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Visualizza articoli per tag: tom hardy

Locke

Mercoledì 07 Maggio 2014 20:25

Ivan Locke, protagonista del secondo lungometraggio di Steven Knight, già pregevole sceneggiatore di “Dirty Pretty Things” (Stephen Frears) e de “La promessa dell’assassino” (David Cronenberg), è un operaio specializzato, stimato da colleghi e superiori, e un buon padre di famiglia. 

E’ un errore, come spesso accade, a fargli invertire, quasi letteralmente, senso di marcia e a costringerlo a ripensare alla propria vita, affrontando fantasmi che fino ad allora, lascia intendere la narrazione, erano rimasti sopiti nella rassicurante, reiterata quotidianità di un uomo oltremodo concreto, stabilmente appoggiato sul calcestruzzo dell’esistenza, come i palazzi che costruisce lo sono su quello reale, spesso evocato durante il viaggio solitario, in macchina.
Ed è, etimologicamente, un rottame di pietra (caementum) anche Ivan Locke, piantato nelle fondamenta familiari e lavorative, e tuttavia fallibile, sul punto di crollare da un momento all’altro a causa di una miscela di poco sbagliata, o forse solo umano. 
Con una meccanica delle azioni-reazioni che richiama quella del guidatore al volante – del resto l’intero film si volge nell’abitacolo di un’automobile – “Locke” resta, a mio avviso, un film drammaturgicamente debole che trova solo in alcuni, sporadici momenti, la capacità del salto semantico dal didascalismo retorico all’allegoria, nel senso più pieno del termine. E quando ciò avviene, ravviso l’abilità, più nell’uso accorto, quasi invisibile, ma funzionale, della connessione visiva fra l’uomo e la città/la strada che nella mera scrittura, abbastanza risaputa, mai disturbante quanto avrebbe potuto, se si fosse spinta più in profondità nel gioco straniante fra l’isolamento di Ivan e la forzosa e ostile interazione col fuori, vero e immaginato, che irrompe senza soste, durante il viaggio. Resta dunque abbastanza superficiale il conflitto, motore sempiterno dell’azione drammatica, che Ivan avverte, sia rispetto alla propria identità di uomo e di genitore, sia nella tenzone che la coscienza inscena, seppure in una virtuale psicosi che rimanda a quella di Trevis Bickle, con la memoria del proprio padre, assente, deficitario, disfunzionalmente egotico.  
Discorso a parte merita la performance di Tom Hardy, un vero one man show, come raramente se ne sono visti, al cinema: minimalista e intenso, al tempo stesso, come la scuola britannica insegna, l’attore londinese tratteggia Ivan Locke – uno che prova a fare la cosa giusta, un coraggioso di quelli piccoli, non certo l’eroe giovane e bello, cantato da Guccini – con commovente sensibilità, cifra costante del suo talento multiforme. La prova che offre non ha sbavature, nella capacità di dipingere, impassibile – verrebbe da dire, impossibile – l’antico dolore dell’uomo che non potrà mai sapere quanto stia davvero scegliendo e quanto la vita abbia scelto al posto suo.
Tom è un interprete struggente, da sempre, e, guardando alla sua titanica prova, spiace ancor di più per il sapore amarognolo, vagamente reazionario che “Locke”, parabola claudicante sulla responsabilità, lascia, una volta abbandonata la sala. 
 
Ilaria Mainardi

Mad Max: Fury Road

Lunedì 25 Maggio 2015 23:17
Il regista australiano George Miller, dopo la sua premiata carriera di film teneri per famiglie, celebra i trent’anni dall’uscita dell’ultimo capitolo della trilogia del “Guerriero della strada” con un nuovo adrenalinico film su Max. Il mondo ucciso dal crudele  Immortal Joe  (Hug Keays-Bryne)  si regge sul bisogno del popolo di avere acqua e latte di madre. Il tiranno vive circondato dai suoi figli deformi,  dal  suo esercito di Figli di guerra e con le sue splendide e giovani mogli nella cittadella . La più impavida, la regina Furiosa (una irriconoscibile Charlize Theron) tenta la fuga. Furiosa si mette in marcia con un manipolo di soldati inconsapevoli della sua decisione, portando con sé altre cinque spaventate fanciulle, con il pretesto di portare il petrolio a destinazione, tenta un disperato viaggio alla ricerca del “Luogo verde “, paradiso dove ha visto la luce prima che la rapissero e la portassero in quell’inferno  di carne e sabbia. Max (Tom Hardy)  ha memoria di quando veniva considerato un uomo, ricorda gli occhi di sua figlia chiedergli aiuto e il senso di colpa lo segue nella sua nuova misera condizione. Appeso in una gabbia con una maschera di ferro sulla bocca, è vivo per miracolo. Il suo sangue lo ha salvato, il suo gruppo zero serve ad alimentare le vene dei soldati, è prezioso, come “sacca di sangue”. Il più motivato dei soldati, il giovane Nux (Nicholas Hoult) che cerca la gloria eterna nel Valhalla e il riconoscimento del suo sovrano lega Max allo sperone del suo veicolo mortale e lo spinge nella lotta verso la cattura della ribelle. La disperata fuga della regina diventa presto un inseguimento epico e interminabile nella migliore tradizione di Miller. Per due ore siamo nel deserto a respirare la polvere, a soffrire il caldo vediamo solo disperazione e speranza, motori di fuoco, blindati decorati con le ossa, cingolati con le spine d’acciaio, moto  truccate e sgangherate deviazioni verso il nulla. Se nel primo capitolo della saga Interceptor, che contribuì a forgiare Mel Gibson e consacrarlo alla storia del cinema di genere, Max era un poliziotto giusto  in un mondo di ingiusti, che perdeva il senno per fare giustizia, Tom Hardy lascia questo compito alla sua controparte femminile : è un Max provato, stanco e in cerca di risposte, il suo ruolo è cruciale ma nessuno può rivaleggiare con la  forza d’animo di Furiosa. Privata di un braccio, truccata di cenere, forte come una leonessa che difende la prole e aiutata dalla sua forza d’armi tutta al femminile (ricordate la vecchia signora coraggiosa nel primo film che sparava in grembiule con il fucile?) presenta al cinema una nuova idea di eroina (in questo anche Megan Gale,  la Valchiria ha un certo peso). Fury Road, riprende le atmosfere fantasy dell’85, degli ultimi due film del “pazzo”, con più di 400 ore di girato, bisogna guardarlo consapevoli che tutto quello che si vede è quasi reale. Famosa è diventata la scena del bardo cieco che suona con la chitarra elettrica aggrappato come una marionetta a dei fili e sparato in velocità sul cofano del camion da otto cilindri che si muove a rotazioni di 360°. Tolto qualche filo di sicurezza, gli attori sono stuntman di loro stessi, truccati a pennello (letteralmente) e vestiti di stracci e pelle nera,  da sopravvissuti dell’apocalisse si buttano tra le fiamme e vengono ripresi con quella che il regista ha definito una “paparazzi camera” con zoom da 11.1. Tutto quello che Miller può far vedere lo fa vedere. E’ spietato senza distaccarsi dalla bellezza delle immagini e dalla poesia della musica cattiva di Tom Holkenborg, tra i brani il Dies Irae, il coro della morte. Nessuna sceneggiatura, solo disegni e storyboard per entrare nella storia con più dettagli visivi, le battute del film sono d’impatto e restano nella mente dalla prima schermata raggiungendo l’apice sul finale. Nel 1997 si era pensato ad un fumetto, con le idee cardine di quello che poi sarebbe diventato questo film,  ma non ha mai visto la luce. Miller realizza il suo sogno e mantiene la sua purezza di regista anni Ottanta, un film di ieri con i mezzi di oggi. La parola “capolavoro” è troppo abusata per poterla utilizzare liberamente ma la sensazione che si ha, da amanti del genere,  quando si lascia la sala è quella di non aver visto niente di simile nell’ultimo trentennio. ”Una splendida giornata” per il mondo del futuro.
 
Francesca Tulli
 
 

Revenant

Lunedì 18 Gennaio 2016 16:27
1823. L’esploratore Hugh Glass, vedovo e padre di un mezzosangue indiano, viene assunto come guida per una battuta di caccia alla ricerca di pelli e pellicce tra gli Stati americani di Montana, North Dakota e South Dakota. Tra i suoi compagni è quello che più di tutti conosce le vergini terre americane, in cui soldati, mercenari e cacciatori si inoltrano per scopi commerciali, provocando sanguinosi conflitti con le tribù indigene. Dopo essere stato brutalmente attaccato da un grizzly, Glass rimane in fin di vita. Fitzgerald (Tom Hardy), il più arrogante della compagnia, si offre di rimanere con lui e di dargli degna sepoltura quando sarà il momento, ma lo abbandona fra la vita e la morte dopo averlo derubato del suo bene più caro.
Tratto da una storia vera, il film racconta l’epica avventura di un uomo che cerca di sopravvivere nelle terre impervie di un’America inesplorata grazie alla straordinaria forza del proprio spirito. 
 
È difficile parlare di The Revenant senza accennare alla sua programmatica corsa agli Oscar. Il film di Alejandro González Iñárritu, fresco di 12 nomination, sembra pensato apposta per replicare lo straordinario successo di Birdman, vincitore di 4 statuette tra cui miglior film e miglior regia.  
Il personaggio di Glass è un vestito cucito su misura per il premio come miglior attore. Un’opportunità irripetibile - costruita ad hoc - per permettere al bravissimo Di Caprio di stringere finalmente fra le dita la prestigiosa statuetta, dopo 4 nomination andate a vuoto e la pressione di un'opinione pubblica che ironizza sulle sue vittorie mutilate. 
«Per quanto riguarda gli attori la malattia paga» commentò cinicamente il critico Gianni Canova dopo le vittorie dello scorso anno: Eddie Redmayne, miglior attore protagonista nel biopic su Stephen Hawking e  Julianne Moore, miglior attrice nel ruolo struggente di una donna malata di Alzheimer in Still Alice. 
Anche senza malattie e disabilità permanenti, Di Caprio mette il suo corpo a dura prova nella performance più difficile di tutta la sua carriera. Nell’arco dei 9 interminabili mesi di lavorazione l’attore ha rischiato più volte l’ipotermia a causa della temperatura di 40 grandi sotto zero  - motivo che ha spinto diversi membri della troupe ad abbandonare le riprese -, indossato pellicce di orso e d’alce dal peso di 45 kg, mangiato fegato di bisonte crudo e dormito nella carcassa di un cavallo morto. Il suo personaggio si limita per tutto il tempo a subire una serie di sfortunati eventi, come un cartoon che non muore mai; roba che in confronto quello di Sandra Bullock nello spazio profondo di Gravity sembra un tranquillo weekend a Pescasseroli. 
 
Ma il film è anche una vetrina espositiva per Iñárritu, irrefrenabile forza della natura, e il superbo direttore della fotografia Emmanuel Lubezki (Oscar per Gravity e Birdman).
In Birdman, attraverso il lungo piano sequenza simulato e un pragmatico uso di effetti digitali, il regista messicano era riuscito a ricreare il fascino illusorio ed inspiegabile tipico del cinema delle origini. Quella magia che non troviamo nemmeno nei blockbuster più pirotecnici, dove la spettacolarità è un trucco dichiarato che non lascia spazio alla fantasia. Davanti a quei virtuosissimi movimenti di macchina, nel buio della sala, ci si chiede spesso «Ma come cazzo hanno fatto?». Interrogativo alla base dell’essenza stessa del cinema e non troppo lontano da quello degli spettatori di fronte ai primi capolavori di Méliès. 
 
In The Revenant Iñárritu e Lubezki si spingono addirittura oltre; lasciano i Kaufman Astoria Studios di New York – dove si svolsero interamente le riprese di Birdman – per le location incontaminate di Alberta, Canada e Argentina, dove, seguendo l’influenza di Herzog, «filmano l’impossibile», sfruttando questa volta solo luce naturale. 
La macchina da presa, attraverso i fluidi long take, sta letteralmente addosso al protagonista, mentre il suo respiro appanna l’obiettivo e gli schizzi di sangue macchiano lo schermo. 
La lettura politica dei conflitti fra nativi americani e invasori europei e quella spirituale, legata agli inserti onirici di Glass vagamente Malickiani e al suo desiderio di vendetta, risultano complementari nella potente messa in scena del rapporto fra l’uomo e la natura; dove gli alberi - la natura -  protendono verso il cielo, come le frecce infuocate scoccate dai nativi, civiltà nettamente superiore dei mercenari colonizzatori – l’uomo - che invece strisciano al suolo come vermi. 
Una gioia per gli occhi e poco più.
 
Angelo Santini

Dunkirk

Domenica 27 Agosto 2017 21:26
Conclusa la ‘Strana Guerra”, tra il 26 maggio e il 3 giugno del 1940, le forze tedesche della Wehrmacht spazzarono via il corpo di spedizione inglese e le forze stanziali francesi, durante la battaglia di Dunkerque. Costretti ad una ritirata strategica, 400.000 uomini, vennero miracolosamente salvati. Quello che il regista Cristopher Nolan ha voluto farci conoscere (e ‘patire’) è la pena di questi soldati. Attraverso un accurato studio della storia recente, per oltre venticinque anni ha perpetuato una ricerca che lo ha portato a ‘Dunkirk’ la sua ultima encomiabile fatica. Tommy (Fionn Whitehead) giovane valoroso della British Army, costretto a fuggire da ogni situazione in attesa del “miracolo”, si ritrova ad allearsi con Gibson (Aneurin Barnard) coetaneo superstite a cui sembra toccata la stessa sorte. Condividendo una terribile corsa contro il tempo per assicurarsi un posto sulla nave ospedale, portano in salvo un altro commilitone Alex (Harry Styles) e con lui continuano questo viaggio disperato. L’anziano sognatore Mr. Dawson (Mark Rylance premio Oscar 2016), suo figlio Peter e un altro bambino suo amico,George, rispondono alla chiamata della Royal Navy e con la loro piccola imbarcazione civile, si spostano in mare aperto per aiutare i soldati a tornare in patria. Contro ogni pronostico, l’imbarcazione destinata alla deriva, porta il suo contributo verso un destino inaspettato. Il comandante Bolton (Kenneth Baranagh) e il suo secondo il Colonnello Winnant (James D’Arcy) coordinano i soccorsi da lontano, sperando nella buona riuscita dei piani di Churchill. Così come per terra e per mare si continua a lottare, in cielo, come avvoltoi su di una preda, tre Spitfire soccorritori Farrier (Tom Hardy), Collins (Jack Lowden) e il loro caposquadra (Cillian Murphy) volano senza tregua, nel mirino dei caccia tedeschi. Uno scenario su tre fronti diversi, tre linee temporali distinte (e a tratti confuse), la prima della durata di una settimana, la seconda di un mese, la terza di un’ora, concentrati in 106 minuti di pellicola. La matassa si sbriglia faticosamente, con l'increscevole ansia che l’accompagna. A fare da anestetico le splendide musiche di Hans Zimmer, balsamo per le orecchie, e gli incredibili effetti sonori. Degli Spitfire, a distanza di giorni, si possono udire gli spari al solo rievocare l’esperienza audiovisiva (si aprono scommesse sulla quantità di premi tecnici che questo film vincerà agli Oscar). La ricostruzione degli scenari è  visivamente ineccepibile, considerando che è stato girato nella vera Dunkuerqe e solo  in parte negli studi di Los Angeles. La forza visiva delle immagini soffoca  la sceneggiatura tanto che  il regista aveva perfino pensato di farne a meno, dissuaso poi in seconda battuta. Schiacciati dal peso della coscienza, con la sola colpa di essere vivi, i protagonisti quasi “anonimi” (o meglio “ignoti”) ci portano ad una riflessione più quotidiana sull’effettiva importanza dell’essere vivi. Come “Inception” (2010), strutturato a scatole cinesi, sfrutta l’autenticità del dramma per colpire il nostro immaginario. Estenuante e faticoso, come la guerra che racconta.
 
Francesca Tulli

Venom

Giovedì 04 Ottobre 2018 09:36
San Francisco. Eddie Brocke è un reporter d’assalto sagace e intraprendente, il cui scopo è portare alla luce alcune tra le notizie più scottanti della frastornata realtà cittadina. Frugando nel computer della fidanzata, casualmente scopre dei documenti su alcune morti ingiustificate all’interno del laboratorio di sperimentazione farmaceutica Life Foundation. Brocke decide subito di affrontare la questione di petto, sbattendola istintivamente in faccia durante un’intervista esclusiva al proprietario della società, il freddo Carlton Drake. Ma le cose si complicano, questa avventata mossa si rivela per il giornalista un passo falso recando con sé conseguenze avverse, tra cui l’immediato allontanamento dal posto di lavoro e la rottura con la ragazza. La credibilità della Life Foundation è una fortezza inattaccabile, troppo potente per venire compromessa da un giornalista squinternato. Tuttavia le feroci barbarie all’interno della Life F. tornano ben presto a galla, una stimata dottoressa del centro sperimentale ricontatta Brocke per denunciare una volta per tutte quel che accade all’interno dei laboratori.  Infiltratosi di notte all’interno della struttura, Eddie, oltre a scoprire le tremende gabbie utilizzate per contenere cavie umane, entra inaspettatamente in contatto con uno strano parassita, un viscido sembionte alieno, che finisce con l’insinuarsi nel suo corpo. Da questo momento in poi, la vita di Eddie Brocke subisce un drastico mutamento. Il Venom diretto da Ruben Fleischer, regista di Benvenuti a Zombieland e Gangster Squad, è molto diverso dal tipico film targato Marvel. Prima tra tutte le differenze che rendono questo lavoro anomalo e nettamente fuori dal coro, è la sua volontà di prendersi poco sul serio e di premere pesantemente l’acceleratore. Portare sullo schermo uno dei villain più amati e più conturbanti dell’universo fumettistico, precisamente il 22esimo più spaventoso nella lunga lista dei cento cattivi più terribili di sempre, non era affatto un’impresa semplice. Venom è un personaggio dal duplice aspetto, affascinante e allo stesso modo famelico, ed il suo stesso comportamento riflette un’immagine che diviene veicolo di violenza. L’incontenibile frenesia di questo essere, viene pertanto restituita dal film nel migliore dei modi, ricorrendo ad un montaggio ritmato e schizofrenico, una scarica di adrenalina che non lascia mai spazio a momenti di stasi. La scena dell’inseguimento in moto è tra le migliori di tutto il film, ricca di particolari e densa di tensione come da tempo non si vedevano all’interno di un lavoro Marvel. Tom Hardy dal canto suo, dona una sfaccettatura ironica e trasandata al personaggio di Eddie Brocke, dando vita a sequenze esilaranti, in alcuni casi ai limiti del delirio. Scattante, incontenibile e chiassoso, il lavoro di Fleischer è molto vicino ai classici film fumettistici di un tempo e piuttosto lontano da quel filone di titoli sci-fi di più recente realizzazione, nonostante abbia le medesime premesse. Ad alimentare questo aspetto, la scrittura dei dialoghi e di alcune scene orientate a gestire la tensione in modo crescente, come nei migliori action movies di vecchia generazione. Venom è un film che indubbiamente genererà divisioni e pareri contrastanti in virtù della sua natura bizzarra e stravagante. La stampa estera lo ha definito in più occasioni tiepido e confusionario, alle volte indigeribile. Il Venom interpretato da Tom Hardy infatti risulterà per molti altisonante e fuori dalle righe, ma forse questi non possono considerarsi  i veri e propri difetti del film. Una delle mancanze più inficianti è rappresentata invece dall’assenza di scene dall’impronta più brutale e splatter, indispensabili nell’incorniciare un personaggio quale Venom. Un limite imposto dalla Sony al fine di allargare le soglie di accesso alla visione del film ed escludere definitivamente il divieto ai minori.  Si tratta di un passo falso che non solo ha impoverito la sostanza e le atmosfere del film (sottraendole all’horror), ma che ha purtroppo edulcorato la figura di un villain sanguinario e brutale. 
 
Giada Farrace
 

The Bikeriders

Mercoledì 19 Giugno 2024 07:37
Il racconto scaturisce dalla viva voce di una delle protagoniste e ci trasporta all'interno di una banda di motociclisti. Il regista, assurgendo un punto di vista privilegiato come la groupie che segue la rockstar di riferimento e sa ogni più recondito segreto dell'artista, attraverso le parole di Kathy, facciamo la conoscenza di un gruppo affiatato di giovani nell’America degli anni 60. Hanno tutti il culto delle due ruote e hanno voglia di vivere ad alta velocità inseguendo la libertà che può dare la corsa in sella con il vento tra i capelli. Indossano tutti un giubbotto di pelle come scudo di protezione ad indicare la famiglia a cui appartengono e alla quale si giura fedeltà eterna.
 Cinema “on the road” dall’impianto classicheggiante il film si fregia di un cast di alto livello che ci coinvolge nelle scorribande, ci mostra il lato intimo dei vari componenti e ci racconta l’ascesa e il declino fino al disfacimento di chi aveva creduto al motto di "tutti per uno e uno per tutti" ma che soprattutto credeva che l’affiliazione potesse durare per sempre.
 Tratto dall’omonimo libro reportage fotografico di Danny Lyon, il film è una lunga intervista alla moglie (Kathy) del componente più carismatico della banda (Benny). Lyon ha esplorato in prima persona le storie e i personaggi del Chicago Outlaws Motorcycle Club, un gruppo di motociclisti dediti ad azioni criminose di cui lo stesso Lyon fece parte dal 1963 al '67, esercitando la figura di fotografo reporter con ampi spazi di manovra essendo stato per un periodo anche un membro effettivo. Nella finzione il gruppo di motocicli porta il nome di fantasia Vandals cucito sulle giacche di pelle e sui giacchini di jeans che sono la loro seconda pelle ed esplora le dinamiche che si instaurano tra i componenti. Il film insiste soprattutto su un triangolo (di un amore diverso da quello carnale) che coinvolge il leader fondatore del gruppo (Johnny) e il suo giovane adepto più carismatico (Benny) e la moglie di quest’ultimo (Kathy). Quando dalla passione per le due ruote si passa alla violenza fino a commettere omicidi ci sarà un bivio e una scelta che metterà in crisi l’amicizia ma spezzerà anche il sogno nel quale ci si era buttati a capofitto agli albori della storia. Metafora dell’America di quegli anni piena di contraddizioni ma dal fascino irresistibile come la vita di gruppo con i motori rappresenta per tutti i giovani del mondo alle prese con i sogni e le speranze di vivere una vita piena e memorabile.
 L’efficace fotografia di Adam Stone accompagna le imprese e le gesta di questo gruppo di bikers e le confessioni della donna in un’altalena di flash-back ben assemblati che non appesantiscono la narrazione riuscendo a mantenerla fluida e ricostruiscono fedelmente uno spaccato di vita in cui molti nostalgici si rispecchieranno. Un film che si immette nel solco lasciato da altre pietre miliari della cinematografia di genere da “Easy Rider” a “Il selvaggio” tornando a parlare di anni americani turbolenti e di un fenomeno che ha connotato gli anni Sessanta e lasciato uno strascico per le generazioni successive.  Un film che ha una sottotraccia nostalgico- malinconica come tutte le storie che si sono ammantate di miti e leggende e sono pervenute a noi per rimanere glorie epiche.
 Uno dei punti di forza del film è decisamente quello di aver scelto come narratrice principale una donna che ha nel bene e nel male deciso le sorti del gruppo per la sua influenza esercitata nei confronti di uno dei componenti più importanti della banda.
 Un plauso, infine, va indirizzato al reparto di costumi e acconciature del film per la meticolosa ricostruzione dell’epoca di ambientazione. Vedendo come sono vestiti e pettinati i personaggi siamo catapultati indietro nel tempo e ci sembra di rivivere quei meravigliosi anni densi di creatività e di follia contraddistinti dalla voglia di cambiare il mondo trasformandolo anche dal punto di vista estetico.
 
Virna Castiglioni