Fuoritraccia

Newsletter

Messaggio
  • EU e-Privacy Directive

    This website uses cookies to manage authentication, navigation, and other functions. By using our website, you agree that we can place these types of cookies on your device.

    View e-Privacy Directive Documents

Home » Recensioni » Visualizza articoli per tag: virna castiglioni
A+ R A-
Visualizza articoli per tag: virna castiglioni

Grand Tour

Venerdì 29 Novembre 2024 15:58
Un film ostico, respingente, ruvido, frammentato e frammentario che impone uno sforzo costante e prolungato da parte dello spettatore che cerca di trovare il bandolo della matassa e alla fine, sconfitto, desiste rassegnato a seguire il flusso delle immagini perché non c’è una storia predominante o forse ce ne sono troppe che si sovrappongono creando solo confusione. Nella prima parte seguiamo il viaggio avventuroso del funzionario britannico Edward Abbot che cerca di far perdere le sue tracce cercando di beffare il destino non contraendo il matrimonio con la sua fidanzata Molly dopo sette anni di conoscenza. Il suo viaggio di fuga parte dalla Birmania, si sposta a Saigon, tocca Manila, Osaka, Shangai e il Tibet. Lo stesso itinerario è ripercorso dal regista che racconta il suo personale reportage di viaggio. Infine c’è il viaggio di Molly alla ricerca del fidanzato fuggiasco. In tutto questo partire, inseguire, fermarsi e poi rimettersi in viaggio nuovamente compare una nutrita serie di personaggi assurdi, eccentrici, improbabili che fanno sorridere ma confondono ancora di più. Lo spettatore non è mai certo di cosa sta realmente osservando, non ha contezza di quale messaggio il regista voglia veicolare. E’ rapito da un delirio onirico, scruta, si interroga ma non sa collocare con esattezza ciò che vede.
Gli scenari sono reali o ricostruiti, in parte vissuti o solo immaginati? La storia è vera, verosimile o palesemente inventata?
 
Sono domande che interpellano lo spettatore per tutta la durata lunghissima ed eccessiva del film che si fa fatica anche a catalogare come genere di appartenenza.
 
Un tentativo di creare un’opera sui generis, particolare, originale ma che non può abbracciare chiunque mantenendosi appannaggio di pochi eletti che hanno del cinema una conoscenza approfondita e possono ritrovare in tanta materia appigli per ricostruire un racconto che ai più rimane sconclusionato e arrangiato, senza capo né coda, con un stile riconoscibile, autentico ma esageratamente e volutamente elitario che lascia sulla soglia, attoniti, la stragrande maggioranza delle persone.
 
Virna Castiglioni
 

La nostra terra

Venerdì 29 Novembre 2024 16:02
Ambientato in un villaggio rurale della Polonia nell’800 il film ruota intorno alla figura bella e ingenua di Jagna, una giovane contadina povera. Ormai in età da marito viene spinta tra le braccia del ricco possidente terriero del Paese, vedovo e anziano, ma in grado con le sue tenute di garantire prosperità e benessere. Succube del volere dell’anziana madre con cui vive e incapace di imporsi o ribellarsi per poter vivere il suo vero sogno d’amore acconsente ad andare in sposa al vecchio Bolyna, anche se contro voglia.  Da sempre innamorata del figlio di quest’ultimo cercherà di vivere i suoi veri sentimenti nonostante il vincolo contratto per dovere ma sopprattutto sfidando le leggi non scritte della comunità chiusa e ristretta dove vive. Quello che colpisce del film è la tecnica visiva utilizzata per la sua realizzazione. I coniugi Welchman avevano già sperimentato con successo questa tecnica di animazione anni fa con la pellicola "Loving Vincent" incentrata sulla figura del genio della pittura impressionista Vincent Van Gogh. Come fosse un dipinto, come se la storia venisse raccontata per quadri pittorici, lo spettatore è ammaliato dalla vividezza delle pennellate e assiste alla narrazione al pari di un visitatore in una pinacoteca dove sfilano quadri che si susseguono con continuità in un crescendo di emozioni.
 
La trama è molto elementare e anche poco avvincente e scompare totalmente dietro ai disegni. Siamo rapiti dai colori, dalle pennellate, dai movimenti fluidi che generano altre rappresentazioni pittoriche di grande effetto. Il racconto è scarno e molto elementare, quasi una novella verghiana dove si riflette sull’importanza dei sentimenti, sull’appartenere ad una determinata classe sociale ma soprattutto si concentra sulla terra e sul valore che ha in termini di prestigio, potere e attaccamento. L’intreccio dei vari personaggi è tutto in funzione della terra che si fa desiderio, si tramuta in obiettivo, diventa condanna, si trasforma in trappola e ossessione. 
 
Il film è l’adattamento del libro "I contadini" di Wladyslaw Reymont, vincitore del premio Nobel per la letteratura in Polonia ed è la base su cui lavora con grande perizia dopo il primo esperimento il rotoscopio utilizzato dalla coppia di registi. 
 
Virna Castiglioni
 

La stanza accanto

Venerdì 29 Novembre 2024 16:06
Almodovar per il suo nuovo progetto sceglie due attrici di immensa bravura e le pone al centro di un dramma privato che accomuna l’intero genere umano. Affrontare la morte di chi amiamo e prepararci a vivere la nostra che ad un certo punto arriverà ad interrompere la festa è uno dei compiti più difficili e per i quali abbiamo ancora pochi strumenti.
 
Martha è una malata oncologica terminale e Ingrid è un’amica ritrovata proprio in questa ultima fase di vita dopo che il lavoro e le rispettive carriere di giornalista di guerra e di scrittrice le hanno assorbite completamente finendo per allontanarle. Martha non è sola, ha una figlia ma per sua stessa ammissione, è stata una madre assente e non se la sente di chiedere quello che invece cerca di ottenere dalla sua cerchia ristretta di amicizie femminili. Ha comprato nel dark web una pillola illegale che può procurarle una dolce morte ed è intenzionata ad usarla quando sentirà di essersi stancata troppo e vorrà abbandonare il ballo della vita anzitempo. Ingrid che è stata per tanto tempo lontana sembra essere la scelta migliore dopo che le altre amiche hanno categoricamente rifiutato di diventare complici di quel piano criminale.
 
Senza giudizio ma anche senza appoggiare in toto la scelta dell’amica. Semplicemente assecondando il desiderio legittimo di una persona a cui si vuole bene, Ingrid decide di prendere posto in quella stanza accanto per poter essere presente nel momento del trapasso esaudendo il desiderio dell’amica di potersene andare da sola ma con qualcuno di amico vicino.
Il film ha un impianto rigoroso, risulta asciutto ed essenziale. La regia cerca costantemente di togliere il superfluo lasciando i fatti scarni delegando tutto all’intensità delle due splendide attrici che compongono un affresco di vita normale e straordinario nel medesimo tempo.
Se Martha ha il volto altero e spigoloso di una Tilda Swinton in stato di grazia che interpreta una donna coraggiosa, lucida, determinata, razionale, Julianne Moore incarna invece la dolcezza, la comprensione, la leggerezza e il rispetto dovuto nei confronti di scelte che non si possono capire mai fino in fondo e che, pertanto, non possono essere tacciate di essere sbagliate aprioristicamente ma soprattutto essere demonizzate e osteggiate in forza di principi che non valgono per tutti allo stesso modo. Il tema dell’eutanasia così caldo e spinoso è affrontato in questo film senza trascinarsi dietro quel velo pesante di cupezza e terrore.
 
Si può dare appuntamento alla morte anche indossando il vestito migliore, del colore più sgargiante, mettersi il belletto sul viso e attendere che la neve scenda a cancellare quello che è stato ma anche ad abbellire tutto ciò che ricopre.
 
Come nel quadro di Hopper (People in the sun) che fa bella mostra di sé in quella casa affittata appositamente per mettere in atto quel piano finale si è vivi ma in perenne attesa. La morte ci prende la mano appena nasciamo, rimane ombra discreta e silente ma ad un certo punto si fa presenza insistente, invadente, prepotente e non si può, a lungo, declinare il suo invito a seguirla.
 
Il lungometraggio è tratto dal testo letterario “Attraverso la vita” dell’autrice Sigrid Nunez. Presentato all’ultimo Festival del cinema di Venezia ha, meritatamente, conquistato la statuetta più ambita confermando Almodovar un cineasta sensibile, attento ai temi attuali e di grandi qualità artistiche.
 
Virna Castiglioni
 

The Beast

Giovedì 21 Novembre 2024 16:14

In un futuro prossimo che si avvicina a grandi falcate, già ora preannunciando quale sarà la sua cifra, completamente comandato dall'intelligenza artificiale che avrà spodestato il lato umano e, rinchiuso per debellarlo, il substrato emotivo. Gabrielle Monnier che ha il volto eterno ed etereo di una splendida Lea Seydoux è la protagonista di una storia futuristica ma non troppo distante dai giorni nostri. Ambientata in un ipotetico 2044 lei è una giovane donna intenta a sottoporsi ad un trattamento che avrà l' obiettivo di purificarle il DNA ma facendolo la priverà di tutte le emozioni provate e vissute.

Bonello prende spunto dalla novella di Henry James "The Beast in the jungle" e ne ricava un film coraggioso e complesso.
In quest' opera mescola vari generi e confeziona per il suo pubblico un caleidoscopio cangiante, predispone un racconto multiforme, straniante e distopico dove niente è mai come sembra in un gioco affascinante di specchi deformanti che stordisce e inebria.
Un'ossessivo e anche un po' inquietante passaggio tra epoche diverse con date storiche che sono diventate celebri per accadimenti particolari come l' alluvione che travolse Parigi nel 1910 o il terremoto in America del 2014. Un film che non segue mai un percorso logico e non è mai lineare. Non c'è mai un prima a cui fa seguito un dopo, un antefatto che precede una determinata azione, una causa che determina un sicuro effetto ma è un' altalena che va avanti e poi torna indietro, dal futuro si ritorna al passato in un girotondo di dimensioni parallele ma sempre comunicanti. Lo spettatore cercherà, forse, all'inizio di trovare una chiave di lettura, un passepartout che apra tutte le porte, un fil rouge che colleghi i capitoli ma nel breve spazio di qualche scena sarà costretto a rassegnarsi a seguire il flusso delle immagini facendosi trasportare dalla corrente perché avrà capito che cercare di opporre resistenza e cercare un senso sarebbe soltanto fatica sprecata.
Il senso, sembra volerci dire Bonello, è stato ampiamente smarrito o messo deliberatamente in stand-by se acriticamente stiamo andando verso una società fatta e promossa dall'intelligenza artificiale rassegnandoci ad un mondo dove conta solo la performance, il risultato finale ma non può e non deve esserci spazio per la benché minima emozione che rischi di inficiare il disegno e possa fare deragliare il progetto iniziale.
Uomini e donne destinati a diventare sempre più esseri perfetti ma senz'anima come bambole senza espressione o al limite con espressione neutra, buona per tutti e adattabile a tutti i tempi.
Un film sicuramente intrigante nell'impianto che richiede la massima attenzione da parte dello spettatore, che non è facile da seguire ma regala spunti di riflessione e, con originalità e cura al dettaglio, affronta un tema molto caldo e sempre più dibattuto.

Virna Castiglioni

Le Deluge

Giovedì 21 Novembre 2024 16:18
Jodice in questo secondo lungometraggio sceglie di raccontare un momento inesplorato dalla cinematografia. I film sullo stesso argomento che lo hanno preceduto hanno prediletto vicende riguardanti la nascita, la gloria ma mai fin’ora la parte più oscura e infelice della vicenda terrena degli ultimi regnanti di Francia. In "Deluge" il cui titolo mutua la celeberrima frase pronunciata da Luigi XV (dopo di me sarà il diluvio) si accompagnano Luigi Capeto (Luigi XVI) e la consorte Maria Antonietta D'Asburgo-Lorena alle soglie del patibolo che reciderà le loro teste ponendo fine all’ancien regime e spalancando le porte alla Repubblica Francese. Un film intenso che si ammanta di silenzio e si circonda di buio per raccontare la fine di un sogno, di un ideale, di un’epoca, di un destino. I regnanti francesi catturati mentre cercavano la fuga dopo i primi moti rivoluzionari e condotti in prigionia presso il castello Tour de Temple in attesa del processo. Quello che poteva essere solo una parentesi, un momento di stasi divenne invece il preludio della fine. Il film si avvale di un apparato tecnico di eccellente bravura. La fotografia intensa di Daniele Ciprì, i costumi accurati di Massimo Cantini Parrini, le acconciature aderenti alla realtà del tempo di Aldo Signoretti, così come il trucco affidato ad Alessandra Vita e Valentina Visintine, e le musiche affidate al raffinato compositore Fabio Massimo Capogrosso completano un quadro di sofisticata bellezza e armonia. Gli interpreti principali sono perfetti nel mostrare sui propri corpi il passaggio della tempesta in corso. Si abbruttiscono, si deformano, diventano sciatti e volgari come lo stesso volgo dal quale si tenevano a debita distanza come se non fosse responsabilità loro quello che stava avvenendo in silenzio da troppo tempo. Nelle prigioni del castello si fanno sorci che ingurgitano il cibo con le mani scoprendo anzi che possono fare a meno delle posate perché il cibo in questo modo diventa più buono. In un crescendo di climax drammatico si spogliano di tutte le comodità fino a rimanere nudi come vermi di fronte a Dio che li giudicherà per mano violenta degli uomini ribelli ad un destino impostogli per inettitudine e cupidigia senza ripensamenti e cedimenti.
 
 
Nemmeno la bellezza algida ed eterea di Maria Antonietta, l'austriaca, può servire per migliorare o alleviare per un breve tratto le loro pene e quelle dei loro due figli. Il corpo ancora giovane e statuario non riesce neppure ad essere moneta di scambio per ottenere un beneficio come tante volte è stato in passato. E’ semplicemente merce avariata che si svende in cambio di promesse che non verranno mantenute. Un film cupo, lugubre, che mostra il male facendolo sentire attraverso le privazioni e le umiliazioni che si infliggono a coloro che sono stati capaci di ballare quando il loro popolo soffriva, di mangiare prelibatezze quando il loro popolo moriva di fame. Gli ultimi reali francesi incapaci di vedere oltre i loro immensi giardini, egoisti, interessati solo alla propria felicità senza intuire il dolore che aleggiava loro intorno.
 
Ambientato quasi interamente all’interno, in spazi angusti che si fanno via via asfittici, "Deluge" mostra rari momenti in esterna. Gli spazi aperti quando ci sono sono il preludio e il commiato alla tragedia che si sta mettendo in atto. L’arrivo sotto il sole li svela prigionieri anche se loro continuano a sentirsi regnanti mentre il temporale sarà un lavaggio metaforico della sporcizia accumulata e messa per troppo tempo a proliferare sotto tappeti e dietro arazzi.  
 
Un film che con coraggio non fa sconti scegliendo di mostrare il lato più vile e sporco di personaggi che hanno cambiato, loro malgrado, la Storia di un Paese.  "Deluge" restituisce un ritratto spietato e crudele di una coppia convinta di essere predestinata e scelta direttamente da Dio per quel compito e di poterlo fare contro tutto e tutti senza subirne mai le inevitabili conseguenze.
 
Virna Castiglioni
 

L'amore secondo Kafka

Giovedì 31 Ottobre 2024 16:25

Chi si aspetta un racconto che esplori e approfondisca l'arte sublime di trovare parole per comporre racconti e romanzi ne rimarrà deluso.

Il film non si concentra su Kafka scrittore raffinato e prolifico ma punta tutta l'attenzione sull'uomo privato e sul suo desiderio bruciante di amore. Uomo fragile minato nel fisico da una malattia ancora incurabile per il tempo e protetto in modo soffocante da una famiglia d'origine rigorosa e severa.  L'incontro con la giovane ebrea Dora Diamant, libera e sognatrice, lo trasporterà alle soglie della felicità senza purtroppo avere la fortuna e il tempo di vivere con lei un nuovo inizio. La loro storia d'amore nasce e si consuma nel breve spazio di tempo di un anno che sarà anche l'ultimo terreno per Kafka. Lo scrittore è già malato in una fase terminale e lei sarà il vero unico raggio di sole prima dell'oscurità eterna. Un film che affronta l'incontro, lo sviluppo della passione, l'amore forte e sfidante scegliendo sempre toni pacati e delicati. Non ci sono mai tinte forti, mai contrasti accesi nei confronti di chi ostacola la loro unione ma è tutto vissuto e raccontato come se fosse naturale, quasi normale, come se non ci potessero essere alternative a vivere questo sogno d'amore se non senza eccessi e sempre con un pizzico di rassegnazione.

Questo modo di esporre i fatti sconta il fio di rendere tutto un pò piatto, troppo poco vivido e appassionato.

Si assiste alla nascita e al consolidamento di un sentimento puro, senza calcoli, senza però che vi sia anche quel trasporto e quell'ardore che sono la cifra intrinsecamente connaturata in tutte le laisons sentimentali. Il film si avvale di un'interpretazione perfetta di due attori che dal punto di vista tecnico sono impeccabili. La loro recitazione misurata non lascia trasparire fino in fondo il trasporto, lo struggimento e l'afflato che tutto permea ma si mantiene costantemente tiepida. Un racconto che si fa poesia in immagini avvalendosi di una fotografia struggente e romantica e di una colonna sonora che sottolinea con cura e precisione i momenti più intimi, dolorosi e drammatici di una coppia unita nella vita breve di un destino avverso che non risparmia chi prova un sincero desiderio di affetto.

Solo a latere compaiono rimandi ai celeberrimi romanzi che sono pervenuti fino a noi grazie all'amico fraterno Max Brodi che scelse di non seguire quello che aveva stabilito l'amico prima di morire, distruggendoli per sempre, ma ha permesso che i suoi pensieri e le sue opere fossero non solo risparmiate ma tramandate fino a diventare celeberrime fino ai giorni attuali. 

Virna Castiglioni

Occupied City

Venerdì 25 Ottobre 2024 17:02
"Occupied City" è un film documentario del 2023 diretto e prodotto da Steve McQueen e basato sul romanzo "Atlas of an Occupied City Amsterdam 1940-1945 di Bianca Stitger, moglie del regista.
 
Il documentario è un racconto per immagini dell'evoluzione di una città che ha subito durante la seconda guerra mondiale un duro assedio da parte delle truppe tedesche alla ricerca del nemico ebreo da cancellare dalla faccia della terra con tutti i mezzi possibili.
 
Spietati, crudeli, insensibili a tutto pur di affermare il loro dominio sui territori occupati con sprezzo della vita. Mentre sfilano immagini che mostrano Amsterdam dei giorni nostri che la fotografano cosmopolita, avanzata, miscellanea di stili e culture diverse la voce narrante femminile fuori campo, affidata a Melanie Hyams, sciorina una lunghissima catena di soprusi e ingiustizie prepreparate dai tedeschi durante la loro occupazione ai danni delle minoranze etniche colpevoli di non appartenere alla razza ariana, l'unica degna di esistere.
 
La rappresaglia nei confronti del popolo ebraico si fa sempre più cruenta e non contempla rispetto e riguardo nemmeno in presenza di artisti, musicisti, intellettuali. Il continuo parallelismo fra passato e futuro è molto impattante. Dove prevale la vita si ricorda che nello stesso edificio, nella stessa via, negli stessi luoghi si perpetrava scientemente morte e distruzione. 
 
I rastrellamenti messi in atto nei confronti degli ebrei sono posti a confronto, senza mai essere assimilati, con gli sgomberi e le proteste di piazza che si svolgono durante la gestione della pandemia Sars Cov, i nascondigli durante la guerra con il coprifuoco imposto per ragioni sanitarie durante la pandemia appena passata. C’è un continuo rimando fra un tempo remoto morto e sepolto ma che come un fuoco fatuo potrebbe tornare a soffiare dove c'è vita. 
 
Unica nota calante dell'intero film è sicuramente la lunghezza del minutaggio che supera le quattro ore e si fa ripetitivo e ridondante. L'urgenza del regista sembra essere quella di non tralasciare nessun luogo in una ricerca archivistica accurata e meticolosa. Lo spettatore, d'altro canto, avrebbe potuto accontentarsi di una cernita che fosse la sintesi dell'immenso danno compiuto durante la guerra senza per questo ricevere l'impressione di un racconto superficiale o incompleto. 
 
Virna Castiglioni

National Gallery 200

Domenica 20 Ottobre 2024 17:10
Per celebrare i duecento anni dalla fondazione della National Gallery (1824) esce questo interessante documentario che racconta dalla viva voce di coloro che hanno vissuto e continuano a frequentare i suoi spazi cosa significhi avere a disposizione una galleria gratuita che permette di usufruire di un patrimonio artistico di inestimabile valore e di apicale bellezza.
 
L’arte non è un privilegio di pochi e parla un linguaggio universale che è in grado di essere compreso da chiunque si metta in ascolto e sia predisposto ad accogliere il bello che è insito in opere che rivelano la loro forza e il loro fascino a ogni generazione che si sussegue in un percorso che si snoda fra genitori e figli, nonni e nipoti e ha il grande potere di lenire le sofferenze, di rassicurare, di infondere stupore e procurare gioia e serenità.
 
Ognuno entra in contatto con l’arte in modo personale e dialoga con essa in modo intimo e profondo.
 
Dall’addetto alla sicurezza, dalla direttrice marketing, dalla guida museale, dalla principessa Eugenia di York al semplice uomo comune che sente l’esigenza di contemplare qualcosa di unico originale e di estremamente ricco e suggestivo.
 
La National Gallery londinese è un tempio sacro che si fa per tutti luogo di incontro e di ristoro dalle proprie pene terrene, uno spazio di calma e di meditazione, di raccoglimento e di profonda commozione. Non bisogna essere esperti e saper disquisire di arte in maniera tecnica, il quadro ha un linguaggio semplice e diretto e colpisce lo spettatore al cuore e alla mente instaurando  con lui un dialogo d’elezione.
 
Il documentario assurge lo spettatore a protagonista assoluto e ne fa il perno sul quale gira tutto il racconto, il visitatore del museo è colui che permette all'opera d'arte di vivere, di sfidare le insidie del tempo, di raccontare sempre qualcosa di attuale e proprio per questo di riuscire a rimanere eterna. 
 
 
Virna Castiglioni
 

Trifole. Le radici dimenticate

Giovedì 17 Ottobre 2024 17:14
Trifole ci parla di due generazioni apparentemente distanti che non hanno molto in comune invece la vita di chi inizia ad affacciarsi al mondo e a coglierne le innumerevoli opportunità ma a fare i conti anche con gli annessi inevitabili pericoli può essere molto simile a quella di colui che è arrivato alla fine della sua esistenza terrena e si imbatte in una fase di smarrimento che è il lascito di malattie degenerative subdole e vigliacche contro le quali abbiamo ancora armi spuntate e inefficaci.
 
Se però per un giovane perdersi è solo un momento che presuppone fermarsi per abbandonare il vicolo cieco imboccato per errore ma potersi mettere nuovamente alla ricerca per ritrovare la retta via per un anziano invece smarrirsi significa intraprendere un percorso che non ha alternative ma ha solo bisogno di tutto l’affetto e l’amore possibili per poterlo affrontare nel migliore dei modi, senza inutili sofferenze.
 
In trifole Igor è un nonno solo e Dalia è la nipote che arriva in suo aiuto, mandata dalla madre sia per tenere sotto controllo il padre ma anche per allontanarla da un ambiente che non la vede felice.
 
Igor è interpretato da un bravissimo Umberto Orsini che presta a questa storia delicata tutta la sua esperienza di attore teatrale navigato. Ci regala un personaggio carismatico, autorevole ma anche infinitamente dolce. Riversa la sua tenerezza sia sulla nipote Dalia, arrivata da Londra per assisterlo nelle sue esigenze quotidiane, dispensandole consigli di vita preziosi ed insegnamenti per districarsi nel difficile compito di attraversare la giovinezza irta di insidie.  E’ soprattutto un padrone affettuoso per il cagnolino Birba che è sempre stato il suo migliore alleato nel lavoro di trifolao così come viene chiamato colui che nelle Langhe cerca i tartufi, quelli pregiati bianchi di Alba venduti a prezzi esorbitanti e oggetto di mire di personaggi spregiudicati che non si fanno scrupoli.
 
Un film semplice nel suo impianto che tante volte si fa semplicistico per la presenza di passaggi e snodi narrativi che non sempre risultano credibili ma anzi ridicolizzano un po' la storia che ha però il pregio di mantenersi favola, racconto edificante che dispensa una morale costruttiva e condivisibile circa il potere enorme degli affetti veri di riparare le ferite esistenziali e di far fronte ai torti subiti con la saggezza di chi sa che bisogna saper accettare tutto quello che non è in nostro potere cambiare.
 
La storia innalza a veri e propri protagonisti sia la musica che ci avvolge e ci trasporta, la fotografia che ci regala scorci di vera poesia su colline che alternano filari di vigneti, boschi fitti e colline che disegnano un orizzonte di struggente bellezza.
 
Virna Castiglioni
 

Familia

Mercoledì 02 Ottobre 2024 17:33
Il film è la trasposizione cinematografica del romanzo autobiografico “Non sarà sempre così” (edizioni Piemme) di Luigi Celeste, reo confesso dell’assassinio del padre e, per questo reato, condannato a scontare una pena di nove anni di reclusione. La vicenda nota alle cronache rivive sullo schermo grazie a Francesco Costabile, già apprezzato per la sua opera prima “Una femmina” del 2022, regista sensibile e istintivo che confeziona un racconto che, pur mantenendo la sua estrema drammaticità e non togliendo alcuna parte di cieca violenza, riesce comunque a non incupire e a non chiudere completamente a sentimenti di speranza e di riscatto. In questo viaggio nel dolore sceglie un cast di assoluta levatura. Barbara Ronchi è immensa nel ruolo della madre amorevole ma succube di un uomo violento, iroso, affetto da una gelosia malata e ossessiva. In un lavoro costante di sottrazione appare in tutta la sua bravura che risulta estremamente efficace nel restituire le sfaccettature di una donna combattuta tra la costante ricerca di una normalità matrimoniale di moglie e madre e la consapevolezza granitica che non potrà cambiare niente perché di quell’uomo "non ci si potrà mai liberare".  Francesco Di Leva rende al personaggio del padre tutta la forza e l’arroganza di un uomo che condiziona le vite dei suoi congiunti anche in assenza, anche quando è lontano, perfino quando è in carcere come un’animale feroce che segue e cerca il momento propizio per braccare le proprie prede e renderle vittime annientando le loro personalità. Commovente l’interpretazione di Francesco Gheghi (Premio meritatissimo per la Miglior interpretazione all’ 81° Festival del cinema di Venezia dove il film è stato presentato in concorso nella sezione Orizzonti) che opera anche una trasformazione fisica corporea per immedesimarsi in quel ragazzo dall’animo dolce e delicato che diventa forte e aggressivo per riuscire a difendere chi non ha gli strumenti per farlo, assumendo su di sè una croce pesante che lo segnerà per sempre ma lo renderà anche libero regalando la stessa libertà anche ai suoi affetti più cari. Anche gli altri attori comprimari sono estremamente efficaci nel riportare questa vicenda di solitudine e desolante abbandono che costringe ad un epilogo efferato per riuscire ad uscire da un tunnel di sopraffazione e umiliazione perenni.
 
Il film fa rivivere, avvalendosi di inquadrature strette e di molteplici primi piani tutta l’oppressione e il controllo maniacale che vive questa famiglia che cerca di sopravvivere, interpella le istituzioni, si fida delle autorità per avere maggiori tutele, si disintegra e si perde assorbendo giorno dopo giorno un male che come un cancro lavora sotto traccia per poi esplodere con la potenza deflagrante di un ordigno.
 
Il film “Familia” è un costante e calibrato gioco di sguardi. Gli occhi sono l’elemento primario che ci conduce nell’anima recondita dei personaggi.  Lo specchio dei loro pensieri più intimi, dei loro timori, delle lo loro pene e sofferenze. Gli sguardi che si incontrano e dicono più delle parole che il più delle volte sono utilizzate come paravento per schermare un dentro fatto di sopruso e vergogna e un esterno che non deve sapere troppo per non rischiare di aggravare ancora di più la situazione sempre sull’orlo del precipizio.
 
Un film che si fa urgente in una società che ha sempre più spesso rigurgiti di ritorno ad una visione arcaica della famiglia intesa come familia così come si è scelto di intitolare la pellicola nella sua etimologia che ci restituisce un significato anacronistico ma ancora perseguito in alcuni ambienti e in alcuni gruppi sociali. Familia deriva da “famulus “ cioè servo e indicava nell’antica Roma il gruppo di servi e schiavi di cui facevano parte anche figli e moglie di proprietà del pater familias.
 
Francesco Costabile sceglie di non giudicare, facendo parlare il più possibile i fatti per come si sono svolti pur inserendo anche qualche sostanziale differenza, riuscendo però solo in parte nell’intento di non far credere allo spettatore che l’unica via di uscita dalla violenza sia l’utilizzo della stessa. Un film che però interroga per tutta la sua durata soprattutto perché la violenza privata è facilmente esportabile all’esterno se non viene arginata e sconfitta al suo nascere come dimostra l’affiliazione del protagonista ad una banda di neofascisti dove gli stessi stilemi di abusi e di sopraffazione imperversano ma sono, cosa ancora più grave, anche ritenuti legittimi e applicabili a vari contesti.
 
La violenza domestica è una pianta infestante che può essere estirpata solo in sinergia e implica lo sforzo costante di vigilanza e intervento tempestivo da parte di tutti coloro che la osservano e la intercettano.
 
La società tutta è sollecitata per la costruzione di una risposta efficace che riesca a mettere un punto definitivo necessario per una ripartenza ma che primariamente ponga in stato di sicurezza e protezione tutti i soggetti coinvolti preservandoli il più possibile da ulteriori traumi psicologici. 
 
Virna Castiglioni
 
Pagina 6 di 7