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Dunkirk

Domenica 27 Agosto 2017 21:26 Pubblicato in Recensioni
Conclusa la ‘Strana Guerra”, tra il 26 maggio e il 3 giugno del 1940, le forze tedesche della Wehrmacht spazzarono via il corpo di spedizione inglese e le forze stanziali francesi, durante la battaglia di Dunkerque. Costretti ad una ritirata strategica, 400.000 uomini, vennero miracolosamente salvati. Quello che il regista Cristopher Nolan ha voluto farci conoscere (e ‘patire’) è la pena di questi soldati. Attraverso un accurato studio della storia recente, per oltre venticinque anni ha perpetuato una ricerca che lo ha portato a ‘Dunkirk’ la sua ultima encomiabile fatica. Tommy (Fionn Whitehead) giovane valoroso della British Army, costretto a fuggire da ogni situazione in attesa del “miracolo”, si ritrova ad allearsi con Gibson (Aneurin Barnard) coetaneo superstite a cui sembra toccata la stessa sorte. Condividendo una terribile corsa contro il tempo per assicurarsi un posto sulla nave ospedale, portano in salvo un altro commilitone Alex (Harry Styles) e con lui continuano questo viaggio disperato. L’anziano sognatore Mr. Dawson (Mark Rylance premio Oscar 2016), suo figlio Peter e un altro bambino suo amico,George, rispondono alla chiamata della Royal Navy e con la loro piccola imbarcazione civile, si spostano in mare aperto per aiutare i soldati a tornare in patria. Contro ogni pronostico, l’imbarcazione destinata alla deriva, porta il suo contributo verso un destino inaspettato. Il comandante Bolton (Kenneth Baranagh) e il suo secondo il Colonnello Winnant (James D’Arcy) coordinano i soccorsi da lontano, sperando nella buona riuscita dei piani di Churchill. Così come per terra e per mare si continua a lottare, in cielo, come avvoltoi su di una preda, tre Spitfire soccorritori Farrier (Tom Hardy), Collins (Jack Lowden) e il loro caposquadra (Cillian Murphy) volano senza tregua, nel mirino dei caccia tedeschi. Uno scenario su tre fronti diversi, tre linee temporali distinte (e a tratti confuse), la prima della durata di una settimana, la seconda di un mese, la terza di un’ora, concentrati in 106 minuti di pellicola. La matassa si sbriglia faticosamente, con l'increscevole ansia che l’accompagna. A fare da anestetico le splendide musiche di Hans Zimmer, balsamo per le orecchie, e gli incredibili effetti sonori. Degli Spitfire, a distanza di giorni, si possono udire gli spari al solo rievocare l’esperienza audiovisiva (si aprono scommesse sulla quantità di premi tecnici che questo film vincerà agli Oscar). La ricostruzione degli scenari è  visivamente ineccepibile, considerando che è stato girato nella vera Dunkuerqe e solo  in parte negli studi di Los Angeles. La forza visiva delle immagini soffoca  la sceneggiatura tanto che  il regista aveva perfino pensato di farne a meno, dissuaso poi in seconda battuta. Schiacciati dal peso della coscienza, con la sola colpa di essere vivi, i protagonisti quasi “anonimi” (o meglio “ignoti”) ci portano ad una riflessione più quotidiana sull’effettiva importanza dell’essere vivi. Come “Inception” (2010), strutturato a scatole cinesi, sfrutta l’autenticità del dramma per colpire il nostro immaginario. Estenuante e faticoso, come la guerra che racconta.
 
Francesca Tulli

Miss Sloane

Domenica 27 Agosto 2017 21:11 Pubblicato in Recensioni
Elegante, astuta e calcolatrice, Elizabeth Sloane è una lobbista di successo a Washington. Dopo aver abbandonato l’agenzia capitanata dal controverso Goerge Dupont, la donna decide di intraprendere un nuovo capitolo della sua carriera iniziando a lavorare per Rodolfo Schmidt. Miss Sloane dovrà fare i conti con un caso assai spinoso, una legge a favore di un più semplice possesso di armi da fuoco da parte di ogni individuo. Lo scopo della società Schimdt è quello di bloccare questa norma, mettendosi così contro una delle lobby più potenti,  quella delle armi. Se la corrotta politica Americana è un mare torbido e ambiguo, Elizabeth Sloane è un pesce vorace che si muove in queste acque con estrema abilità, soprattutto se la posta in gioco si fa alta. 
John Madden dirige un film complesso, cinico,  ben strutturato che forse presenta solamente un piccolo difetto, ossia un incipit troppo contenuto. Infatti è proprio nella seconda parte del film che si dispiegano alcuni tra gli aspetti più interessanti della pellicola. Tra questi, la ricercatezza dei dialoghi, protagonisti indiscussi nel film, tanto sagaci quanto spietati nel rendere appieno un retroscena politico pregno di tracotanza e arrivismo. 
Punto cardine della storia risulta indubbiamente l’interprete principale Jessica Chastain, splendida, ammaliante e abile come poche, capace di rendere ancora più intenso un personaggio forte e tagliente come quello di Miss Sloane. 
 Madden dirige un film molto diverso dai precedenti (Ritorno a Marigold Hotel, Shakespeare in love) cambiando decisamente registro, e offrendo allo spettatore un disegno piuttosto articolato della politica Americana. 
Miss Sloane è nel complesso un film che sa intrattenere, senza scivolare nel tedio, mantenendo sempre un ritmo costante, e avvincente. 
 
Giada Farrace

Transformers L'Ultimo Cavaliere

Giovedì 22 Giugno 2017 22:34 Pubblicato in Recensioni
Dopo estenuanti battaglie combattute sul pianeta Terra, tornano i Transformers con la regia eplosiva dello statunitense Michael Bay. Spinto dalla sete di conoscenza il buon leader del gruppo degli Autobot, Optimus Prime si spinge verso Cybertron, il pianeta natale della sua razza. Qui viene sfidato da Quintessa, la sua creatrice, una “regina” tiranna che vuole sfruttarlo a suo vantaggio per conquistare la terra. Sul nostro “pianetucolo”, i Transformers decimati, dichiarati illegali, senza distinzione di intenti, vengono cacciati, imprigionati e massacrati. A proteggerli solo Cade Yeager (Mark Wahlberg) il suo team di sgangherati sopravvisuti e una bimba orfana con grandissime conoscenze nel campo della meccanica Izabella (Isabella Moner). Megatron (storico villain della serie) a capo dei micidiali Decepticon, presentati con tanto di nome impresso sullo schermo, come nella la migliore tradizione (lo fece anche Quentin Tarantino per Kill Bill) trama la sua vendetta. Quando la speranza di vincere sembra lontana con il peso di un’azione governativa inutile e imbecille a mettere sempre i bastoni fra le ruote (è il caso di dirlo!) la soluzione ad ogni problema risiede nella magia passato. Sir Edmund Bruton (un generoso Anthony Hopkins che non si è fermato davanti al nome del franchise), custode dei segreti che riguardano un legame mistico tra Re Artù, Merlino e i robot multifunzionali, ’convoca’ la professoressa, filosofo, pressocché ‘onnisciente’ bionda mozzafiato Vivian Wembley (Laura Haddock) nella sua dimora in Inghilterra, per rivelarle più di quanto avrebbe mai immaginato, preparato all’imminente apocalisse. Quinto film della saga, massacrato dalla critica, generalmente severa con il regista, è (come i precedenti) un blockbuster che vanta tra i migliori effetti speciali in circolazione, merito della ILM. Oltre che essere tra i pochi film sui robot sul panorama attuale. Se Pacific Rim (2013) di Guillermo del Toro omaggiava egregiamente i Robot Anime giapponesi (servendosi anche di affasciananti tecniche tradizionali) la saga dei Transformers resta fedele alle sue origini Ibride. Il brand made in USA, inventato per la linea di giocattoli Hasbro nel 1984 è stato successivamente (nello stesso anno) acquisito dalla giapponese Toei Animation per l’omonima serie di cartoni animati. Scavare nella pellicola per cercare una sceneggiatura cervellotica, è un esercizio inutile: fin dal primo capitolo del 2007, il film è stato pensato e voluto per restare “un gioco” rivolto ai ragazzi di oggi e di ieri, che nella semplicità di concetti come “il sacrificio” “l’appartenenza” e “la giustizia” possono provare empatia verso le loro controparti meccaniche. Al contrario l’incapacità del regista di gestire le mille sottotrame e le aspettative sui personaggi sono punti che pendono a suo sfavore. Sfiorato il pericolo di annoiare, con la martellante voglia di mostrare troppo, come si era fatto per “Transformers: Dark of The Moon” (2011) resta una buona esagerata fantastoria dedicata a chi ha ancora una (sana) voglia di sentirsi bambino.
 
Francesca Tulli
 

Spider-man: Homecoming

Giovedì 06 Luglio 2017 22:21 Pubblicato in Recensioni
Il giovane regista statunitense Jon Watts, alle prese con il suo primo film Marvel (prodotto dalla Sony e distribuito da Warner) si cimenta nella terza versione di Spidy al cinema. Dopo lo scontro fratricida tra gli “Eroi di New York” visto in Captain America: Civil War (2016), Peter Parker (Tom Holland) quattordicenne torna a casa (come suggerisce il titolo) dalla cara zia May nel Queens. Dopo essersi sentito indispensabile per Tony Stark (anche conosciuto come Iron Man, intramontabile Robert Downey Junior) grazie ai suoi poteri di Spider-man le sue giornate in vista di essere richiamato per una missione speciale, sembrano non finire mai. Stanco di correre dietro ai ladri di biciclette, aspetta con impazienza che si presenti per lui l’occasione giusta per farsi notare dagli Avengers. La sua monotona vita al college è divisa tra le prove per il Decathlon Accademico con l’inseparabile amico Ned (Jacob Batalon) e le figuracce collezionate nel patetico tentativo di attirare l’attenzione di Liz (Laura Harrier) la bella della scuola. Nessuno è al corrente della sua identità segreta. Nel frattempo, in possesso illegale di tecnologia aliena, trafugata dai resti dell’attacco dei Chituari (Avengers, 2012), Adrian Toomes (Michael Keaton), un ‘povero’ spazzino in cerca del riscatto sociale sostenuto da un gruppo di criminali, crea armi micidiali da vendere sul mercato nero e nelle profondità del suo covo si costruisce un’armatura alata. Destinati a scontrarsi, i due sono legati da un insospettabile epilogo. Fiumi di parole, hanno accompagnato le evoluzioni cartacee e non del’ Uomo Ragno, dalla sua creazione nel 1962, Stan Lee, padre degli eroi, l’unico che potrebbe mettere bocca riguardo gli adattamenti cinematografici delle sue creature, trova tutt’oggi che alla serie tv del 1970, mancassero i giusti effetti speciali per rendere al meglio il personaggio, lacuna che con gli anni, secondo le possibilità, ad ogni rifacimento, è stata colmata. In Homecoming, la ILM ha trattato Peter Parker come ogni altro personaggio, ‘inedito’ o ‘riadattato’ cercando il ‘nuovo’ negli effetti visivi, mantenendo le sue storiche capacità. Tutto l’impianto urla alle nuove generazioni  “dimenticatevi dei recenti ‘Amazing’ e della trilogia di Sam Raimi” ora Peter Parker ha un suo posto nel’MCU, è un personaggio “nuovo” ma non così “diverso” da come lo conoscete. L’enfant prodige fa breccia con i soli due elementi che non dovevano assolutamente mancare alla pellicola :’ironia’ e i super problemi. Il compositore Michael Giacchino riutilizza le note del tema principale, senza peccare di presunzione. Di supporto, il signor. Robert ‘Stark’ Downy Junior non mette in ombra il protagonista, permettendogli un ampio respiro durante l’azione. Iron Man smette di oscurare ogni altro personaggio dietro al suo ego. Geniali le comparse di Chris Evans nei panni del ‘Capitano Ameircano’. Solo un ritmo altalenate, tra cliché e forzature (specialmente riguardo ad un certo ‘famoso’ personaggio femminile) generano dubbi per la riuscita dei seguiti del franchise. Nel film il tutto è controbilanciato anche dalla performance di Keaton, che sembra prendersi gioco del suo ruolo in Birdman (2014). ‘Grandi responsabilità’ , per l’attuale strapotere dell’universo cinematografico della ‘Casa delle Idee’ i fili delle ragnatele non si spezzano in questo film, sperando che restino così salde anche in futuro.
 
Francesca Tulli