Fuoritraccia

Newsletter

Messaggio
  • EU e-Privacy Directive

    This website uses cookies to manage authentication, navigation, and other functions. By using our website, you agree that we can place these types of cookies on your device.

    View e-Privacy Directive Documents

Home » Full Screen » Info
A+ R A-
Info

Info

E-mail: Questo indirizzo e-mail è protetto dallo spam bot. Abilita Javascript per vederlo.

Everest

Mercoledì 30 Settembre 2015 08:52 Pubblicato in Recensioni
Everest, lungometraggio scelto per aprire l’edizione 72 della Mostra del Cinema di Venezia, ha portato in   anticipo l’inverno sul Lido. 
Dopo gli scoppiettanti inizi delle due passate stagioni: Gravity di Alfonso Cuaron (Presidente di Giuria di questa edizione del Festival) e Birdman di Alejandro Gonzalez Inarritu, il film intimistico ed epico di Baltasar Kormákur (Contraband – 2012, Cani Sciolti - 2013), che parla della drammatica spedizione avvenuta sull’Everest nel 1996 da parte di due gruppi di escursionisti amanti dell’alpinismo estremo, non convince appieno e passa su Venezia come una tormenta di neve in piena estate. 
Il film è la riproposizione dei fatti descritti nel saggio Aria Sottile (1997) di Jon Krakauer. Non nuovo a best seller di genere avventuroso, in quanto autore del libro Nelle terre selvagge (1996), che diventò lo splendido film Into the Wild (2007) diretto da Sean Penn.
Girato alle pendici dell’Everest, sulle nostre Dolomiti, negli studi di Cinecittà a Roma e Pinewood a Londra, l’opera spiega essenzialmente la storia di un gruppo di persone qualunque che si cimenta con le imprevedibilità della montagna. 
Corale per diritto, nel cast sono presenti una serie di star hollywoodiane del calibro di: Jake Gyllenhaal (Donnie Darko - 2001), Josh Brolin (Non è un paese per Vecchi - 2007) e Jason Clarke (Apes Revolution - 2014). Coprotagonisti di questo film dove l’indiscussa protagonista è la Montagna. 8848 metri sul livello del mare. Il luogo più angusto che la natura ci potesse regalare. Figlia degli Dei e quindi proibita all’uomo.
Kormákur dirige con mano gelida ed un poco documentaristica. Sarà perché abituato al clima della sua terra, l’Islanda? Può darsi. 
La narrazione si concentra sulla ricerca di una realtà concreta e vera. La quotidianità della sua terra, così lunare, aiuta l’autore nell’unico vero fiore all’occhiello del film: l’esatta descrizione della natura a quelle altezze. Più si dà alla realtà, più tutto sembra reale. Da questo anche l’uso limitato della computer grafica. La storia del gruppo, meno approfondita, ne risente. Il risultato è un film che alterna le emozioni. Poco omogeno. Il senso di cameratismo, di unione davanti alla tragedia e l’approfondimento dei personaggi è solo abbozzato. Il dolore rientra nei soliti cliché di genere, manca quell’aspetto umano che aveva caratterizzato un film similare: Alive – Sopravvissuti (1993). Disastro aereo accaduto ad una squadra di rugby sulla catena montuosa delle Ande.
In sostanza, manca la figura metaforica del proprio Everest da scalare. Ogni essere umano ne ha uno, basso o alto che sia. Ci sarebbe piaciuto entrare con l’uomo scalatore dentro alla natura selvaggia e carpire cosa si prova nei momenti difficili, dove veramente si ha la percezione di se stessi. L’uomo nella natura ritrova la sua vera natura. Una guerra dentro ognuno di noi, piscologica ma anche fisica. Per rendere poi il ritorno alla normalità qualcosa di veramente speciale. In alcuni casi risolutrice o condizione preziosa per ripartire con una nuova vita.
La figura femminile è sostanzialmente rilegata a forma di supporto morale. Keira Knightley (Orgoglio e Pregiudizio – 2005) e Robin Wright (Forrest Gump – 1994) rappresentano quel coraggio spirituale che vacilla nei propri cari. Voglia di non mollare che torna agli alpinisti in difficoltà, attraverso sogni deliranti e telefonate intercontinentali.
Il materiale a disposizione del regista e degli sceneggiatori (Simon Beaufoy, William Nicholson) era molto corposo e vasto e lasciava presagire una riuscita ben diversa da quella messa su immagini. Perché, se l’intento era quello di spiegare la montagna e le sue peculiarità, l’obbligo era quello di introdurre nella descrizione la caratterizzazione del gruppo. Povera e rilegata a comparsa come descritto in precedenza.
Uomo e natura sono indivisibili e qui paiono figli di due universi lontani lontani.
 
David Siena
 
Giovedì 3 Settembre, alle ore 11, presso l’Italian Pavilion Sala Tropicana dell’Hotel Excelsior del Lido di Venezia, nel corso della 72esima Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica, si terrà la presentazione di “Il Metacinema nelle opere di Lynch, Cronenberg, De Palma” di Chiara Nucera.
 
L'incontro verrà moderato dal giornalista Andrea Guglielmino (CinecittàNews, 8 ½ - Numeri, visioni e prospettive del cinema italiano, Everyeye)
 
 
“Il metacinema nelle opere di Lynch, Cronenberg, De Palma” è il titolo del recente volume di Chiara Nucera, edito nella collana Spaghetti Horror delle Edizioni Umanistiche Scientifiche – EUS (pp. 143 euro 16,90). La filosofia platonica e aristotelica, il teatro greco e le teorie psicanalitiche di Freud e del suo allievo Rank, il concetto di doppio e di molteplicità del reale, nella vita e nel cinema: da questi elementi e sulle loro tracce l’autrice articola un’interessante e meticolosa analisi del modo in cui tre maestri del cinema, David Cronenberg, Brian De Palma e David Lynch, strutturano un nuovo rapporto tra schermo e corpo dello spettatore, partendo da punti di vista diversi e arrivando alla formulazione di tre diversi tipi di realtà. Traendo alimento anche dalle riflessioni di Nietzsche, Bazin, Pasolini e Hitchcock, Nucera conduce un ragionamento preciso e appassionato, al termine del quale il cinema si conferma o si rivela come ” … moltitudine di specchi nei quali ci riflettiamo, di soglie varcate che ci trasportano in altre dimensioni, come quella che Alice attraversa per arrivare nel Paese delle Meraviglie … “.
Andrea Corrado per dgCinews, periodico della Direzione Generale Cinema
Responsabile di redazione Maria di Lauro
 

Ex Machina

Lunedì 03 Agosto 2015 14:27 Pubblicato in Recensioni
Caleb, giovane e brillante programmatore, vince la possibilità di trascorrere una settimana nel laboratorio del fondatore dell'azienda per la quale lavora, Nathan, un ex bambino prodigio, creatore, in tenera età, del più frequentato motore di ricerca del web e adesso impegnato in un progetto semisegreto sulle intelligenze artificiali.
Quando giunge in questa sorta di rifugio antiatomico, asettico bunker isolato nella tundra norvegese, privo di finestre e con porte che possono essere aperte a seconda del “grado di expertise”, o meglio, in base ai privilegi di cui si dispone, Caleb scopre, via via con sempre maggiore consapevolezza, di essere il soggetto prescelto per una versione rivista e corretta del test di Turing: concretamente, interagirà con una donna-macchina, la splendida Alicia Vikander, che lui sa essere tale e che, col suo sembiante ibrido, glielo ricorda continuamente, contraddetta però da un atteggiamento che è umano, o che lo sembra. Il giovane informatico manterrà la consapevolezza di stare dialogando con una donna androide oppure meccanica e vis umana, filosoficamente sempre più convergenti, si confonderanno l'una con l'altra fino alla completa inestricabilità concettuale?
Mano a mano che la storia procede, come in un gioco di specchi, diegetici e allegorici, i rapporti tra i tre (più uno) protagonisti si complicano e le intenzioni di ognuno, reali, presunte, simulate, si disvelano. Forse...
 
E' vastissima la letteratura, anche cinematografica, sugli androidi e sulle intelligenze artificiali, tanto che se Alex Garland, esordiente dietro la macchina da presa, già sceneggiatore e romanziere, avesse voluto misurarsi con una “semplice” disamina sul rapporti uomo-umanoide, avrebbe dovuto senza dubbio fare i conti con celebri precedenti, talvolta iconicamente difficili da eguagliare.
Per fortuna dunque la strada scelta è stata un'altra, non meno impervia – a ciò si possono imputare le piccole sbavature della pellicola -  ma in un certo senso inedita, senza dubbio disturbante.
Più interessato a sondare i confini etici di un supposto postumanesimo scientifico che simula, per eccesso di ybris, la mistica cristiana del creazionismo, arrivando a proclamarsi esso stesso divino, più che alla fantascienza in senso stretto, il regista imbastisce un feroce gioco al massacro, caro al teatro novecentesco. Stringe i suoi interpreti, tre, come i superstiti nella stazione orbitante che fluttua su Solaris, apparenti emblemi della tripartizione platonica dell'anima, come pure delle istanze intrapsichiche freudiane e delle Critiche kantiane, ma in realtà tanto mossi e imprendibili da simboleggiare sovente nulla più che loro stessi, meravigliosamente veri, anche quando recitano il copione di una caccia tra gatti e topi che continuamente mutano apparenza ed essenza, in una struttura asfissiante e claustrofobica, contrapposta al fuori, un altrove verde, dal respiro quasi infinito, inafferrabile nella sua interezza.
Li fa muovere e parlare, osservandoli, anche durante i blackout elettrici, come Skinner con i suoi ratti, dà loro rinforzi positivi, elargisce punizioni, ciascuno operante, ma allo stesso tempo burattino di un gioco che trascende la possibilità umana di dominio. Colui che si erge a “deus” è la vittima designata di una debolezza umanissima che si chiama solitudine, il soldatino semplice che solo lo è sempre stato – e Nathan lo sa – dopo aver temuto o sperato, con noi, di poter divenire epidermicamente affine al proprio desiderio, tenta l'emulazione su un piano strettamente razionale, soccombendo per una ingenuità nella programmazione.
Il portato di sola, autentica umanità, diviene dunque, in apparente paradosso, la macchina, l'androide, la donna, colei che, potendo essere assemblata e dissemblata a piacimento da un dio-carceriere che non riconosce e che le imputa una colpa atavica, rivendica fino in fondo il diritto alla propria libertà, di arbitrio e non soltanto. Ava/Eva sceglie la pelle che vuole essere, fonde Anima e Animus, logos e eros, parla una lingua che è emozionale, infonde la vita, non più la meccanica esistenza, a un'altra come lei, una sorta di ombra che si aggira per il laboratorio di Nathan, geisha ballerina e serviente, che solo sul finire del film nasce nella comunione col proprio simile. In una scena che è foriera di morte e di vita allo stesso tempo, costretta in un claustrofobico corridoio, fotografato di bianco accecante, che rimanda a Tarkovskij, a Kubrick, Kyoko chiede e merita una compassione finalmente umana, in una lotta coreografata come in un macabro teatro dell'assurdo. Di fronte ai suoi occhi, Winnie si disseppellisce, la Prima Donna, che sempre è stata nuda, sceglie di vestirsi per uscire nell'Eden che è stato creato per lei. Se lo riprende senza bisogno di emendare alcun peccato originale. 
Mente, simula, si adatta. 
Si pensa libera e dunque lo diviene. 
Ma gli androidi sognano pecore elettriche? No, piuttosto incroci affollati (di ombre, diverse e identiche).
 
 
A margine: un trio di spettacolari interpreti impreziosiscono l'opera di Garland, scritta con eleganza e intelligenza. Oscar Isaac è uno dei più camaleontici interpreti della nuova generazione, tra i due, al massimo tre capaci di rendersi realmente irriconoscibili da una performance all'altra. Senza l'ombra del divismo maledetto e ostentato, recita, balla, canta, brutalizza, seduce a livelli difficilissimi da trovare. Chapeau. 
 
Ilaria Mainardi
 

Una storia sbagliata

Giovedì 18 Giugno 2015 15:25 Pubblicato in Recensioni
Stefania (Isabella Ragonese) è un’infermiera pediatrica, Roberto (Francesco Scianna) un militare. Le sue continue missioni all’estero iniziano a compromettere l’armonia del loro matrimonio finché, un giorno, Roberto non torna più a casa. Qui inizia il viaggio di sua moglie.
Quel che è certo è che sotto le spoglie ambigue del film romantico, Una storia sbagliata è un film di denuncia, un film d’attualità e quindi, perché no, un film politico. Più semplicemente è una storia sul Sud del mondo, che pare avere sempre gli stessi lineamenti e gli stessi odori, nonostante la profonda frattura tra culture che rifiutano di comunicare.
Una storia sbagliata è il racconto discreto di un’epoca intossicata da conflitti universali. Muovendosi in un presente storico che invade le mura domestiche fino a deviare anche il corso naturale di una comune storia d’amore, il film scavalca i confini di genere e acquisisce un valore altro. È questo valore aggiunto che consente a Tavarelli di emanciparsi dagli standard del dramma romantico, ma soprattutto da quelli del film di guerra. 
Una storia sbagliata sfida il pregiudizio, rinuncia alle ipocrisie e mostra il dramma del nostro presente, attraverso una scrittura emotiva ma mai patetica. È un piacere trovarsi di fronte al percorso di questi anti-eroi consumati, persi, e soprattutto lontani dal patriottismo compiaciuto. Tavarelli non offre vie di fuga: né l’orgoglio di aver servito il Paese, né la fede cieca in un ideale. Roberto è folgorato da un mondo che Stefania andrà ad esplorare con rancore, senza curiosità, senza rispetto, dando vita ad un viaggio di (ri)scoperta, che però non conosce perdono.
Che sia sbagliata o meno, questa è una storia come tante, proiettata su uno scenario socio-politico internazionale. Un faccia a faccia tra più mondi che si sfiorano senza comunicare: quello di un uomo e una donna, distanti nel loro essere coppia, e quello di Gela e dell’Iraq, uniti sotto gli stessi peccati e le stesse illusioni.
Da una parte una donna spezzata e incattivita, costretta ad andare in guerra per capire cosa ha incrinato il suo matrimonio; dall’altra un uomo che non riesce più ad essere uomo, compagno e marito, perché non è altro che un soldato. E mentre nel presente Stefania parte con un bagaglio di rabbia ed egoismo, reduce del dolore folle per il suo lutto, Roberto nei ricordi confusi della loro relazione torna a casa ogni volta con un nuovo carico di traumi e ossessioni.
Così Tavarelli racconta un matrimonio a tre termini, in cui l’entusiasmo pulito di Stefania si spegne poco a poco sotto la pulsione di morte di Roberto. E intanto il fantasma della guerra inizia ad occupare un terzo posto a tavola, a togliere spazio nel letto, a sostituirsi alla possibilità di un figlio e di un futuro insieme. L’epilogo è nello sguardo di due donne, la vedova di un soldato e quella di un kamikaze: qui, per l’ultima volta, i confini tra vittima e carnefice, sacro e profano, vacillano senza soluzione. Così l’Italia entra in Iraq e porterà l’Iraq con sé, a Gela.
 
Chiara Del Zanno