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Un momento di follia di Jean-François Richet (Nemico Pubblico), remake dell’omonimo film del 1977 di Claude Berri, tratta con onestà e ironia un tema attuale e dibattuto: la relazione tra l'intraprendente diciassettenne Louna (Lola Le Lann) e il cinquantenne divorziato e amico di famiglia Laurent (Vincent Cassel). Senza peli sulla lingua, l’attore protagonista, durante la promozione del film (nelle sale italiane dal 24 marzo), non sfuggendo soprattutto alle domande personali, ci ha raccontato il suo punto di vista riguardo alla questione. 

 
 
Con un italiano fluente commisto al francese e un’espressione di sfida, carico di una disarmante sincerità posiziona il vero punto nodale del film, il vero tema “scabroso” della vicenda, nel tradimento della fiducia da parte di Laurent nei confronti del migliore amico e padre della giovane, interpretato da François Cluzet. Infatti per Cassel la rottura di una bella amicizia, appare come l'elemento compromettente della storia, facendo diventare marginale la questione della grande differenza d'età nei rapporti di coppia. “Le ragazze di 17 e 18 anni ci provano con me” ha continuato ridendo “è perfettamente normale”. In questa versione Louna ha 17 anni e mezzo ed è interpretata da una 18enne e questo particolare, che sembra lieve, per Cassel e il regista è invece stata una scelta ben ragionata: era importante trovare un'età che mettesse pace tra i moralisti mantenendo il senso della storia originale, se Louna fosse stata più giovane avrebbe creato discussioni ma “non avrebbe scandalizzato il produttore” ha puntualizzato ancora l'attore. 
“Cosa faresti tu al posto del protagonista?” a questa domanda si sbottona  “ le donne sono in generale più mature degli uomini, controllano la creazione. Noi siamo sterili. Siamo ancora come bambini a cinquant’anni.” e continua assicurando “La figlia di un mio amico nemmeno la guardo. O almeno, ci provo.”  
“Cosa faresti se tua figlia uscisse con un cinquantenne?” “Non lo so, non vorrei reagire come il padre (vendicativo) del film”.
 L’attore ha continuato spiegando perché crede che non ci sia nulla di male se un uomo di cinquantanni va con una donna più giovane sottolineando “il contrario invece sarebbe più inappropriato per una questione fisiologica: potrebbe rappresentare un problema nel caso di una gravidanza”. Il regista ha evidenziato che a tirare le fila della relazione c’è proprio la cocciutaggine della ragazza, è lei che tiene “placcato” Laurent perché “a diciassette anni una donna sa perfettamente cosa vuole ed è inarrestabile” ha continuato Cassel sentendo già come la discussione poteva facilmente essere fraintesa. Aveva premesso che “in questo mondo di moralisti ad oggi non si può più esprimere un pensiero su nulla, non si può più parlare di nulla né di diversità né tantomeno di sesso (o come lo ha pronunciato lui “sexsò!”) “Perché ogni frase può essere estrapolata da un contesto e strumentalizzata all’interno di un articolo vacuo e inutile”. 
Non è mancato un riferimento ad un altro remake del film ad opera degli americani “Non l’ho visto” ha dichiarato il regista, “non ci interessava, lo abbiamo rifatto ancora perché volevamo! chissenefrega” ha continuato Cassel e poi “era brutto” come è stato fatto notare all’attore che ha confessato “ecco sì, non volevo dirlo”. Non sono mancate le lodi alla partner “Penso che vedere un’attrice emergere sia molto più importante che vedere un personaggio famoso e professionista che lavora da anni e cazzate varie! Lei ha insegnato qualcosa a me. In “Partisan” del 2015 ho lavorato solo con donne e bambini persone comuni che non sono davvero del mestiere e mi sono reso conto che sapevano fare cose che un professionista non sa fare.” Vincent Cassel con ironia e leggerezza ha dimostrato la sua onestà e noi, in questo, lo abbiamo apprezzato. 
 
Francesca Tulli
 
La prospettiva di una diversa “vita possibile” è la speranza che muove Anna (Margherita Buy), protagonista del film di Ivano De Matteo, ad andarsene da Roma. Stanca di subire gli attacchi violenti del marito, cerca riparo a Torino, assieme al figlio adolescente, dall'amica Carla (Valeria Golino). Il regista romano, durante la conferenza stampa alla presenza dell’intero cast, ci racconta come il giovane Valerio (Andrea Pittorino), che guida gli spettatori nel corso della vicenda, passi da un’apparente situazione di normalità alla scoperta di una realtà alienante dove la violenza diviene parte integrante della sua vita dentro e fuori le mura domestiche. 
 
Una storia che nasce “ dal momento in cui, con la mia compagna (Valentina Ferlan autrice del soggetto e cosceneggiatrice n.d.r.), stavamo cercando un nuovo progetto da trattare. Una nostra conoscente si è confidata un giorno raccontandoci la sua situazione, noi abbiamo scoperto questo mondo e ne abbiamo voluto parlare. Si tratta di un tema diventato sociale, non volevamo comunque raccontare un film di violenza ma, piuttosto, evidenziare la forza delle donne e le grandi storie d’amore che riescono a nascere e superare la violenza.” 
 
 
 
In linea con i temi caldi del momento, il lavoro si discosta nettamente dai classici clichè non indugiando su una resa ad effetto di scene crude. Ciò che De Matteo tiene a ribadire è che il suo racconto rappresenta “una sorta di affresco: si tratta di un film drammatico che tratta eventi quotidiani. Non volevamo fare un film di bastonate, botte e sangue. Penso che quel genere di film siano diventati all’ordine del giorno, vi sia quasi assuefazione: abbiamo voluto saltare questa fase e mi sono mosso con un percorso inverso rispetto ai miei precedenti lavori dove, invece, iniziavo con una famiglia in ordine che si sfasciava. Qui il filo conduttore è la ricostruzione.”
 
La coprotagonista Valeria Golino sottolinea “E' una storia priva d’odio, l’odio non si sente, io non arrivo neanche ad odiare il marito violento di Anna, nonostante il mio personaggio continui a dire che è uno stronzo”.
 
De Matteo, che nel film si riserva un piccolo ruolo, ha fatto uno studio per interpretare al meglio, in una breve scena di  introduzione, il padre violento di  Valerio. Le sue parole sono prese da vere lettere messe a verbale di donne che hanno subito maltrattamenti. “Si tratta, senza dubbio, del film più difficile che ho fatto fino a oggi. Non c’è azione, il film vuole cercare di mettere in risalto l’emozione: questo è molto più difficile da fare, ho cercato di dare un aspetto forte dell’immagine. Bisogna lavorare su un determinato equilibrio, ho dovuto fare molta documentazione e per focalizzare al meglio il ruolo del bambino in un contesto del genere ho dovuto incontrare diversi psicologi. Non è facile filmare l’emozione.”  
 
L'unica figura maschile positiva del film sembra essere Mathieu, il gestore francese di un bar sportivo (il calcio è la passione del ragazzino), un “quasi” latitante straniero che a detta dell’interprete, Bruno Todeschini, rappresenta “il vero padre di Valerio”, quello che non ha mai avuto. Viene toccato così il tema dell’integrazione, visto sia dal punto di vista di un francese in Italia, che di un ragazzino romano a Torino. Entrambi devono farsi accettare da una diversa società. 
 
 
 
 
Alla nostra domanda se si trattasse di un film ‘umorale’ il regista ha spiegato che “Ogni mio film è ‘umorale’. L’umore che hai in quel momento ti porta a scrivere determinate cose, un film scritto in un altro periodo avrebbe raccontato un’altra cosa.’” ha specificato “ Quando ho fatto gli Equilibristi ero così pregno di queste situazioni, andavo nelle Caritas a portare da mangiare, mi sentivo anche ad un certo punto abbastanza scosso. Quando fai determinati film, almeno per quello che riguarda me, sono una corda di violino, non perché ho paura di sbagliare delle cose ma perché sono toccato dentro.” 
“Cosa racconto in un film? Le mie debolezze, l’ambito familiare, vado ad esorcizzare le cose, ho sempre messo in dubbio anche me stesso, le paure!” ci riflette e spiega “in questo caso non succederà mai, ma che ne posso sapere? potrei alzarmi la mattina e lasciare la mia compagna per  dormire in macchina con Mastandea, che ne so! magari mio figlio mi dice che con altri deficienti  hanno ammazzato una a caso, sono paure, le mie paure...come potrei raccontare dei miei innamoramenti.” 
 
Il film mette anche in luce e denuncia, le difficoltà che si hanno in Italia per farsi ascoltare da uno ‘sportello amico’ inefficiente quando si tratta di aiutare un minore sotto la responsabilità giuridica di entrambi i genitori. 
 
 
De Matteo conclude con una grande e triste verità che riguarda la distribuzione delle copie al cinema “Io non mi sono mai lamentato nella vita di quello che non ho, sono sempre stato contento di quello che ho: se mi danno 2 mi merito 2, se mi danno zero mi merito zero. Non credo sia una questione di copie ma una questione d'amore, se tu la difendi una cosa. Puoi anche uscire con 10 copie e vai col coltello in mezzo ai denti. I miei film non sono da 300 copie io ho bisogno di qualcuno che ci creda. Io ringrazio Teodora (distribuzione italiana n.d.r.) perchè c'ha creduto, perchè c'è un mercato che richiede un tipo di film che incassano e io probabilmente non faccio quel tipo di film, nonostante le gratificazioni di Venezia. Probabilmente preferisco vivere in 41mq ma ho rifiutato anche tanta roba che mi poteva far guadagnare, potrei seguire un mercato ma perchè mi devo snaturare? Ho 51 anni, ma cosa me ne frega?! Allora se c'è qualcuno che apprezza il mio cinema, che oltretutto non è un cinema criptico, ben venga. ”
E De Matteo incalza “La libertà di espressione nel cinema non c’è, l’unica libertà che hai è la libertà di pensiero, e ti vanno ad intaccare lì psicologicamente, non incassi, e di conseguenza pensi sia un brutto lavoro e vai in paranoia! E io non ci voglio entrare in quel mondo là, io sto cercando di portare avanti un mio discorso personale. Se c’è qualcuno che con dieci mila lire mi dice che fa uscire dieci copie ben venga, basta che sia fatto con amore.” Vero e assolutamente anticonvenzionale, il regista si dimostra una persona vera e di spirito. Per questo ci auguriamo che continui a fare film autentici come lo è lui. 
 
Francesca Tulli

Pablo Larrain ci parla di Neruda

Sabato 08 Ottobre 2016 21:04
Il film Neruda, candidato del Cile ai prossimi Oscar, è diretto dal brillante regista Pablo Larraín. Durante la promozione del film a Roma ha dato risposte pungenti e competenti che hanno lasciato tutti soddisfatti. 
Inizia rispondendo ad una domanda sugli sviluppi della politica Cilena :“Questo film, lo abbiamo fatto nel 2016 non nel 1947, e questo è un vantaggio: sapere cosa è successo dopo. E’ ambientato nel dopoguerra, parla di un paese che ha sofferto. L’anima cilena è stata devastata,  dall’ascesa del ‘bastardo’ Pinochet. Nel film il paese vuole concretizzare un sogno che non si è mai realizzato. Quando Neruda ricevette il premio Nobel (1971) ha letto un discorso, che potete cercare su google, dove parla proprio di quest’epoca, alla fine dice che, non sa se ‘quel periodo lo ha vissuto, lo ha sognato, lo ha scritto” e in questa frase c’è proprio la chiave di tutto il film. Non è un elaborato su Neruda parla del suo universo, il suo cosmo”. 
 
 
Proprio a questo proposito, noi di FuoriTraccia abbiamo preso la parola, chiedendo dove si è documentato, su quali libri e quale studio “matto e disperatissimo” ha visibilmente svolto per realizzare la pellicola, Larrain risponde sorridendo, senza bisogno di traduzioni: “Ho letto diverse biografie, ne abbiamo scelte tre, innanzitutto la sua autobiografia ‘Confesso che ho vissuto’ e poi abbiamo fatto molte interviste a persone che lo hanno conosciuto. Neruda era un grande amante della cucina, era un cuoco eccellente, amante del vino e delle donne, un diplomatico che ha viaggiato in tutto il mondo, per il suo lavoro. Un esperto di letteratura, un amante del genere poliziesco, senatore del Cile, il poeta più grande della nostra lingua, forse il più grande al mondo e raccontare tutto questo mi terrorizzava. Ho provato una paura enorme all’idea di dover affrontare tutti questi aspetti. Al contrario ho sentito un enorme senso di liberazione quando ho capito, che non potevo raccontare tutto questo in un film di due ore, era impossibile, ‘Tutto Nerdua” non ci sta in un solo film. Neruda in Cile è ovunque, nell’acqua, nella terra, nelle piante, storici e giornalisti hanno scritto di lui. Neruda ha fatto la storia del mio paese,  io stesso lo porto addosso, nei capelli, nel corpo,  nel sudore, nel sangue, questo film è un omaggio, una poesia, un poema, scritto con il sogno che anche lui potesse leggerlo.”  
 
 
Neruda politico e artista, dualismo difficile da immaginare nella attuale società, così commenta questa doppia identità: “E’ impossibile scindere le due cose, era un mondo diverso. Immaginiamo ora cosa direbbero, se ci fosse un politico Americano che scrive poesie scontro Donald Trump, nessuno penserebbe che si tratti di vera poesia. invece Neruda nel Canto General (1950) scrive, in termini non propriamente gentili e amabili di leader politici e capi di stato dell’America Latina e  questo  va considerato come vera poesia, indirizzata alla politica. Lui come altri della sua generazione volevano con la propria arte cambiare il mondo, influenzare il regime attraverso il sostegno dei loro lettori e del pubblico.” Continua sul tema della comunicazione: “Trovo che nel mondo di oggi il modo di dire le cose, è più importante del contenuto, e questo mi sembra molto pericoloso. Questo è un roadmovie, è un film anti biopic, sulla scia dei noir anni ‘40 ‘50 e allo stesso tempo una commedia, ma sì è anche un film sulla comunicazione. Volevo mostrare come il personaggio cambia durante il suo percorso. Non è importante il punto di arrivo o la destinazione ma il viaggio stesso che ‘diventa’ la destinazione. Neruda diviene leggenda proprio in quel frangente della sua vita, e il poliziotto da senso a questa vita. Avevano bisogno l’uno dell’altro.  Per capire quello che non capivano l’uno dell’altro. E’ una storia di amore puro. Il resto è un’ po’ una scusa.” 
Altri cercando significati profondi all’interno nel film e dando letture personali della vicenda, hanno chiesto al regista come la pellicola vada letta ed interpretata, Larraín  risponde con una smorfia beffarda dando una risposta spiazzante che racchiude il suo senso del cinema: “Abbiamo lavorato 5 anni a questo progetto e per questo non voglio rispondere a questo tipo di domande. Preferisco che siate voi a scrivere e dire quello che ci avete trovato. Mi sembra sempre assurdo e orribile quando i registi, dicono cosa si dovrebbe provare guardando un film. Questo deve farlo lo spettatore, non dimentichiamoci che un cineasta è come un bambino con una bomba in mano.”  
 
 
Dopo aver chiarito che i testi della narrazione non sono citazioni di Neruda, e ringraziando se qualcuno ha pensato che lo fossero continua col dire  “Due settimane prima della realizzazione del film, mio fratello (Juan de Dios  Larraín) produttore del film, ci ha chiesto di togliere dalla sceneggiatura venti pagine perché non c’erano soldi sufficienti per coprire le corpose 160 pagine di lavoro. Così dall’America lo sceneggiatore Guillermo Calderòn è venuto in Cile. Ci siamo chiusi in una stanza per cercare di assottigliare la mole di lavoro per una settimana. Risultato siamo usciti con 180 pagine! Venti in più! Perché non c’era verso di tagliarle, ma abbiamo filmato il film più velocemente per compensare. Io lavoro rielaborando e ‘cucinando’ la sceneggiatura, un film non si fa senza scene ma per me è soprattutto un elaborato di atmosfere, toni è qualcosa di più viscerale, quindi cerchiamo di catturare questi aspetti con Sergio Armstrong (lo scenografo) e poi proseguire con il racconto. Come disse Truffaut ‘Nelle riprese bisogna lottare contro la sceneggiatura e nel montaggio bisogna lottare contro le riprese’  Sono processi diversi, c’è una battaglia che bisogna fare, ma è molto bello e liberatorio che ci sia questo conflitto. Non so se vi succede quando andate al cinema, guardando un film che il regista vi stia servendo già tutte le risposte. Vi dice già, che cosa dovete pensare, che cosa dovete provare, chi è il buono, chi è il cattivo. A me questo non piace. Non voglio che mi si faccia questo, Il cinema, il regista deve potersi fidare dello spettatore, deve potersi fidare delle sue capacità e quindi il film deve essere qualcosa di espansivo di aperto che il pubblico percepirà a seconda della propria sensibilità. Dare già tutto preconfezionato mi sembra una grande insolenza, nei confronti dello spettatore e in quei casi io me ne vado. Io voglio essere parte attiva, pensare e decidere per conto mio. I film si dovrebbero fare lasciando questa apertura verso chi lo guarda, è bello quando dopo aver visto un film, ripensandoci, non sei sicuro di quello che è successo, che hai pensato o hai visto, è un meccanismo un dialogo che si crea tra il pubblico e lo schermo. E’ come succede nel sesso quando è fatto bene.” Aggiunge ironizzando “Ho letto tanto su Neruda, le biografie di cui parlavo prima, ho fatto un film su Neruda e non ho ancora la più pallida idea di chi sia Neruda”.  
Nota tragicomica alla conclusione della conferenza Luis Gnecco, l’attore protagonista del film, aveva perso peso per la prima volta nella sua vita quando il regista lo ha portato in un ristorante italiano a farsi una bella pasta alla Carbonara dicendo “non puoi fare Neruda se non hai sostanza devi mangiare  di più” con una risata generale il regista conclude lasciando che ognuno rielabori questa lezione di umiltà. 
 
Francesca Tulli

Dracula Untold Press Conference

Mercoledì 08 Ottobre 2014 10:35

Dalla conferenza stampa di Dracula Untold, nelle sale italiane dal prossimo 30 ottobre, intervista ai protagonisti Luke Evans e Sarah Gadon. Riprese di Francesca Tulli

Il nostro incontro con Sara Pichelli, disegnatrice, fumettista e coideatrice di Ultimate Spider-Man/ Miles Morales. Sara è stata ospite di una giornata in omaggio a Stan Lee all'interno del progetto scuola "La Città Incantata" promosso da Regione Lazio e Comune di Roma, ideato da Progetto ABC Arte Bellezza Cultura e rivolto agli studenti delle scuole superiori. 
 
Intervista di Francesca Tulli 
Video di Chiara Nucera

Dracula Untold

Mercoledì 29 Ottobre 2014 21:56
Dracula, basta questo nome ad invocare una figura ben distinta nell’immaginario collettivo. Prima del celebre film di Francis Ford Coppola, trasposizione del romanzo di Bram Stoker, erano pochi al cinema i Dracula fascinosi. Nel suo film Gary Oldman, con il cappello a cilindro e gli occhiali fumé, trasformò il conte da orrendo Nosferatu a sex symbol circondato di donne bellissime e capace di provare grandi amori. Non a caso il qui protagonista gallese Luke Evans (famoso ai più dopo aver interpretato Bard in “Lo Hobbit la Desolazione di Smaug” ) è bello, viene dal teatro, ha un nutrito successo tra le fan e, nota curiosa, ha davvero i canini appuntiti. Conosciuto da tutti come il vampiro più famoso nella storia dell’umanità, il principe Vald III di Valacchia è invece ricordato in Transilvania, come un eroe, infaustamente etichettato come un mostro dalla cultura generale. In questo esperimento di Gary Shore, un regista emergente alla prima esperienza, il protagonista è proprio questo, un paladino della giustizia, un padre di famiglia, un marito devoto, costretto dagli eventi a impalare i nemici sul campo di battaglia e a portare la maledizione che lo renderà celebre. Senza lato oscuro nel cuore, con una blanda sete di sangue, una super vista, super forza, super udito, il patto con un vampiro più oscuro (Charles Dance) lo rende invincibile, ma non convince lo spettatore. La pellicola è uno spreco di bravi attori, costumi mostruosamente dettagliati, set giganteschi, e sarebbe anche godibile se le battaglie non fossero ridicole quanto l’acconciatura moderna e improbabile dell’antagonista, il generale turco Mehmed (Dominic Cooper), che sembra uscita da una discoteca anni Novanta. La sceneggiatura è forse la pecca più grande di questo film, insensata, fastidiosa, retorica, certi espedienti sembrano immotivati ed altri sono prevedibili. La produzione è della Legendary Pictures, che lavora a tempo pieno con maestri del fantasy del calibro di Guillermo Del Toro. Si può perdonare la fiducia data ad un regista emergente, il coraggio di costruire un blockbuster all'ombra di colossal che, anche solo considerando gli investimenti delle major, dovrebbero essere perfetti (Diseny, Marvel ecc…), ma le buone intenzioni non bastano a salvare questo titolo dall’etichetta di “guilty pleasure”, ovvero di film gradevole e senza pretese da guardare in compagnia di amici, con  una scorta di pop corn. 
 
Francesca Tulli
 

Frank

Mercoledì 12 Novembre 2014 22:00
Chi è Frank? La domanda, se la pongono tutti, prima o dopo aver visto il film dell’irlandese Lenny Abrahamson, con Michel Fassbender nel ruolo del titolo. Le  risposte sono molteplici, Frank è un uomo tra i “trenta e i cinquanta” che indossa sempre una maschera di cartapesta, con dipinto sopra un enorme faccione sorridente. Senza una spiegazione logica, egli deve sempre descrivere la sua reale espressione a parole, non separandosene mai  quando dorme, mangia o quando fa la doccia. Frank è una persona creativa, capace di far passare il malumore agli sconosciuti, ispirare il genio di molti, schiacciare involontariamente l’autostima di altri creativi, perché è unico. Frank è soprattutto il leader di un gruppo musicale sgangherato, gli Soronprfbs, nome impronunciabile persino per gli stessi componenti; così lo conosce Jon (Domhnall Gleeson) , il tastierista “pel di carota”, che in prima persona racconta agli spettatori cosa significa lavorare e vivere con Frank. Lo fa inizialmente attraverso un incosciente entusiasmo, racconta le sue emozioni come fossero scritte su un diario segreto giorno per giorno,  attraverso twitter (vediamo comparire i suoi “cinguettii” agli angoli dello schermo), ignaro di come e dove lo stia trascinando questa avventura fuori dal comune tra una baita isolata nei boschi e la convinzione di incidere un cd inascoltabile. Gli altri membri della band sono altrettanto incoscienti, tra loro c’è Clara (Maggie Gyllenhaal), una cantante lirica mancata, innamorata di Frank al punto da buttare la sua vita, dietro ad un sogno irrealizzabile. Clara è piena di contraddizioni, all’apparenza è tutto meno che romantica, irascibile folle, dura di cuore, fa di tutto per ostacolare il successo del povero Jon, invidiosa della sua prematura amicizia con il leader del gruppo. Frank non è solo un “mascherone”, in lui si cela un uomo complicato, insicuro, fragile e, allo stesso tempo, un invidiabile talento che trova i testi delle sue canzoni in tutto ciò che osserva, come un bambino, trae ispirazione persino da un pelino di lana fuori posto nella trama di una poltrona. Delizioso spaccato di realtà alienante, la pellicola è tutto meno che una commedia leggera, come può suggerire la locandina: è la storia di una vita fuori dal comune, con tutti i pro e i contro che questo può comportare, come se al mondo non ci fosse più  posto per l’originalità o per chi sceglie di apparire come meglio crede,vivendo una vita totalmente fuori dagli schemi della società. Ci si chiede ancora: Frank è un pesce fuor d’acqua o è il mondo che ancora non è pronto per lui? 
 
Francesca Tulli
 

Big Hero 6

Venerdì 19 Dicembre 2014 13:46
"Noi siamo nerd che vanno ad una scuola per nerd" così si definisce il team di protagonisti del film d'animazione 3D "Big Hero 6" e questa premessa non potrebbe essere più buona. La Disney omaggia, un omonimo fumetto poco conosciuto della Marvel del 1998 con una rivisitazione strabiliante della vicenda. Hiro (da Hero=Eroe e Hiro=Nome comune giapponese) è un ragazzino di quattordici anni, a cui piace giocare sporco nei combattimenti clandestini tra robot, nella sfavillante San Fransokyo, commistione perfetta tra le due metropoli che ne compongono il nome- Tadashi suo fratello maggiore, è un genio della progettazione, dedito al bene comune e alla creazione di Baymax un operatore sanitario personale robot, rivestito da  una soffice pancia gonfiabile. Progettato per essere "rassicurante e coccoloso" Baymax è tondo, tenero, goffo, lento nei movimenti (almeno senza preparazione "atletica") è un capolavoro di gentilezza artificiale ed è l'amico che tutti i bambini vorrebbero, senza nulla togliere agli altri sei eroi in carne ed ossa che strizzano l'occhio a grandi dell'animazione giapponese (come Osamu Tezuka, Matsumoto e Toriyama) e classici della fantascienza americana come Tron e Iron Man (ma il più speciale resta Fred il capellone del gruppo e la scelta del suo costume da Kaiju anni 50). Questi riferimenti di genere, potrebbero essere troppo specifici per chi non è della materia ma il film è davvero "per tutti". La trama è classica ma ben strutturata, c'è un nemico comune che indossa la maschera del teatro Kabuki, apparentemente facile da "smascherare", e un gruppo di eroi "per caso" ma la vera forza del film sono gli equilibri tra le emozioni che suscita in un pubblico non troppo giovane o adulto c'è il dramma, la tenerezza, la rivincita del più (apparentemente) debole, fa sentire il calore della  forza di un abbraccio quando tutto sembra perduto, commuove, fa riflettere, e al momento giusto ridere. Il team di registi Don Hall e Chris Williams, con il supporto degli animatori di  Ralph Spacca Tutto e Frozen, riescono a superare i due precedenti lavori di successo, creando una storia più complessa e matura, se le principesse di Arendelle Elsa e Anna, incarnavano l'archetipo dell'amore tra sorelle, questo approfondisce quello tra fratelli, senza  però sprecare nessuna occasione per esigenze di copione, di Ralph ne conserva il valore citazionistico (il film è The Avengers incrociato con Totoro e mille altre cose) e a questo proposito, non lasciate per nessun motivo al mondo la sala fino alla fine dei titoli di coda.
 
Francesca Tulli
 

Unbroken

Lunedì 02 Febbraio 2015 11:29
La storia recente è piena di racconti incredibili. Lo è di sicuro quella di Louis Zamperini  che fa onore alla nostra nazione, e viene ricordato nella pellicola Unbroken come un uomo tenace e dalla fede incrollabile. Italiano di origine, americano nel cuore, Louis (nel film il belloccio inglese Jack O'connell)  è un corridore, un atleta dai record imbattuti. Fin da bambino si fa notare nelle competizioni e  si riscatta  dall' etichetta di "mangia spaghetti".Solo la seconda guerra mondiale frena la sua partecipazioni alle olimpiadi cancellate nella capitale del Giappone, paese in cui, per una sfortunata coincidenza dopo un diastro aereo e 47 giorni in mare in mezzo e agli  squali mangiando pesce crudo (con il suo compagno d'armi Phil un brillante Domhnall Gleesons) sconterà una lunghissima prigionia. Sotto la mano violenta del caporale giapponese Watanabe conosciuto anche come "l'uccello" (perché sempre vigile su tutto) e interpretato dal cantante giapponese Takamasa Ishiara, conoscerà sofferenze disumane senza mai spezzarsi, senza mai "abbassare lo sguardo" conservando il suo onore. Una storia di per sé commovente, un soggetto davvero interessante, che in mano alla regia di Angelina Jolie, si traduce in una pellicola abbastanza retorica, piena di luoghi comuni su tutte le nazioni coinvolte: se il nostro cuore italiano non si scandalizza davanti all'importanza che può rappresentare un piatto di "gnocchi fatti in casa dalla mamma" quando non si hanno più motivi apparenti per continuare a vivere, l'animo dei giapponesi è stato talmente ferito  dalla figura sadica e malevola dell'antagonista che il film è stato accusato di falsità storiche e vietato in tutto il Sol Levante. E' interessante il binomio tra protagonista e antagonista, il giapponese vede Louis come un amico mancato, ma non sopporta la sua perseveranza traducendo la sua ammirazione con una competizione a senso unico volta a  distruggerlo e umiliarlo agghiacciante ma non sviscerato del tutto. Le scene sono lunghissime e trascinano lo spettatore per ben 140 minuti. Il pathos e le sofferenze del  protagonista  vengono "uccise" dalla quasi totale assenza di ritmo. La fotografia è troppo pulita (risulta finta) come il trucco e le acconciature sempre perfette dei protagonisti, ammettendo che è impossibile che un bombardiere non sudi e non abbia un graffio dopo un esplosione quasi fatale. Facendo un paragone Vita di Pi di Ang Lee, è un film (a mio avviso riuscitissimo) che fa venire il mal di mare ma  fa riflettere sulla natura umana e l'esistenza di dio, Unbroken ti insegna che se hai fede e "resisti puoi sempre farcela" , ammesso che tu sia un uomo dotato di grande cuore ma sopratutto di piedi veloci e una straordinaria resistenza fisica. 
 
Francesca Tulli

Jupiter - Il destino dell'universo

Giovedì 05 Febbraio 2015 10:51
Quanti registi oggi giorno, sono in grado di scrivere un soggetto fantascientifico da zero attingendo al classico, senza tradire il proprio gusto, per portare un messaggio personale al pianeta terra? Domanda che potrebbe sembrare retorica ma che in questo caso sottolinea un'eccezione. I fratelli Lana e Andy Wachowski (famosi creatori di Matrix) ci aprono gli occhi ancora una volta su nuovi mondi, dissetando un panorama arido di idee, che ultimamente attinge sempre da vecchie glorie per rigenerarsi, producendo e dirigendo Jupiter Ascending. 
Jupiter Jones (Mila Kunis)  lavora come donna di servizio, vive con la sua chiassosa famiglia per metà russa e odia la sua vita. Lontano nell'universo, su un pianeta meraviglioso, gli eredi della casata di Abrasax, orfani della matriarca, litigano per l'eredità e  il maggiore e più privilegiato Balem (Eddy Redmayne) non vuole cedere ne al fratello ne alla sorella  la sua preziosa "terra". Pronta (o quasi) per donare i propri ovuli e fare un'po' di soldi facili, Jupiter Jones viene attaccata da alieni mutaforma nella clinica e salvata, o meglio rapita, da Caine Wise (il prestante Channing Tatum) cacciatore di taglie e socio del "veterano" Stinger (Sean Bean). Il salvataggio la porterà decisamente aldilà di ogni umana comprensione in una realtà dove tutti la chiamano "Sua Maestà". Se il filo conduttore di Cloud Atlas (più commovente e spietato) era l'importanza della libertà in ogni sua forma, Jupiter riprende  il tema della verità, quella che, invisibile e poi scoperta, può cambiare per sempre la vita di una singola persona e in questo caso, il destino dell'universo. La scenografia è mozzafiato, spostandoci dalla terra, troviamo palazzi d'oro che somigliano alla Asgard del Thor della Marvel cinematografica, cascate e cupole michelangiolesche, che ricordano il pianeta Naboo nella saga di Star Wars, astronavi eleganti e scomposte nello spazio infinito, i costumi sono dettagliatissimi, raffinati e minuziosi. Quali sono i difetti di questo film? diversi purtroppo. Da appassionata mi rendo conto che sarà di difficile digestione per chi non ama il genere: ha delle sequenze d'azione molto lunghe e caotiche, certi personaggi interessanti avrebbero avuto bisogno di uno spazio più ampio per respirare e nella sceneggiatura ci sono delle debolezze, i  siparietti romantici ad esempio spezzano rovinosamente la continuità degli eventi, la belloccia protagonista è mono espressione pertanto non sembra troppo turbata nel prendere decisioni cruciali e affrettate. Un'ultima nota di demerito (a mio avviso) da imputare al doppiaggio italiano: Eddy Redmayne ha una voce fastidiosissima, capisco la difficoltà di rendere una voce maschile viscida e effeminata ma il ricordo purtroppo va ai nostrani I Soliti Idioti, troppo macchiettistico per risultare efficace, svilendo ogni intento di credibilità.
 
Francesca Tulli
 
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