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Midnight Special. Berlinale 66

Venerdì 26 Febbraio 2016 10:55 Pubblicato in Recensioni
Midnight Special è la storia di un ragazzino fuori dal comune. L’estraneità del suo essere e quello che potrebbe significare fa gola ad una setta religiosa ed ai detective del governo. Nasce così un road movie, incentrato sulla fuga, che vede il padre Roy (Michael Shannon, L’uomo d’Acciao – 2013) proteggere il figlio Alton ( Jaden Lieberher, St. Vincent - 2014) e i suoi super poteri da queste incombenti minacce. Con l’aiuto dell’amico Lucas (Joel Edgerton, Warrior – 2011) e dell’ex moglie Sarah (Kirsten Dunst, Melancholia – 2011) porteranno il bambino in luoghi sicuri in attesa che qualcosa di speciale dia un senso all’intera vicenda. 
 
Il primo film non indipendente realizzato da Jeff Nichols sbarca alla Berlinale 2016 convincendo critica e pubblico. Si fa notare anche per essere l’unico lungometraggio di vero ed americano intrattenimento. Dichiaratamente ispirato ad un filone di film anni 70’ ed 80’: Starman di John Carpenter, Incontri ravvicinati del terzo tipo ed E.T. l'extra-terrestre di Steven Spielberg. A mio parere simile in molti aspetti anche al The Abyss (1989) di James Cameron, nel suo saper istintivamente incantare.
 
Midnight Special è parente stretto, nonché l’evoluzione e la maturazione, dei precedenti lavori di Nichols: Take Shelter e Mud. Racconto semplice dai toni mai esagerati. Nella coerenza narrativa il suo asso vincente. Sceneggiato dallo stesso regista, che non rinuncia proprio nel proporci un cinema misterioso, ancora una volta azzeccando pienamente l’atmosfera, nella quale lo spettatore aspetta trepidante l’evoluzione degli avvenimenti. La pellicola ha una propria integrità drammatica ed emotiva di genere.   Attraverso contaminazioni shyamalaniane, l’autore ci fornisce solo le scorze del frutto di una storia già in movimento. Insufficienti granelli di sabbia che non riescono a comporre il castello. Ci offre qualcosa in ogni sequenza per poi essere in grado di entrare nell’altra, senza mai decifrarle completamente. Indubbio talento di Nichols per la suspense. Nel suo essere indecifrabile il film ha dei piccoli punti deboli nella collocazione dei personaggi, forse troppo figlia del caso e in qualche déjà vu legati a film del passato.
 
Intrigante è l’uso di toni mitologici. Attraverso la visione idealizzata e messianica del bambino, legata sia alla religione che alle presenze aliene, l’autore evidenzia la sua propensione a credere in qualcosa che ci salvi e che ci porti beneficio. Verso una salvezza.
Il tema dell’avvicinamento e dell’attesa ricorda proprio Incontri ravvicinati del terzo tipo. Un film, improntato anche, sulla fuga dall’opprimente realtà del quotidiano e dalle sue paure. Midnight Special incontra anche una parte di E.T., non quella legata all’infanzia, ma quella dei legami.
 
Jeff Nichols, che ha trovato in Michael Shannon il suo attore feticcio, lo omaggia dandogli il nome di Roy, che fu di Richard Dreyfuss proprio negli “Incontri ravvicinati” di Spielberg. La prova dell’attore statunitense risulta credibile e resa vigorosa da quelle espressioni di cuoio, caratteristica dei suoi personaggi. Anche l’intero parco attoriale sopra menzionato non sfigura, garantendo e confermando il mood del film.
 
Consigliato agli amanti del thriller e non solo. Tra le righe troviamo amore e senso della famiglia, che d’altronde sono i capi saldi della cinematografia di Nichols, qui completamente realizzati. In più, analizzando la sua maniera di fare cinema e di riflesso la sua psicologia, possiamo affermare che il regista dell’Arkansas ha paura quando di avvicina la notte, momento dove tutte le sue paure vengono a galla. Timori reconditi dell’ignoto e del buio assoluto. Il mondo in cui viviamo non è un luogo sicuro. Deve esorcizzare queste paure e lo fa attraverso i suoi film, deliberatamente dando forza alle unioni tra gamme, tra consanguinei. Sicurezze che lo aiutano a credere in qualcosa di buono oltre il grande salto. E questo ignoto distintamente buonista se lo immagina svilupparsi in un giorno qualunque, in una speciale mezzanotte, dove quelle paure svaniscono concretizzandosi in una speranza.
 
David Siena

Lo chiamavano Jeeg Robot

Giovedì 25 Febbraio 2016 15:55 Pubblicato in Recensioni
Dopo essere sfuggito ad un inseguimento, Enzo Ceccotti (Claudio Santamaria) finisce nelle acque del Tevere e ingerisce una sostanza radioattiva che gli donerà dei superpoteri. Enzo accoglie questo dono come una benedizione per la sua carriera da delinquente ma tutto cambierà nell'incontro con Alessia (Ilenia Pastorelli) che in lui vedrà il mitico Hiroshi Shiba, l'eroe dei cartoni animati giapponesi Jeeg Robot d'acciaio. 
Questa in breve è  la storia di Lo chiamavano Jeeg Robot, il film che dopo 6 anni di ricerca budget e lavorazione, ha visto la luce per mano di Gabriele Mainetti e della sua Goon Films.
Quella dei cartoni animati e dei supereroi si può dire sia da sempre una fissa di Mainetti che già aveva affrontato le tematiche in opere precedenti e che negli anni passati si era fatto conoscere sia come attore che per i corti,  tra cui spicca “Tiger Boy” (2012) Nastro d'argento 2013.  Questo è il primo lungo del regista romano, che gli è valso il contributo ministeriale per l'Opera Prima. 
Un lavoro che sembra riuscitissimo nell'assicurare tutti i cliché più accattivanti del momento in un mix del tutto originale: la moda degli anni Ottanta, i supereroi, il glam riportato alla ribalta dei media dalla morte recentissima (nemmeno a farlo apposta) di uno dei re indiscussi David Bowie, ispiratore tra l'altro del personaggio dello Zingaro (Luca Marinelli), malvivente atipico con velleità artistiche. In uno scenario metropolitano, con derive alla Rocky Horror, si sviluppa una vicenda di droga e mala, dove abbondano le lotte tra camorra e criminalità di borgata, per una Tor Bella Monaca apocalittica, in un western postmoderno dove buoni e cattivi si mischiano senza terra di confine. Ognuno ha in sé una duplice natura: ogni personaggio spinto dalla voglia di arrivare o solo dal desiderio di sopravvivenza, dall'essere famosi o sparire tra le crepe di una stanza, dalla brama di una meta ambita sbiadita o patinata, stridente in forti contrasti antitetici. Nessuna lacuna in questo film perfettamente ordinato nella sua lucida follia, dalla valida sceneggiatura di Nicola Guaglianone e Menotti. Era da tempo immemore che il cinema italiano non partoriva un prodotto così ben fatto, una vera boccata d'aria per un settore che stava emettendo gli ultimi rantoli, da cui Mainetti è riuscito ad emergere creando il suo giovane Frankenstein.  
Si libera così, in un colpo solo, di tutto il vecchiume di un'arte rimasta tale ormai nel ricordo,  giogo della spocchia a colpi di machete di chi ci ha fatto due palle, trovando unica giustificazione alla banalità il nascondersi dietro l'appellativo di “autore”. Questo invece non è un film d'autore, non lo vuole essere o forse sotto sotto sì, ma in fondo chi se ne frega perché qualsiasi sia l'intento, che comunque sembra dalle dichiarazioni del regista abbastanza giocoso, è il risultato che conta. 
Oltre che sulla destrezza di Mainetti, va spezzata certamente una lancia a favore degli interpreti, tutti azzeccati e abili, anche nei ruoli minori. Marinelli ha messo a segno negli ultimi mesi due film meravigliosi, con il precedente “Non Essere Cattivo”, opera postuma di Claudio Caligari, due sole interpretazioni che bastano a far pensare che sia nato un nuovo mostro. Due ruoli molto distanti ma al contempo simili tra loro, dichiarando di  essersi ispirato per lo Zingaro ad Hannibal Lecter, del resto si parla sempre di mostro che emerge, qui “sparato a cannone” come le sue canzoni con tutti gli sgargianti toni del glam pop, cimentandosi oltre che in una strepitosa interpretazione di Un'emozione da poco, rifatta sull'impronta di una sedicenne Anna Oxa (a Sanremo 78' dove riviveva uno Ziggy Stardust nostrano), con Nada, la Bertè e la Nannini. Anche Santamaria ritrova la sua forma smagliante, proponendosi come uno degli ultimi relegato ai margini, un depresso cronico solo e asociale che si ciba di budini e film porno e che, nonostante i 20 chili in più, da orso buono nichilista e ladruncolo di periferia subirà un'evoluzione personale. Si potrebbe continuare ancora per molto con tutti gli spunti di valutazione che offre un simile lavoro, ma è meglio non indugiare oltre rimandando alla visione al cinema, azzittendoci sui titoli di testa. In questo caso, l'unica cosa sensata da fare. 
 
 
Chiara Nucera

Zootropolis

Mercoledì 24 Febbraio 2016 09:39 Pubblicato in Recensioni
Criminalità organizzata, intrighi di potere, sostanze stupefacenti, no non state leggendo la recensione di una nuova serie di Breaking Bad, questi sono solo una parte dei pericoli che dovrà affrontare la coniglietta poliziotto Judy Hopps protagonista di Zootropolis, il nuovo film d’animazione digitale di casa Disney. In un mondo ideale, popolato da soli animali (antropomorfi), dove carnivori ed erbivori vivono in armonia e i diritti sono uguali per tutti, Judy sfida le convenzioni e, nonostante sia la prima della sua specie, coltiva il suo sogno di diventare una garante della legge partendo dalla campagna sogna Zootropoils, la capitale dove tutto è possibile. Giunta finalmente nella metropoli Il suo carattere e il suo sudato distintivo sembrano non compensare le sue dimensioni ridotte: i suoi colleghi sono grandi e grossi, il suo capo, il capitano Bogo, è un bisbetico Bufalo che le affida la mansione di ausiliario del traffico, la sua vita sembra meno eccitante di quello che si auspicava fino all’incontro con la volpe scapestrata Nick Wilde (secondo gli antichi pregiudizi di suo padre, il suo “nemico naturale”), il “Robin Hood” che le sconvolgerà la vita. La trama si infittisce: sparizioni, misteri, mafia, casi irrisolti sotto trame ben studiate degne di un adulto poliziesco (strizza l’occhio a “48 Ore” e molti altri film di genere) a misura di bambino. I registi Byron Howard, Rich Moore e Jared Bush (dietro alla regia rispettivamente di “Rapunzel”, “Ralph Spaccatutto” e “Big Hero 6”) sfruttano con intelligenza i temi più attuali di sempre. La favola spiega con delicatezza come nascono i pregiudizi, come la discriminazione e la strumentalizzazione dei media possano minacciare l’utopia di una società ideale (Zootopia è il titolo originale della pellicola) e fa capire l’importanza di permettere gli stessi diritti a tutti. Gli autori hanno visibilmente studiato ogni dettaglio. Ogni animale metafora del mondo umano trova il suo posto nella gerarchia sociale, il leone è sindaco, i criceti sono ordinatissimi impiegati, i topi fanno i muratori, le gazelle le pop star e così via… Vi lascio immaginare a quale specie sia stata affidata la burocrazia all’interno degli sportelli della motorizzazione. Esilarante. La città è una sapiente fusione di monumenti di tutto il mondo (ci hanno svelato i registi in visita a Roma per la promozione del film). Se in “Big Hero 6”, la città di San Fransokyo era una commistione facile da riconoscere, a Zootropolis ci sono monumenti che ricordano Parigi, Firenze, Tokyo, Shangai, New York, il Bronx e una miriade di altre combinazioni da scoprire. La colonna sonora di Michael Giacchino è un mix di pop culture che prende in prestito note da Elvis Presley e arriva alla collaborazione con Shakira che è già in classifica con Try Everything. Un thriller alla portata di tutti forse il primo che molti bambini vedranno, condito di amicizie improbabili e valori sociali, raro nella sua categoria. 
 
Francesca Tulli

Fuocoammare

Lunedì 22 Febbraio 2016 13:31 Pubblicato in Recensioni

Dopo un anno e mezzo di riprese e documentazioni sul luogo nasce Fuocoammare, scaturito proprio “dall'esigenza di fare da eco alla tragedia dei profughi di Lampedusa”,  quello che secondo Gianfranco Rosi, recentissimo Orso d'Oro a Berlino proprio per questo lavoro, “è un film politico a prescindere” in quanto tale materia è la sostanza di cui si nutre e dalla quale prende le mosse l'esigenza alla base del film.

Sembrerebbe un'ottima frase di lancio se poi tutto non riconducesse ad un film asettico diviso nettamente in due parti, inframezzate dai racconti di un medico responsabile dei soccorsi, che si occupa con grande umanità di tutti i casi che l'isola accoglie.
Un senso critico nasce spontaneo, quello che ci fa chiedere cos'è la politica e qual è davvero la funzione di un film documentario e, forse, esperti del settore fomentati a parte, è anche ciò che diversi spettatori si sono chiesti vedendo questo lavoro.
Fin da quasi subito si avverte preponderante il senso di un'urgenza narrativa vuota, che non viene esplicitata nella gravità degli accadimenti, per un film che non entra nel merito della vicenda che sceglie di raccontare, o meglio ne tratta una parte che potrebbe tranquillamente essere considerata marginale. Ci si chiede qual è il doveroso confine tra realtà e finzione, come in passato mi accadde davanti alla visione di Sacro GRA, opera precedente del regista che gli valse il Leone d'oro nel 2013 alla Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia. 
Davanti ai lavori di Rosi, mi approccio con un certo sconcerto, sentendomi privata di qualcosa, come se il diritto di vedere e sapere mi sia stato negato,  rimpiazzandolo con una farsa ben architettata, questo quello che ho provato davanti al Leone d'Oro, questo quello che ho riprovato davanti a Fuocoammare. Perché c'è la necessità di fare un lavoro così poco coraggioso? Probabilmente perché mantenendo i piedi entro un certo confine, che sia per tutti inequivocabilmente politically correct, non c'è il rischio di non compiacere la grande massa di spettatori e la grande massa di addetti ai lavori che sposano un certo tipo di cinematografia che poco osa, mai sull'orlo, che nulla dice e che nulla toglie, ma che concettualmente impoverisce negandoci il diritto di sapere. Rosi sembra osare poco, anzi per nulla, indugiando su elementi totalmente spettacolarizzanti, come una lacrima di sangue che solca il viso di un disgraziato vivo per miracolo dopo la traversata, un tempo troppo lungo, per poi negarci completamente ciò che sarebbe lecito sapere, mostrandoci i morti ammassati nella stiva di una carretta del mare solo per la lungimiranza di uno dei soccorritori che spiega al Maestro quanto sia importante vedere ciò che realmente accade, l'impatto dirompente di un avvenimento storico di portata mondiale e che ci tocca così da vicino. Rosi ci priva e si dilunga su tutta una parte fondamentalmente inutile e appesantita di racconti infarciti della noia di un'isola dove non accade niente, dove si vive di mare e attraverso i profughi che quello stesso mare a volte restituisce alla terra, altre inghiotte. Non vi è nemmeno l'elemento di forte contrasto tra piani narrativi, dato da una vita routinaria e tranquilla e la disperazione di chi giunge sulle nostre coste, perché c'è sempre un filtro patinato, l'occhio del regista che tutto mitiga e tutto alleggerisce, sospendendo nel tempo e nello spazio tutto ciò che ci scorre davanti.
Rosi mette in bocca ai protagonisti frasi, suggerisce scene, fa spiegare in camera, da quello che dovrebbe essere uno dei mentori della vicenda, quanto sia terribile ciò che accade, filtrando il  tutto e non avvicinandosi mai abbastanza alla tragedia e alla vita sottratta a causa di sordide politiche internazionali, di leggi oscene, di guerre scellerate, di paesi resi schiavi, cosa che invece qualche anno prima aveva fatto, molto meglio e molto più esplicitamente, “Mare Chiuso” (2012) di Stefano Liberti e Andrea Segre, affidando la narrazione per brevi tratti ad immagini potenti come un pugno nello stomaco, quelle dei telefonini degli stessi naufraghi sui barconi. Il non osare diventa una mancanza di onestà intellettuale per un mondo che, come l'occhio pigro del suo protagonista lampedusano, si rifiuta di vedere. Quell'occhio pigro coincide con lo sguardo del regista. E ora che la tragedia è stata massmedializzata, vincendo pure un premio internazionale, infarcita di curate immagini atte solo a rievocarla, quasi da farla sembrare irreale, stiamo tutti molto meglio? Probabilmente questo film mette in pace gli animi, come fece un po' Bertolucci con The Dreamers raccontandoci che tre ragazzotti che giocavano alla politica erano il 68' francese, magari lui lo fece con un po' più di disincanto e soprattutto si trattava di una storia di finzione, ma un documentario dovrebbe assumersi anche il dovere di cronaca, perché il cinema non è solo un bel gioco ma, in alcune occasioni, dovrebbe essere impegno civile. 
 
Chiara Nucera
 
 
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Fuocoammare, unico film italiano in concorso al Festival di Berlino 2016, è nientemeno che un documentario sulla problematica e scomoda situazione che vive giornalmente l’isola di Lampedusa nel Mar Mediterraneo. Migliaia di profughi cercano la salvezza, rifugiandosi su questa piccola isola. A bordo di improbabili navi o traghetti, famiglie in fuga dal proprio paese di origine spendono cifre assurde per cercare di sfuggire a morte certa, ignare del fatto, che una probabile e mascherata dipartita è proprio lì davanti a loro. Meraviglioso e lucente mare, che ha la doppia valenza di portatore di vita e di tragedia. Blu profondo, luogo nefasto e tomba di speranzosi esseri umani alla mercé dei mercanti di uomini. 
 
Di tutto questo, Gianfranco Rosi ha deciso di farne un documentario. Accolto con il favore della critica della Berlinale, è stato decretato il vincitore di questa sessantaseiesima edizione. Di contro, a mio parere, il risultato dell’opera filmica è riuscito solo in parte. A differenza del premiato Sacro GRA (Leone d’oro a Venezia nel 2013), dove l’umanità nell’analizzare la vita delle persone ai margini era palpabile e creava vere emozioni, in Fuocoammare questo non è presente. Porta l’occhio dello spettatore su quello che non conta. Lo obbliga a focalizzarsi su immagini che non creano una vera empatia, ma ti costringono ad assistere ad un dolore vissuto solo in superficie e non nelle viscere.
 
Rosi ha curato anche la sceneggiatura e la fotografia di questo singolo, ma globale dramma. Quello che vediamo sullo schermo è la testimonianza di una sciagura accaduta a 20 miglia dalla costa Libica e il normale ritmo della vita di ogni giorno di una famiglia di lampedusani. Occhio puntato su un ragazzino (Samuele Pucillo, che interpreta se stesso), che comincia l’avventura della sua vita immerso in un mondo incontaminato e lucente. Impara i primi armamenti del pescatore, che sarà il mestiere che farà da grande, senza non poche difficoltà legate alla sua giovane età. 
I bambini, in questo paradiso, giocano e guardano al mondo senza pensare a quelle acque, che hanno davanti tutti i giorni, come ad un luogo di morte. Ci sparano contro con dei simbolici movimenti delle braccia senza sapere che c’è un filo diretto, che unisce quei giocosi spari e il fuoco che scaturisce in alto mare.
Samuele oltretutto ha un occhio pigro. Metafora perfetta, che ci porta a pensare al nostro modo di vedere la situazione di Lampedusa.
 
Parallela alla vita di Samuele troviamo quella della comunità, che prende il suo completo giovamento dal mare. Ci si aspetta tutto da quelle acque. Ci si immerge e si lascia che la vita marina venga all’uomo, senza quasi costringerla a farlo. In antitesi con quello che per i profughi significa e procura: un sudore tannico di corpi aggrovigliati su di una bagnarola decadente prossima alla caduta. Questi due mondi non sono pressoché mai a contatto, lì separa una voragine che porta il disequilibrio in quest’opera. Vi è estenuate massimizzazione nel dividere vita e morte, che sono le due facce opposte della stessa moneta. Non possono essere scisse. I mondi appena descritti sembrano far parte di due universi lontani lontani. L’unione è obbligatoria e fondamentale e qui latita. Solo nella figura del Dottor Pietro Bartolo, il medico che soccorre i profughi disidratati, ustionati e quasi morti, troviamo i veri momenti significativi di Fuocoammare, vera soggettiva e punto di unione tra gli isolani e i profughi. 
 
Fuocoammare, che è politico a prescindere e dove non ci sembra il caso di addentrarci, ha comunque il pregio di mostrarci la realtà complessa che vive l’isola di Lampedusa. Le immagini sono ben curate attraverso una fotografia sempre oscura e filtrante nei momenti che contano. 
Una scena che mi pone una domanda frequente nella mia mente è questa: il ricucire o il rammendare i corpi e le menti è veramente così semplice come riesce ai due ragazzotti quando giocano a fare la guerra ai dei malcapitati fichi d’India? Perché distruggiamo per poi metterci una pezza? E’ l’assurdo gioco che porta una sopravvivenza sterile ai sopravvissuti e anche ai noi, che proprio non mi dà pace.
 
David Siena