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Rester Vertical

Venerdì 20 Maggio 2016 15:57 Pubblicato in Recensioni
Rester Vertical ha aperto la competizione del Festival di Cannes 2016. E se il buongiorno si vede dal mattino, possiamo affermare che qualche nuvoletta di troppo quella mattina c’era. Non come nel meraviglioso cielo, che sovrasta le sterminate praterie della Lozère francese, dove il film ha inizio. Leo (Damien Bonnard), giovane sceneggiatore e regista, durante una scampagnata alla ricerca di un lupo, si imbatte nella giovane e carina Marie (India Hair). Il loro incontro esplode e fa scintille dal primo sguardo. Insieme hanno un figlio, che per lei subito dopo diventa ingombrante. Leo però è un giovane senza una fissa dimora e il suo andirivieni dalla città alla campagna fa nascere in Marie dei dubbi sulla sua persona. Lei lo lascia con il pargoletto da accudire. La vita, già un po’ stramba di Leo, si complica maggiormente. Succedono tante cose strane che mettono a repentaglio l’intera esistenza del ragazzo. Avvenimenti discutibili sotto la calda lente della società. Ci domandiamo: “Forse stanare quel lupo è stata una buona idea?” 
Negli intenti del regista Alain Guiraudie c’è proprio quello di andare a cercare quell’animale feroce per provocarlo e dimostrargli che si può rimanere in verticale (in tutti i sensi possibili), con orgoglio davanti a lui, qualsiasi sia il modo di approcciare la vita. Dimostrare di non avere paura per non farsi mangiare. Sbattergli in faccia, e il regista francese lo fa con scioccanti immagini: genitali in primo piano, un vero parto e un rapporto omosessuale, che la libertà di espressione è fondamentale e primaria nella vita di un individuo. 
 
Guiraudie, non alla prima presenza al Festival di Cannes, con il suo Lo sconosciuto del lago (L'Inconnu du lac), presentato nella sezione Un Certain Regard nel 2013, ha vinto il premio per la regia.
Diretto con mano ferma, l’autore posiziona la telecamera esattamente dove il suo occhio e il suo spirito voglio andare a parare. Oggetto di alta tecnologia che diventa un proseguimento di se stesso, il mezzo per farci capire quanto ci sia di autoreferenziale in questa sua nuova pellicola.
 
La pecca maggiore che possiamo imputare al film è quella di riempirsi fino all’accesso di situazioni bizzarre. Non c’era bisogno di traumatizzare all’eccesso. Scuotere fa bene allo spirito e alla mente, ma quando si riempie, nel vero senso della parola, un contesto con troppe esplicite provocazioni, lo spettatore si ritrova esasperato e in continuazione balzato dentro e fuori dal significato del film. Non che poi ci si senta vuoti, ma sinceramente un po’ depistati e costretti ad assistere a qualcosa che sembra essere prettamente autoreferenziale. Un sali e scendi che non aiuta a portare in porto quella che inizialmente sembrava un ottima idea. 
 
Non si può dimenticare di lodare la splendida fotografia del lungometraggio. Paesaggi che sembrano coccolare il povero Leo, che nel suo ferreo giustificare le proprie azioni, tramuta la sua figura in qualcosa di borderline: bamboccione o difensore della patria? Non si dovrebbe arrivare fino a questo punto.
Eccedendo si passa quasi dalla parte del torto.
L’agnellino tenuto in braccio nel finale davanti a lupi è chiaramente l’essere più innocente in balia del mostro. Come se Leo avesse in mano il proprio bambino, che non fosse altro che la versione in fasce di se stesso.
 
 
David Siena

Just la fin du monde - Fino alla fine del mondo

Lunedì 23 Maggio 2016 15:50 Pubblicato in Recensioni
Chi te lo fa fare di tornare a casa con una famiglia così? E’ la domanda che nasce spontanea rivolta a Louis (Gaspard Ulliel), scrittore di fama mondiale, che torna dai suoi cari dopo 12 anni di assenza, per annunciare la sua prematura dipartita. Comunità disperata, che si preoccupa di foraggiare il proprio essere, senza realmente avere a cuore il povero Louis, passivamente attaccato dalla madre Martine (Nathalie Baye), dalla sorella minore Suzanne (Léa Seydoux) e dal fratello maggiore Antoine (Vincent Cassel). Non ci vengono dati punti di rifermento spazio/temporali: nessun luogo né data, solo quattro mura, palco di un teatro dove viene messa in scena una vita con le proprie assurde regole. Una sorta di eterotopia, dove il mondo reale è lì fuori che ci guarda. Mondo che ha gli occhi sensibili e collaborativi di Catherine (Marion Cotillard), moglie del frustrato Antoine, elemento che permette allo spettatore di oltrepassare i muri pieni di ego ed entrare in sintonia con lo sfortunato letterato Louis. 
 
Gran premio della Giuria a Cannes 2016, Juste la fin du Monde conferma le potenti doti registiche del giovane ventiseienne Xavier Dolan. Tratto dalla piéce teatrale di Jean-Luc Lagarce, l’ultimo lavoro dell’autore canadese, del quale ha curato anche la sceneggiatura, è un film sull’incomunicabilità. Paradossalmente comunicativo nel saper parlare con l’anima e lasciare alle parole soltanto il compito di riempire uno spazio materiale. Inutili sproloqui davanti alla maestosità dei sentimenti. Forse un Dolan minore rispetto a Mommy e a Tom a-là Ferme, si lascia prendere leggermente la mano dal narcisismo. Non diventa comunque vittima di se stesso, confermando l’enorme talento nel trasmettere emozioni attraverso le immagini ed i suoni. La sua regia è intima, fatta di primi piani e di sguardi. Osservare per carpire le mutazioni del volto e degli animi, usando la colonna sonora come urlo, come grido di ribellione. 
Una direzione artistica in grado di farci sentire i sapori, gli odori, le attenzioni e le finte attenzioni. Senti quasi l’odore del sudore, del fumo delle sigarette, carpendo così il vero motivo per il quale Louis torna a casa. Ritorno che sa di voglia d’infanzia e d’adolescenza. Riscoprire le origini della propria sessualità in quella casa ora in decadenza, che per lui significa l’esatto contrario. Il proprio universo che riprende forma prima della fine del mondo.
 
Dolan è impeccabile nel conferire, a quelli che possono essere interpretati come momenti banali, una tale forza di partecipazione supportata da eccitazione e commozione. Durante il viaggio in aereo che lo porta verso la sua famiglia, Louis si imbatte in un bambino, che gli copre gli occhi da dietro il suo sedile. Fonte di disturbo che diventa un gesto semplice, ma pieno d’amore. Lo stesso ricco amore che ha per la vita, il quale non ha bisogno degli occhi per essere assaporato. Materialità sostituita da una sostanza che ha un legame stretto con l’eternità. Perpetuità del bene, che vorrebbe conferire ai suoi cari e magari averne un po’ in cambio, per arrivare alla fine della corsa felice come in quell’attimo di contatto tra il suo viso e le dolci mani di un infante sconosciuto.
 
Tra i momenti più sentiti della drammaturgia, due sono quelli che rappresentano al meglio quel senso di chiusura e di assenza d’intesa. Ad un certo punto ci accorgiamo che tutti sanno che tutti fumano, ma nessuno si vuol far vedere dagli altri. Nel dialogo tra Louis e la madre Martine, lei disfa e rimonta tutta la baracca delle loro vite, lasciando al figlio solo il respiro per respirare.
 
Il tempo è un altro elemento importante nella narrazione. Il poco tempo che rimane a Louis dà vivere è scandito dalle lancette di un cucù. Tempo che abbraccia quel senso di morte, che incombe su tutto il film. Tempo che viene concesso ad ogni membro della famiglia per confidarsi con il giovane scrittore, momenti pieni di sé che sembrano essere gettati al vento, per poi riscoprili fondamentali nelle scelte di Louis.
 
Juste la fin du monde in Italia uscirà il 1 dicembre. C’è ancora qualche mese da attendere per rivedere all’opera l’enfant prodige canadese, che come detto in precedenza, stupisce sempre, ma forse quel suo fossilizzarsi troppo sul suo proprio stile potrebbe portalo nella direzione di un nuovo Dorian Gray. Speriamo così di rivederlo in qualcosa di cool, ma allo stesso tempo terrorizzante e maledettamente pratico ed efficacie.
 
David Siena

Harmonium

Lunedì 23 Maggio 2016 15:43 Pubblicato in Recensioni
Meritatamente premiato con il Premio della Giuria nella sezione Un Certain Regard 2016 del Festival di Cannes, Harmonium ci porta all’interno di una famiglia giapponese qualunque, mostrandoci dove il male si annida contro ogni previsione, occultato da una facciata di perbenismo, sistematicità e di perfezione.
In un paesino, che non ci è noto sapere, si vive la vita nella sua abitudinaria routine. Ci viene mostrata la casa di Yosho (Kanji Furutachi) e della moglie Aike (Mariko Tsutsui), fotografia di una comunità perbene, che amorevolmente cresce la figlia insegnandogli le buone maniere e come svago lezioni di harmonium. Il pater familias gestisce, all’interno del proprio immobile, un’attività di stamperia meccanica. Ligio al dovere manda avanti il suo businnes da solo, fino a quando un vecchio amico bussa alla porta chiedendo un lavoro ed un posto in cui dormire. Il passato, dalle non chiare tinte di colore, torna a fargli visita. In un susseguirsi di colpi di scena, gli equilibri della famiglia verranno messi alla prova, per poi trovarsi di fronte un’amara realtà di difficile gestione. Scatole che si aprono in continuazione con al loro interno pezzi di un puzzle, che esige di essere completato. Perché tutto quello, che si è maldestramente seminato, esige un prezzo crudele da pagare. 
 
Il film è un cerchio di suprema precisione stilistica diviso in due differenti metà. Parti dello stesso universo, che compongono questa storia. Il cosiddetto primo tempo sviluppa la quotidianità, che mano a mano si carica di mistero, il secondo da spazio alla ricerca e alla gestione del senso di colpa. Il regista Kōji Fukada, che qui cura anche la sceneggiatura, rappresenta con spietata armonia un escalation di eventi credibili usando due distinti colori per raccontarli; il bianco e il rosso.
Dimostra notevoli capacità visive ed infonde un ritmo musicalmente cadenzato alla sua opera. Alza e abbassa i momenti di pathos nel film come in una sinfonia perfetta; spartito, che ha nel suo sviluppo soavi andamenti seguiti da altri distorti e dissestati. L’harmonium del titolo rimanda proprio a questo, ed assume anche altri differenti significati: strumento di crescita e apprendimento per la ragazzina ed armonia della classica famiglia giapponese.
 
Il cast è ben diretto e artisticamente all’altezza. Yosho è l’icona della conformità e della compostezza giapponese. Razionale e lontano dalla religione. Aike evidenzia la sua vergogna con gesti ossessivi. La colpa che ricade su entrambe è gestita in maniera diametralmente opposta.
L’amico Yasaka (Tadanobu Asano), mafioso della Yakuza, incute fin dal primo sguardo e da come è fotografato sulla locandina del film, un marcato timore. Sguardo penetrante e maligno.
 
All’interno del compiuto Harmonium troviamo anche un potente uso del linguaggio meta cinematografico, con due istantanee del prima del dopo. Ritratti di vita serena e di crudele e mutilato cercare (forse) di ricominciare.
 
David Siena
 
 
 
 
 

50 sfumature di nero

Giovedì 09 Febbraio 2017 19:01 Pubblicato in Recensioni
Che i libri di '50 sfumature di' fossero un fenomeno commerciale inarrestabile grazie alla formula magica "principe azzurro+donna emancipata+sadomaso" lo sapevamo dal 2011 quando E. L. James casalinga inglese stanca della routine trovò un editore per il primo dei suoi quattro libri fortunati. Furba e in anticipo su tutti gli altri cambiò i nomi di personaggi principali alle sue fan fiction su Twilight e da Edward Cullen inventò Mr. Grey l'uomo che non deve (o quasi) chiedere mai...biondo occhi azzurri, ricco sfondato da far invidia a Bruce Wayne, scapolo d'oro e con un piccante segreto...la ‘camera rossa’ dei giochi dove “scopa forte” le sue sottomesse con i suoi attrezzi sadici. Tutto scritto in prima persona attraverso gli occhi della povera e innocente Anastasia Steele, la ragazza semplice che gli insegna ad amare. L'adattamento del secondo volume, Cinquanta sfumature di Nero del regista James Foley, sfida la nostra pazienza e si affretta a scalare la vetta degli incassi al botteghino anche in Italia. Facilmente si può intuire perché un film del genere può avere una così grande risonanza nonostante gli inutili avvertimenti della critica, viene da domandarsi cosa il pubblico vuole veramente vedere. Cerchiamo di risolvere questa matassa. Abbiamo lasciato alla fine del primo film, la protagonista 'Ana'-stasia (Dakota Johnson) delusa dalle abitudini da pervertito di Christian Grey (Jamie Dornan) dopo aver ricevuto qualche frustrata consenziente. La ritroviamo a lavorare in una casa editrice alle dipendenze di un capo belloccio che le fa la corte (la protagonista gode di questa abilità di far cadere tutti ai suoi piedi: non cerchiamo di trovarci un perché, è una regola non scritta). Mr. Grey le propone di ricominciare da capo, senza che la loro relazione sia vincolata da contratti ridicoli (che stabilivano quali pratiche sessuali potevano consensualmente praticare sotto le coperte, per fare un esempio esplicativo “frustate si ma fisting anale no”) deciso pur di stare con lei a rinunciare al suo ruolo di “Padrone” ed abbracciare la prospettiva di una relazione normale o come piace chiamarla a lei “alla vaniglia”. Il tutto trasforma la vicenda pseudo trasgressiva nel sogno adolescenziale o no di curare “una povera anima ferita” senza rinunciare al sesso e alla propria indipendenza. La colonna sonora ospita per la prima volta nuovi brani commerciali blasonati per ragazzine, che vengono lanciati durante le scene più hot, come le pubblicità pagate miliardi nelle pause di Sanremo. Quello che lo share vuole vedere è questo, ridere di una storia frivola, svagarsi, appagare il senso di trasgressione guardando un film innocuo che passa per ‘proibito’, dove le scene di sesso (aumentate rispetto al primo) sono adatte ad ogni tipo di pubblico maggiorenne (o quasi) patinate e sfiziose quanto basta, con la giusta dose di attori bellocci e romanticismo da cartolina. Non è perciò difficile intravedere la pochezza che si cela dietro un simile prodotto.  
 
Francesca Tulli