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Creed. Nato per combattere

Giovedì 14 Gennaio 2016 18:13 Pubblicato in Recensioni
Adonis Johnson (Michael B. Jordan) è il figlio illegittimo di Apollo Creed, morto sul ring poco prima che lui nascesse. Trascorre un’infanzia difficile, finché non viene adottato da Mary Anne Creed (Phylicia Rashad), la vedova di Apollo, che lo porta con sé in California. Si capisce subito che il protagonista è «nato per combattere»; da piccolo picchia duro i compagni di riformatorio, da grande s'è scisso fra un lavoro castrante ma redditizio a Los Angeles e gli incontri clandestini di boxe in Messico.  
Contro il parere di Mary Anne, il protagonista lascia l’agiatezza del suo mondo ordinario e si trasferisce a Philadelphia, la città dove si tenne il leggendario incontro fra Apollo Creed e Rocky Balboa. Una volta arrivato nella città dell’amore fraterno, Adonis rintraccia Rocky (Stallone) e gli chiede di diventare il suo allenatore.
 
Adonis non è il nero che lotta per uscire dal ghetto e diventare un paperone impaccato di milioni come Apollo. Vive già nell’idillio del sogno americano, all’ombra di suo padre: è istruito, ha un bel lavoro e una bella macchina. Ma tutto questo sembra andargli stretto. Adonis fa parte di una seconda generazione, che combatte per affermare la propria personalità indipendentemente da quella precedente; per dimostrare a sé stesso e agli altri di non essere un buffone, un “Baby Creed” insomma. Questa è anche la motivazione congenita del film stesso, che combatte per emanciparsi dalla serie di Rocky e non essere solo un reboot- fotocopia del primo film, sforzandosi di creare conflitti diversi e un ricambio generazionale. 
Non mancano però i riferimenti alla serie originale, come la leggendaria scalinata dell’Art Museum a Philadelphia, gli allenamenti spartani con le galline e una figura femminile cucciola e indifesa di cui il combattente si prende cura; nel primo film Adriana era una commessa impacciata ai limiti dell’autismo, sguattera del fratello/patriarca Paulie, mentre qui Adonis si innamora di Bianca (Tessa Thompson) una musicista che soffre di una degenerazione dismorfica all’udito. 
 
Con questo film Stallone, premiato con il Golden Globe come miglior attore non protagonista, ha finalmente ricordato che vuol dire la parola dignità. A quasi settant’anni lo abbiamo visto menare le mani con i suoi amici Mercenari duri a invecchiare, convinto che il pubblico ridesse con lui, mentre in fondo rideva di lui. Per la prima volta non mette mano alla sceneggiatura della sua saga e si dedica esclusivamente al lato interpretativo, mettendo in scena un Eroe/Mentore più tragico e crepuscolare dell’ultima avventura –patetica e un po’ surreale– di Rocky Balboa (Balboa, 2007), che lo vedeva tornare sul ring alla veneranda età di 65 anni.
In Creed Rocky/Sly supera quella crisi della terza età ed è costretto a combattere la sua (ultima?) battaglia contro un avversario più letale di chiunque abbia mai affrontato sul ring. D’altronde tutti quelli che lo circondavano sono morti e lo “stallone italiano” - come ancora lo chiama qualcuno nella vecchia palestra di Mickey - non può far altro che imparare dai suoi errori, accettare il tempo che passa e smettere di vivere fra le fotografie del passato incorniciate sulle mura del suo ristorante.
 
Il regista Ryan Coogler (Prossima fermata – Fruitvale station, 2014), grande fan di Rocky fin da bambino, resuscita il franchise da 9 anni di dimenticatoio. Filma i match in modo meno frammentario e serrato del precedente Rocky Balboa; il primo incontro a Philadelphia contro Gabriel Rosado (sosia indiscusso di Fedez) è un unico long take con la macchina da presa che gira intorno ai due pugili, mentre la stessa tecnica viene usata per l’entrata sul ring durante il match finale con Ricky Conlan (Tony Bellew). 
 
Non un gran film, ma senz’altro un film dignitoso che non deluderà sicuramente i fan della serie. Tanto che già si parla di un sequel. 
 
Angelo Santini

Francofonia

Sabato 26 Dicembre 2015 10:08 Pubblicato in Recensioni
Primavera 1940. Durante l’occupazione nazista dello Stato Francese, l’ufficiale Franziskus Wolf-Metternich (Benjamin Utzerath) riceve dal Reich l’incarico di proteggere le opere d’arte contenute nel Louvre, con l’aiuto del direttore del museo Jacques Jaujard (Louis- Do Lencquesaing). Erano tante le ragioni che giustificavano la creazione di un Dipartimento per la protezione delle opere d’arte, soprattutto in seguito all’esperienza prima guerra mondiale, quando molte opere di valore inestimabile vennero perse per sempre sotto i bombardamenti. Grazie all’alleanza forzata dei due protagonisti – prima nemici, poi collaboratori - molti dei tesori del Louvre verranno salvati da uno dei più sanguinosi conflitti della storia. 
 
 
Aleksandr Sukorov torna a usare il cinema per scavare nella civiltà europea, la cui grandezza sta proprio nella sua arte, che il regista elogia ed elabora in molti dei suoi film.
Come nell’Arca Russa  la voce dello stesso Sokurov guida il film e lo spettatore in un inno al coraggio umano, sintesi di un po’ tutto il suo cinema, dall’elegie alla trilogia del potere. 
A differenza di Arca Russa, però, il museo non è solo un pretesto per raccontare la vita che si nasconde dietro le opere, ma il luogo in cui la società ricorda, racconta e preserva la propria identità storico-genetica nei momenti di terrore. In una Francia spaccata dall’occupazione, salvare quei tesori, conquistati anch’essi col sangue durante le guerre napoleoniche, sembra l’unico modo per mantenere viva la cultura umanista profondamente radicata nella capitale del Vecchio Mondo. 
Un film che colpisce anche perché esce in un periodo in cui si invoca – e si impone - l’unità nazionale in una Francia ancora sconvolta dagli attentati del 13 novembre. 
 
Francofonia è un collage di libere associazioni più che un racconto in ordine cronologico, un percorso che segue i meandri visionari del pensiero dell’Autore.
Se il lungo piano sequenza che compone Arca Russa rappresentava la continuità dell’uomo nella Storia, qui Sokurov mescola diversi tipi di immaginari come i colori sulla tavolozza di un pittore: dall’opera d’arte eterna ai materiali d’archivio della seconda guerra mondiale, dalla rappresentazione scenica della grande Storia, attraverso i due protagonisti realmente esistiti, alla videochiamata su Skype fra l’Autore e il suo Amico, a bordo di una nave in tempesta che trasporta un’importante collezione d’arte museale. 
 
Una riflessione sul carattere unico e irripetibile dell’opera d’arte e della comune volontà di integrare quello che Walter Benjamin chiamava «l’aura» che essa emana. 
 
Angelo Santini
 

Star Wars: Episodio VII. Il Risveglio della Forza

Giovedì 17 Dicembre 2015 10:02 Pubblicato in Recensioni
Non tutti sanno che la frase più detta nella saga di Star Wars non è “Che la Forza sia con te” ma “Ho un brutto presentimento.” Quando nel 2012, George Lucas siglò l’accordo con la Disney che segnò il destino della saga e si decise per proseguire con gli Episodi 7, 8 e 9 molti fan la usarono per esprimere il proprio scetticismo. Con la regia di J.J. Abrams e la produzione della presidentessa della Lucasfilm Kathleen Kennedy ha visto la luce il primo film di questo progetto “Il Risveglio Della Forza”. Tanto tempo fa, in una Galassia lontana lontana, Luke Skywalker l’ultimo dei cavalieri Jedi guardiani di pace e di giustizia, è sparito, la Resistenza sotto la guida del Generale Leia Organa invia il suo miglior pilota Poe Dameron (Oscar Isaac) e il suo droide BB8 alla sua disperata ricerca. All’ombra della Nuova Repubblica (nominata ma inesistente) è nato circa quarant’anni dopo la caduta dell’Impero Galattico, una forte opposizione militare, il Primo Ordine, tra le alte gerarchie Kylo Ren (Adam Driver) emulo di Darth Vader, si mette sulle tracce della mappa che conduce a Luke. Tra i biechi soldati dell’impero, FN-2187 (vi dice nulla questo numero? ) altrimenti detto “Finn” (John Boyega) si rifiuta al suo primo incarico di sparare e uccidere degli innocenti per conto del Primo Ordine e diserta. Sul desertico pianeta di Jakku, vive Rey (Daisy Ridley) una giovanissima ragazza che si guadagna la giornata barattando rottami e pezzi di ferraglia con esigue porzioni di cibo. I tre “nel momento sbagliato e nel posto sbagliato” si ritrovano a combattere “l’unica lotta esistente” quella contro la nuova manifestazione del Lato Oscuro della Forza. Ripescando le atmosfere meravigliose degli scenari immaginati da Ralph McQuarrie nel 1977 e avvalendosi del supporto del vecchio cast originale e della colonna sonora di John Williams, Abrams prende lo schema di “Una Nuova Speranza” e lo rivomita a suo gusto. Avvalendosi dei potenti mezzi a sua disposizione rimodella perfettamente (in scala 1:1) le astronavi più amate dal pubblico creando una simpatia quasi obbligatoria da parte degli appassionati che non possono restare indifferenti davanti al Millennium Falcon che spicca il volo dopo 32 anni. Si coltiva gli animi feriti di chi aveva storto il naso, quando Lucas si avvalse (quasi) solo di CGI per creare le creature nei prequels e ripesca gli scarti di lavorazione di John Mollo per plasmare le nuove razze aliene di passaggio servendosi della forza e del realismo dei “pupazzi” (fastidiosa solo la Motion Capture usata su alcuni personaggi chiave, tra cui quello interpretato da Andy Serkis, il Leader Supremo Snoke). La Disney decide di “decanonizzare” tutto il materiale cartaceo ufficiale scritto in 35 anni da svariati scrittori e sceneggiatori, composto da fumetti e romanzi che completavano “l’Universo Espanso” di Star Wars (che mai dall’83 in poi aveva subito incongruenze) per creare una nuova linea temporale in cui muoversi, ma furbamente depreda le idee migliori dei suddetti autori per rimescolarle a piacimento senza fargli avere nessuno profitto. Un vero “plagio”. Ma conquista il mondo. Fa un incasso senza precedenti per la sola prevendita e ingolfa le sue tasche con le speranze e i sogni di chi questa saga la vive con entusiasmo da sempre. Il “Risveglio” è un film per adolescenti infiocchettato da una cappa nostalgica e da citazioni perfette dette al momento appropriato per generare entusiasmo (puro) dove il vero problema non è la “scarsezza di progressi” che fanno i protagonisti per dimostrare davvero il loro posto e il loro valore (potenzialmente gli attori hanno tutti talento da vendere) ma è l’antagonista. Kylo Ren è il personaggio meno carismatico della storia della Fantascienza cinematografica moderna, un bamboccio assetato di vendetta, che pesta i piedi perché vuole troppo e le sue azioni si ripercuotono rovinosamente sull’intera vicenda. Non mancano le battute facili, che vengono tanto criticate (a buona ragione) nei film della Marvel, alcune obiettivamente divertenti altre esagerate e inopportune. Spesso si dice che il problema di Guerre Stellari “Siano i fan” (io ne faccio orgogliosamente parte) alcuni lo hanno definito un “fan movie” ad alto budget, altri hanno semplicemente detto che non si può “non” considerare una parte della saga, ma bisogna avere il coraggio di uscire dai social e di riconoscere che si può avere la facoltà di dire e di pensare dopo tanti anni che “non è Star Wars” non è la Space Opera che fino ad oggi abbiamo conosciuto (con i suoi alti e bassi) e questa opinione deve essere rispettata senza il pericolo di essere sventrati da una spada laser a croce. I digiuni di Star Wars (o gli affamati meno esigenti) lo possono senza dubbio trovare godibile, è accessibile anche a chi non sa nulla dei precedenti (ma sprona ad un ripasso veloce). E’ innegabile che quello che sta portando è un vero “Risveglio” dell’argomento che si era acquietato dal 2005 anno in cui uscì al cinema La Vendetta Dei Sith e questo è un bene. L’impressionate bisogno di tutti di condividere “la Forza” è un buonissimo auspicio per il futuro, questa saga ha il potere di unire, commuovere e generare amicizie. Augurandoci che questo non porti solo alla moda e alla strumentalizzazione dell’argomento in questione, che la Forza sia con noi. Sempre.
 
Francesca Tulli

Vacanze ai Caraibi

Mercoledì 16 Dicembre 2015 11:19 Pubblicato in Recensioni
Il cinepanettone è come il cattivo dei film horror. Quando lo dai per morto e pensi che finalmente sia tutto finito, esce fuori dalla bara con un’ascia in mano per farti a pezzi. 
A quattro anni dall’ultimo capitolo del fortunato filone, Neri Parenti rimette insieme la vecchia banda in una commedia volgare e reazionaria. Tutto comincia a Roma, in un bar del quartiere Prati, dove si incontrano Parenti, Fausto Brizzi e Marco Martani, autori di decine di cinepanettoni (da Tifosi a Natale in crociera). Tutti e tre animati dall’esigenza impellente di tornare al cinepanettone duro e puro, quello con le ambientazioni esotiche in chroma key, le scorreggie e De Sica che dice «delicatissimo». 
In questi quattro anni il film di Natale targato Filmauro si è nascosto dietro la facciata pudica di una commedia dal respiro più ampio (Colpi di fulmine, Colpi di fortuna e l’imminente Natale col boss). Nel 2011, dopo Vacanze di Natale a Cortina, Aurelio De Laurentiis si era reso conto che i costi non avevano più i giusti ricavi e decise di cambiare registro. Ma a Parenti la «commedia sofisticata», come la chiama lui, andava stretta. Lui e De Sica ne girarono un paio, «anche perché – spiega Parenti - eravamo contrattualmente legati a Filmauro ancora per due anni», per poi tornare a fare quello che gli riesce meglio: le commedie con le scoreggie, perché si sa che le scoreggie fanno sempre ridere e in Vacanze ai Caraibi sono la ciliegina sulla torta. 
«Questo non è il Nothing Hill di Vigna Clara» avverte in conferenza stampa De Sica, proprio per prendere le distanze dalla piega soft dei nuovi film natalizi della Filmauro. La storia si articola in tre episodi. Mario (De Sica), un imprenditore in bancarotta, scopre che la giovane figlia intende sposare l’attempato Ottavio (Massimo Ghini). Inizialmente Mario e la moglie (Angela Finocchiaro) sono contrari, ma quando scoprono che è ricchissimo e che potrebbe risolvere i loro problemi finanziari cambiano idea, senza sapere che il futuro genero è in realtà uno squattrinato parassita. Parallelamente tra Fausto (Luca Argentero) e Claudia (Ilaria Spada) scoppia una passione irrefrenabile e animalesca, che li induce a mollare i rispettivi partner a bordo di una nave da crociera. La nave in questione è una Costa Crociere. Non è importante ai fini narrativi, ma per la dura legge del product placement il logo della compagnia di navigazione viene inquadrato ossessivamente. 
Infine, nell’episodio che è forse il meno brillante, un patito di tecnologia (Dario Bandiera) naufraga su un isola deserta senza cibo né wi-fi e si strugge in preghiere del tipo: «Aiutami o da quest’isola non me ne android». 
In questo prematuro revival, prodotto da Medusa e Wildside con il contributo della Regione Lazio, la formula torna più scollacciata che mai; la sceneggiatura autocitazionista pullula di gag che sembrano uscite da un generatore automatico di volgarità gratuite e già viste, sulle quali gli autori puntano tutto per ottenere la complicità del pubblico più nostalgico.
Secondo gli stessi autori, le mostruose maschere del cinepanettone hanno rappresentato per anni la volgarità degradante dei neoricchi rozzi e incolti sfornati dalla cultura berlusconiana, con il linguaggio scollacciato e sopra le righe della comunicazione dominante durante l’ultimo ventennio. Oggi, però, quel tessuto sociale sembra sempre più destinato a farsi da parte e lasciare il posto a un altrettanto mostruosa classe dominante, per cui, un po’ gattopardescamente, tutto va rottamato perché tutto rimanga uguale. Quei personaggi, tanto amati dal pubblico medio quanto stroncati dalla critica, oggi non possono suscitare altro che un misto di patetismo e tenerezza, come le gaffe di un Berlusconi al crepuscolo, che sbaglia comizio e si ritrova a sostenere il candidato di centrosinistra. 
Inoltre il cinepanettone non ha mai nascosto la sua natura di intrattenimento usa e getta, e quindi facilmente dimenticabile. Nei quattro anni di assenza anche il suo pubblico si è abituato ad altro, che sia la «commedia sofisticata» di cui parla Parenti – che poi di sofisticato, anche quella, ha ben poco -, o l’ascesa delle nuove star del piccolo schermo e del web. 
Per questo Vacanze ai Caraibi, oltre alle insopportabili discese abissali di uno stile vuoto e caduco, è anche un film estremamente reazionario. 
 
Angelo Santini