Desde Alla'

Giovedì 10 Settembre 2015 11:02 Pubblicato in Recensioni
Ti Guardo, titolo italiano di Desde Alla’, vincitore del Leone D’oro alla Mostra del Cinema di Venezia edizione 72, è un film complesso, che porta in sé una tematica forte. Nel suo dna ci sono segni di grande autoralità ed anche piccoli cali di stile, ma non possiamo che complimentarci con gli autori della storia: Guillermo Arriaga (Amores Perros - 2000, 21 Grammi – 2003, tra i suoi lavori più riusciti) e Lorenzo Vigas, per aver costruito un’opera intensa, partendo da situazioni di dolore personale ed intimo per poi allargare la visione ad un dolore universale, che accomuna tutto il genere umano.
 
Armando (Alfredo Castro, Post Mortem - 2010), uomo sulla cinquantina, lavora in proprio. Nel suo laboratorio costruisce e ripara protesi dentali. Meticoloso e preciso, il suo modo di vivere va in contrasto con la città in cui risiede, una Caracas degradata, caotica e colma di delinquenza. In questo mondo al contrario, lui riesce a mimetizzarsi perfettamente. Porta nel suo cuore tremende ferite, figlie di un’esistenza che ha molto in comune con la contemporaneità pazza e deviata. Sfoga le sue ansie e paure guardando dei ragazzotti spogliarsi nella sua casa. Voyeurismo come vizio, che lo porta ad incontrare Elder (Luis Silva, all’esordio cinematografico), giovane ladruncolo che lavora in uno sfasciacarrozze. In un primo momento la loro unione stenta ad ingranare, in quanto il ragazzo, dichiaratamente omofobo, lo sfrutta solo per il denaro e le comodità che hanno un deciso sapore paterno. 
Questa situazione umana al limite, resa più fastidiosa dall’entrata in scena del padre di Armando, portatore di nefasti ricordi, trova un punto d’unione inaspettato. Forte e debole allo stesso tempo. Armando e Elder intraprendono un rapporto umano e curativo. L’uno cerca di guarire l’altro dal proprio disagio personale e la componente fisica avrà anch’essa un ruolo fondamentale nella storia.
 
Al timone della pellicola troviamo il neofita Lorenzo Vigas, che fa uso esclusivo dei primi piani. L’obbiettivo si fissa sui due personaggi principali, lasciando i dialoghi fuori campo. Quando il primo piano è su Armando tutto il resto non è a fuoco, come la sua vita, un sorta di mondo tra le nubi. Intimità morbosa, che in alcuni tratti però rallenta il ritmo del film. Staticità, che suo malgrado non rovina la splendida sceneggiatura e la potenza del messaggio. Sicuramente un po’ più di frenesia con la macchina da presa, per intenderci una regia alla A.G. Inarritu (Babel – 2006), avrebbe reso il film memorabile, al limite del capolavoro. 
 
La narrazione si sviluppa in modo lineare, non intrecciandosi com’è solito fare nei suoi lavori Guillermo Arriaga. Lo scrittore messicano lavora con egregia maestria sulla sensibilità ed imbastisce una relazione impossibile, che colpisce al cuore e fa riflettere sulla natura dell’essere umano. Osserva vite segnate dalla sofferenza, che percorrono un binario che devia inaspettatamente la propria via per poi riprendere il sentiero delle proprie origini. Destino segnato, che sembra essere un macigno inscalfibile. Figlio dell’esperienza del dolore, che non si può cancellare. Analisi spietata di matematica precisione. Memorabile è l’attimo nel quale il fato, linea retta, si spezza. Non è un baratro, ma un soffio di vento impercettibile che pulisce l’anima. Unione pacifica e riparatrice tra Armando e Elder, che esplode in una composta gioia di vivere. Dura pochissimo, ma è presente ed Arriaga è superbo a portarci lì, dentro quell’emozione.
 
Desde alla’ è un recipiente traboccante di scene iconografiche, alle quali non si può rimanere indifferenti. Scaldano il nostro spirito in profondità e portano il calore fino sulla nostra pelle. Lo scoglio che non può arginare il mare è il desiderio sessuale di Armando nei confronti di Elder, che non può essere completamente sopito. La vettura acquistata da Elder e sistemata da lui stesso con cura. Macchina, che non potrà mai tornare come nuova, trova il suo riflesso nella condizione malfamata del ragazzo.
Poderosa è anche la speculare inquadratura, pressoché identica, tra amore etero e omosessuale. La mia preferita ha come soggetto una semplice statuina di ceramica. Intrinseco a quell’oggetto sono riassunte tre situazioni focali e cariche di sentimento della pellicola: il furto, la rabbia e la voglia di un legame duraturo.
 
Dal punto di vista artistico i due attori protagonisti entrano nella parte con realismo. Si avvicinano troppo e non mancano di farcelo vedere e sentire in ogni fotogramma. Soprattutto la dedizione di Alfredo Castro, attore feticcio dell’eccellente regista cileno Pablo Larrain (No. I giorni dell’arcobaleno - 2012), al suo concavo personaggio è stupefacente.
 
Il film di Lorenzo Vigas, ci insegna come sia impossibile sfuggire alla propria natura e come ci si possa avvicinare a sconfiggere il dolore senza però mai metterlo a tacere. Urla che tornano nell’intimo e che nostro malgrado ognuno di noi ha sentito riecheggiare, almeno una volta, nella propria anima. Perché se viviamo, dobbiamo essere pronti a convivere con le problematiche figlie dell’esistenza: lutto, molestie, situazioni disagiate, mancanza di un vero amore, difficoltà nel dichiararsi diversi, problematiche famigliari, di integrazione e malattie incurabili. Desde alla’ racconta con tatto ed amore le conseguenze di tutto questo. Leone d’Oro meritato.
 
David Siena

Revenant

Lunedì 18 Gennaio 2016 16:27 Pubblicato in Recensioni
1823. L’esploratore Hugh Glass, vedovo e padre di un mezzosangue indiano, viene assunto come guida per una battuta di caccia alla ricerca di pelli e pellicce tra gli Stati americani di Montana, North Dakota e South Dakota. Tra i suoi compagni è quello che più di tutti conosce le vergini terre americane, in cui soldati, mercenari e cacciatori si inoltrano per scopi commerciali, provocando sanguinosi conflitti con le tribù indigene. Dopo essere stato brutalmente attaccato da un grizzly, Glass rimane in fin di vita. Fitzgerald (Tom Hardy), il più arrogante della compagnia, si offre di rimanere con lui e di dargli degna sepoltura quando sarà il momento, ma lo abbandona fra la vita e la morte dopo averlo derubato del suo bene più caro.
Tratto da una storia vera, il film racconta l’epica avventura di un uomo che cerca di sopravvivere nelle terre impervie di un’America inesplorata grazie alla straordinaria forza del proprio spirito. 
 
È difficile parlare di The Revenant senza accennare alla sua programmatica corsa agli Oscar. Il film di Alejandro González Iñárritu, fresco di 12 nomination, sembra pensato apposta per replicare lo straordinario successo di Birdman, vincitore di 4 statuette tra cui miglior film e miglior regia.  
Il personaggio di Glass è un vestito cucito su misura per il premio come miglior attore. Un’opportunità irripetibile - costruita ad hoc - per permettere al bravissimo Di Caprio di stringere finalmente fra le dita la prestigiosa statuetta, dopo 4 nomination andate a vuoto e la pressione di un'opinione pubblica che ironizza sulle sue vittorie mutilate. 
«Per quanto riguarda gli attori la malattia paga» commentò cinicamente il critico Gianni Canova dopo le vittorie dello scorso anno: Eddie Redmayne, miglior attore protagonista nel biopic su Stephen Hawking e  Julianne Moore, miglior attrice nel ruolo struggente di una donna malata di Alzheimer in Still Alice. 
Anche senza malattie e disabilità permanenti, Di Caprio mette il suo corpo a dura prova nella performance più difficile di tutta la sua carriera. Nell’arco dei 9 interminabili mesi di lavorazione l’attore ha rischiato più volte l’ipotermia a causa della temperatura di 40 grandi sotto zero  - motivo che ha spinto diversi membri della troupe ad abbandonare le riprese -, indossato pellicce di orso e d’alce dal peso di 45 kg, mangiato fegato di bisonte crudo e dormito nella carcassa di un cavallo morto. Il suo personaggio si limita per tutto il tempo a subire una serie di sfortunati eventi, come un cartoon che non muore mai; roba che in confronto quello di Sandra Bullock nello spazio profondo di Gravity sembra un tranquillo weekend a Pescasseroli. 
 
Ma il film è anche una vetrina espositiva per Iñárritu, irrefrenabile forza della natura, e il superbo direttore della fotografia Emmanuel Lubezki (Oscar per Gravity e Birdman).
In Birdman, attraverso il lungo piano sequenza simulato e un pragmatico uso di effetti digitali, il regista messicano era riuscito a ricreare il fascino illusorio ed inspiegabile tipico del cinema delle origini. Quella magia che non troviamo nemmeno nei blockbuster più pirotecnici, dove la spettacolarità è un trucco dichiarato che non lascia spazio alla fantasia. Davanti a quei virtuosissimi movimenti di macchina, nel buio della sala, ci si chiede spesso «Ma come cazzo hanno fatto?». Interrogativo alla base dell’essenza stessa del cinema e non troppo lontano da quello degli spettatori di fronte ai primi capolavori di Méliès. 
 
In The Revenant Iñárritu e Lubezki si spingono addirittura oltre; lasciano i Kaufman Astoria Studios di New York – dove si svolsero interamente le riprese di Birdman – per le location incontaminate di Alberta, Canada e Argentina, dove, seguendo l’influenza di Herzog, «filmano l’impossibile», sfruttando questa volta solo luce naturale. 
La macchina da presa, attraverso i fluidi long take, sta letteralmente addosso al protagonista, mentre il suo respiro appanna l’obiettivo e gli schizzi di sangue macchiano lo schermo. 
La lettura politica dei conflitti fra nativi americani e invasori europei e quella spirituale, legata agli inserti onirici di Glass vagamente Malickiani e al suo desiderio di vendetta, risultano complementari nella potente messa in scena del rapporto fra l’uomo e la natura; dove gli alberi - la natura -  protendono verso il cielo, come le frecce infuocate scoccate dai nativi, civiltà nettamente superiore dei mercenari colonizzatori – l’uomo - che invece strisciano al suolo come vermi. 
Una gioia per gli occhi e poco più.
 
Angelo Santini

Joy

Domenica 17 Gennaio 2016 12:19 Pubblicato in Recensioni
In un mondo dove le commedie sono “fuori tempo”, David O. Russel le riporta in auge e ricompatta il suo team vincente di attori protagonisti de “Il Lato Positivo”. Joy (Jennifer Lawrence) ha una famiglia rimarcabile composta da una nonna sognatrice, un padre inopportuno (Robert De Niro), un marito con cui va più d’accordo da divorziata, un figlio “invisibile”, una figlia adorabile e una madre rimbambita che vive attaccata alla tv a seguire le Telenovelas. La ragazza non sa quale direzione far prendere alla sua vita, è costretta a fare da “mamma” anche ai genitori. La sua giornata viene riempita da battibecchi e faccende domestiche surreali. L’inaffidabilità dei prodotti per la casa, la portano ad ingegnarsi per costruire un modo per pulire senza sporcarsi. Un bel giorno prende i pastelli colorati della figlia, le trecce di lana di una sua bambola e, dal niente, una lampadina si accende nella sua testa, disegna il primo prototipo di Mocio riutilizzabile e lotta perché la sua idea entri nelle case di tutti. Pronta a tutto lo brevetta lo fa sponsorizzare arriva addirittura alla scrivania di un vecchio amico del suo “quasi” marito, Neil Walker (Bradley Cooper). Egli dirige i traffici del magico mondo delle televendite e la rimbambisce di chiacchiere come faceva la nonna, il sogno americano del “tutto è possibile” diventa il vero protagonista della pellicola. Tutto fu davvero così per l’imprenditrice Joy Magnano, grazie alle sue invenzioni (più di 100) la donna con i suoi 59 anni è tutt’oggi sulla cresta dell’onda. Il film è liberamente ispirato alla sua vita. Jennifer Lawrence ha già ottenuto un Golden Globe per il ruolo da protagonista femminile nella categoria “Comedy-Musical” ed è (per la quarta volta) in lista per l’Oscar (nel 2013 ne vinse uno con lo stesso regista). La Joy cinematografica sembra una caricatura della imbattibile Katniss di Hanger Games (interpretata dalla stessa) con il doppio della determinazione e la lingua ancora più tagliente. Super Donna, Super mamma, frenata solo dalla vita che sembra voler castrare i buoni propositi dell’intero mondo. La sceneggiatura altrettanto affettata porta la firma del regista. I costumi sono indubbiamente accurati per il mood anni 90, come in un catalogo di Barbie. Il compositore della colonna sonora David Cambell convince solo nelle sequenze che vogliono diventare “cult”. Girato senza dubbio con sapienza, la fotografia dai colori saturi e la scenografia da romanzo leggero contribuisco al “troppo” stupore che lo spettatore percepisce guardando una pubblicità perfetta. La sensazione che si ha è che il regista non abbia voluto rischiare, puntando sul suo cavallo “vincente” la solita cifra. Ma questa è l’America.
 
Francesca Tulli

Franny

Sabato 16 Gennaio 2016 12:06 Pubblicato in Recensioni
Franny (Richard Gere), protagonista dell’opera prima dell'esordiente Andrew Renzi, è un vecchio solitario, miliardario e proprietario di un ospedale, che risvegliatosi da un coma è assalito dai sensi di colpa per la perdita degli unici amici che aveva. Viene contattato dalla figlia della coppia Olivia (Dakota Fanning), che in tenera età aveva soprannominato affettuosamente “Poodle”. La ragazza, prossima al parto, sta per sposarsi con il neo dottore Luke (Theo James); ai due innamorati non manca nulla in termini di volontà, ma il loro profilo economico non gli garantisce il massimo per il loro futuro, a questo penserà Franny, il loro “Benefattore” (The Benfactor è il titolo originale della pellicola). Quella che ad un primo  sguardo può passare per la filantropia di un vecchio amico, nasconde in realtà un personale e morboso bisogno di ricostruire una propria personalissima realtà, ricca di un grande vuoto emotivo, sostituendo la coppia di amici di un tempo, ormai non più in vita, con i due giovani “sconosciuti”. Così Franny, che entra nella vita dei due come uno zio premuroso, diventerà presto un peso, una figura invadente e non sempre ben voluta. Richard Gere, che con sincera generosità si mette ancora una volta a disposizione di un regista emergente per far decollare il suo film, è un esempio di reale filantropia, e non delude, non ha paura di mostrare la sua età, resta inossidabile nella classe di un attore che rasserena il pubblico e porta la pellicola a compimento, facendo uscire dalla sala lo spettatore con un sorriso. Il regista, nato nell’84, racconta Gere nella conferenza stampa tenutasi a Roma durante la promozione del film, non voleva connotare il suo protagonista con un particolare orientamento sessuale né voleva che rientrasse in altri stereotipi: Franny è semplicemente un uomo che vive l’amicizia a suo modo e fa della sua vita quello che vuole. Una buona lettura del significato di famiglia, senza implicazioni religiose o di sangue. E’ stato presentato al Tribeca Film festival del 2015 ottenendo un distributore ufficiale, la Samuel Godwyn film. Un film indipendente godibile, al pari di tanti premiati e famosi, esempio di come il cinema d’autore sia a volte sopravvalutato.   
 
Francesca Tulli