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American Sniper

Sabato 03 Gennaio 2015 14:00 Pubblicato in Recensioni

Philip Zimbardo è un ricercatore, ormai anziano, che, nel 1971 mise in piedi un esperimento psicologico, presso l’Università di Stanford, divenuto infatti celebre come l’esperimento di Stanford.

Gli sperimentatori misero un annuncio sul giornale per reclutare volontari. Fra tutti coloro che risposero all’annuncio venne selezionato un gruppo di 24 ragazzi, tutti maschi, quelli ritenuti maggiormente equilibrati e meno inclini a comportamenti aggressivi. Vennero collocati in un ambiente che riproduceva quello di una galera e divisi, in modo casuale, in due gruppi: detenuti e guardie, ciascuno con una propria divisa.
L’esperimento andò ben oltre ciò che Zimbardo e i suoi volevano dimostrare (il processo di deindividuazione) e dovette essere interrotto, dopo alcuni giorni, per la brutalità di alcune guardie, in particolare una di queste, soprannominata John Wayne.
La guerra, per Clint Eastwood, è affine, in fondo, all’approccio situazionale di Zimbardo, quello secondo il quale il contesto è tutto e l’uomo, con la sua presunta autonomia decisionale, nulla, o quasi. Lo stato eteronomico in cui versano i combattenti, in un ambiente caratterizzato praticamente solo dalla presenza della guerra, senza che vi sia nulla di riconoscibile al di fuori del campo di battaglia, è indotto da dinamiche di gruppo che la psicologia conosce benissimo. 
Specialmente in situazioni estreme, come quelle belliche, è il gruppo a definire regole alle quali attenersi e modalità: la sicurezza, la coesione come alibi della responsabilità individuale, la scarica elettrica permanente.
E dunque, senza prestare troppo il fianco a critiche ideologiche, quasi sempre un po’ pretestuose, Clint prende un bovaro che si crede cowboy, lo piazza un po’ davanti alla tv con tutta la sua diretta perenne, la sua retorica patriottica ecc. ecc. e lo fa volare, dopo doveroso addestramento, non tanto diverso da quello ricevuto dal padre, nel pieno della guerra irachena. E comincia il videogioco, dove fa più punti chi fa saltare in aria il maggior numero di persone, mentre qualcun altro, dal quartier generale, controlla, con il joystick, le operazioni e si rammarica il giusto se qualche pedone va perduto. L’importante è sempre e solo il punteggio finale. E infatti i pedoni marciano, senza naturalmente sapere dove e perché, con in tasca un telefono rudimentale o un anello sul quale si è riusciti a spuntare un buon prezzo, procedono in ordine crescente di importanza, alcuni più sacrificabili di altri, tutti riuniti in una rivoltante famiglia che non ha ragione di esistere senza un nemico oggettivo. 
I nemici, dal canto loro, sembrano invece non esistere: la loro voce non c’è o deve essere tradotta per rendersi comprensibile. I nemici sono i cattivi che, nel videogioco, vanno semplicemente abbattuti in una gara di machismo (chi piscia – o spara, fuor di metafora – più lontano) che fa basire circa le possibilità di sopravvivenza della nostra specie. 
Qualcuno muore, carne da macello, di qui e di là, con soldati che sanno sempre meno cosa stiano cercando e bambini ai quali va di lusso se riescono a posare per tempo i lanciarazzi. 
Poi si spegne la playstation e il rumore sordo degli scoppi risuona negli orecchi dei reduci che vedono, nella tv ormai spenta, solo il riflesso del proprio volto anonimo, uguale a quello di tutti gli altri, anche dei presunti nemici. Allora ci si accorge che l’unico nemico sta nell’insensatezza di ogni guerra, nelle macerie umane che lascia in giro, grumi dolorosi e silenti che, incapaci di comprendere/reagire, cercano, nella retorica del macabro amarcord, una via di salvezza, oppure sparano, nel buio della coscienza post-traumatica.
E come sempre, in questi casi, le bandiere servono solo ad avvolgere le bare. 
 
Se dal punto di vista strettamente cinematografico, Eastwood involve in una narrazione troppo frammentaria (e con un montaggio discutibile), il messaggio, filtrato attraverso la coralità delle voci dei commilitoni, e non delegato al solo protagonista, piuttosto rozzo e miope, poco autoconsapevole, se non in rari momenti, resta fieramente antibellico, come la scena della tempesta di sabbia, con la sua indotta cecità, esemplifica: una mano è una mano.
Si sarebbe potuto dire di più e dirlo meglio.
Si sarebbero potuti costruire caratteri meno granitici, soprattutto quelli che restano, che attendono, specchi ancora più impotenti: penso alla moglie del protagonista, le cui uniche linee di comunicazione sono il pianto o la battutaccia. Si sarebbe potuta creare una sinfonia di racconti che non rimandassero unicamente all’american dream infranto in un nightmare a occhi aperti, nel quale dio non si sa dove sia (certo non nella bibbia, tenuta sul petto, neppure utile a fermare un proiettile), la patria ti manda a crepare e la famiglia, anche se amorevole, non basta a salvarti. Si sarebbe potuto evitare il bullet time, abbastanza straniante o, per meglio dire, fuori luogo, in un contesto simile, a meno di non tenere davvero per buona l’estetica da videogame a cui accennavo prima, nel qual caso troverebbe il suo perfetto significato. Si sarebbe potuto, sì.
Tuttavia, al netto delle ipotesi, American Sniper resta un’opera dolorosa e affatto conciliante, più complessa della sua apparenza nazionalistica, da metabolizzare. 
 
Ilaria Mainardi

Gone Girl - L'amore bugiardo

Domenica 21 Dicembre 2014 12:42 Pubblicato in Recensioni
In principio fu il dubbio, e, caso fortuito, un paio di enormi dubbi danno avvio a Gone Girl – L’amore bugiardo, il cui titolo italiano, lo stesso del libro di Flynn Gillian dal quale la sceneggiatura è tratta, rischia di spiegare troppo e, allo stesso tempo, di fuorviare lo spettatore.  
Infatti, quando ho cominciato a leggere, nel post-visione romano, per i fortunati che poterono assistervi, che stavamo parlando di un capolavoro senza pari, il miglior Fincher di sempre, le cui intricate vette drammatiche lo rendevano assimilabile addirittura a Vertigo, mi sono irrigidita un bel po’, a causa di una certa tendenza critica contemporanea a bollare come masterpiece una quantità statisticamente troppo alta di lavori.
Ferma sull’irrigidimento di cui sopra, ho deciso di leggere il libro dal quale il film di Fincher è tratto e l’ho trovato letterariamente non eccelso, per quanto assai godibile, come lettura disimpegnata. Lo spunto è interessante, curioso, ma accompagnato da una scrittura a tratti psicologicamente semplicistica, con alcuni personaggi e snodi, o troppo manichei o schiacciati dalla mera funzionalità narrativa: un nodo scorsoio che si stringe sempre di più intorno al collo di Nick, almeno fino al repentino, troppo, colpo di scena. 
Poteva Fincher fare il miracolo? Poteva far diventare una storia di provincia a tinte fosche un saggio, invece, sulla foschia dell’anima, americana o meno che sia? Amy la stronza poteva diventare altro da uno stereotipo e Nick, lo scemo fedifrago che si dichiara – non qui, per fortuna – innamorato di una che lui stesso definisce, quasi testualmente, una bambola gonfiabile vivente, pure? Ebbene sì, a mio avviso David Fincher ha fatto il miracolo, realizzando quello che ritengo il più bel film dell’anno insieme a Maps to the Stars.
Gone Girl è (bello) come Millennium, altro “thriller” umanista che della trama thriller, in senso stretto, se ne frega ben presto.
E sfaterei anche subito l’accusa di misoginia, da più parti mossa, riguardo gran parte della produzione dell'autore statunitense.
Il fatto, per come la vedo io, è che siamo nella zona di The Truman Show, e gli attanti sono Barbie e Ken. Ma non Barbie e Ken perché bambolotti disumanizzati, tutt’altro. Amy e Nick sono umanissimi, veri e concreti, ma filtrati dalle tinte pastello o rosso sangue di uno show che ingloba tutto e tutti. E lo sono sempre, prima, durante e dopo i fatti, in una creazione straniantemente biomeccanica: nelle immagini leziose di Mitica Amy, sublimazioni di una nevrosi, nella casetta rosa antico (e celestina, quella del padre di lui), negli amplessi di legno e con gli abiti addosso, nella gestualità flessuosa, da ballerina carillon, di lei, o incespicante e rigida, da gaffeur quale in effetti è, di lui. Sono l’uomo e la donna per i quali i quindici minuti di celebrità sono diventati paradigma di vita, non per scelta, almeno in parte, ma in quanto esseri partoriti nella e dalla società dello spettacolo: finta, malevola, esteriore, manipolatoria. Come Amy, come loro. 
I coniugi e i personaggi che contornano le loro esistenze in salsa cocktail entrano e escono dall’inquadratura, spesso, come se si trovassero su un palcoscenico teatrale, in lotta per contendersi una battuta più lunga, da declamare sul proscenio, restii a tornare dietro le quinte, a meno che non lo possano fare in uno scroscio di applausi: “Elvis ha lasciato il Missouri”.
Costantemente consapevoli di essere inquadrati o ascoltati, solo talvolta capaci di usare l’immagine per inventare mondi, costruirsi alibi, apparire migliori di quanto non siano. E se invece fosse l’immagine a usarci, sempre?
Amy sembra conoscere la risposta, ma solo al suo livello di cerebrale calcolatrice, e infatti nulla può contro la sete di sangue degli squali-ladri che incontra durante la latitanza forzata. Invece la risposta la sa Nick che le mani se le sporca meno, in senso proprio, ma non è meno infido, violento, anche, in un finale che nel libro assume quasi i toni di un armistizio moralista, prima, e di una dichiarazione di vittoria su tutti i fronti di Amy, nelle ultime battute. Qui no, qui i mostri non si giudicano e non vincono, piuttosto si alleano, creandone altri, scovandoli nella loro bonaria apparenza provinciale. Nello splendido lavoro di Fincher, il cui contributo alla sceneggiatura della stessa autrice Flynn è sostanziale, almeno nell’esito, l’ultima parola spetta a Nick, nel nero dell’immagine, solo apparentemente già svanita, ed è una dichiarazione esplicita di complicità: finché morte non li separi.
 
A margine: splendida Rosamund Pike, nel ruolo mattatore, o così il suo personaggio crede che sia, ma, tenuto conto dei limiti performativi che più volte sono stati osservati, la mia sorpresa è stata Affleck, sfumato, dolcemente goffo, mascalzone e ironico al punto giusto, capace di lavorare, cosa non facile, in senso anche metacinematografico  (cosa il pubblico vuole vedere, da sempre, in Ben Affleck se non il bisteccone bonazzo e un po’ impacciato, al di là dei notevolissimi meriti di regista e sceneggiatore?). Per me, è quasi amore.
 
Ilaria Mainardi

Big Hero 6

Venerdì 19 Dicembre 2014 13:46 Pubblicato in Recensioni
"Noi siamo nerd che vanno ad una scuola per nerd" così si definisce il team di protagonisti del film d'animazione 3D "Big Hero 6" e questa premessa non potrebbe essere più buona. La Disney omaggia, un omonimo fumetto poco conosciuto della Marvel del 1998 con una rivisitazione strabiliante della vicenda. Hiro (da Hero=Eroe e Hiro=Nome comune giapponese) è un ragazzino di quattordici anni, a cui piace giocare sporco nei combattimenti clandestini tra robot, nella sfavillante San Fransokyo, commistione perfetta tra le due metropoli che ne compongono il nome- Tadashi suo fratello maggiore, è un genio della progettazione, dedito al bene comune e alla creazione di Baymax un operatore sanitario personale robot, rivestito da  una soffice pancia gonfiabile. Progettato per essere "rassicurante e coccoloso" Baymax è tondo, tenero, goffo, lento nei movimenti (almeno senza preparazione "atletica") è un capolavoro di gentilezza artificiale ed è l'amico che tutti i bambini vorrebbero, senza nulla togliere agli altri sei eroi in carne ed ossa che strizzano l'occhio a grandi dell'animazione giapponese (come Osamu Tezuka, Matsumoto e Toriyama) e classici della fantascienza americana come Tron e Iron Man (ma il più speciale resta Fred il capellone del gruppo e la scelta del suo costume da Kaiju anni 50). Questi riferimenti di genere, potrebbero essere troppo specifici per chi non è della materia ma il film è davvero "per tutti". La trama è classica ma ben strutturata, c'è un nemico comune che indossa la maschera del teatro Kabuki, apparentemente facile da "smascherare", e un gruppo di eroi "per caso" ma la vera forza del film sono gli equilibri tra le emozioni che suscita in un pubblico non troppo giovane o adulto c'è il dramma, la tenerezza, la rivincita del più (apparentemente) debole, fa sentire il calore della  forza di un abbraccio quando tutto sembra perduto, commuove, fa riflettere, e al momento giusto ridere. Il team di registi Don Hall e Chris Williams, con il supporto degli animatori di  Ralph Spacca Tutto e Frozen, riescono a superare i due precedenti lavori di successo, creando una storia più complessa e matura, se le principesse di Arendelle Elsa e Anna, incarnavano l'archetipo dell'amore tra sorelle, questo approfondisce quello tra fratelli, senza  però sprecare nessuna occasione per esigenze di copione, di Ralph ne conserva il valore citazionistico (il film è The Avengers incrociato con Totoro e mille altre cose) e a questo proposito, non lasciate per nessun motivo al mondo la sala fino alla fine dei titoli di coda.
 
Francesca Tulli
 

Storie Pazzesche

Mercoledì 17 Dicembre 2014 23:49 Pubblicato in Recensioni
L'ultimo film prodotto dai fratelli Almodovar e firmato dall'argentino Damiàn Szifron è il matrimonio ufficiale tra il black humor ed il guilty pleasure, un mix che solletica le fantasie più scomode di ognuno di noi portandole in scena con effetti catastrofici. È come imbattersi in uno specchio e sorprendere a tradimento il proprio profilo peggiore, mortificante ed intrigante allo stesso tempo, almeno quanto le più scandalose iniziative prese sotto stato d'ebbrezza. 
Storie pazzesche esordisce con un micro episodio di 6 minuti in cui si ravvisa subito un concentrato di esilarante genialità costruito ad hoc. Un piccolo cortometraggio autonomo e perfettamente compiuto, una felice mossa produttiva che ha sedotto anche il pubblico del web, trascinandolo al cinema con un'efficacia da trappola per topi. 
Perché Storie pazzesche funziona, alla grande e senza riserve. Il meccanismo del gioco si intuisce dopo appena qualche minuto, poi non resta che accettarne le regole e gustarsi lo spettacolo. Finalmente torna in sala uno spettatore intrattenuto e divertito. L'effetto domino si ripropone in tutti gli episodi del film, ma puntualmente l'escalation di comportamenti deliranti dei protagonisti lascia basiti. Una comicità tanto schietta, persuasiva e ben ragionata da farsi complice lo spettatore mentre gli si insinua nella mente: "dai, non dirmi che in fondo non vorresti farlo anche tu".
Una lite tra automobilisti, un malavitoso che entra nella tavola calda sbagliata, un padre di famiglia che inizia una guerra contro l'amministrazione, una giovane sposa appena tradita. Come una raccolta di novelle sulla degenerazione degli impulsi più selvaggi, il film racconta con goliardia e schiettezza una società in cui tutto può capitare a tutti, ma soprattutto in cui subire un'ingiustizia può far perdere il controllo in un attimo. Questo abile lavoro si dimostra un ritratto a tinte psichedeliche dell’istintività umana, dei suoi raptus di follia, delle reazioni meno nobili e dell’innato ed innegabile desiderio di vendetta.
Szifron realizza un cocktail di vicende anomale, sostenuto da una regia estremamente fluida e da una sceneggiatura più che robusta. La chiave vincente è una comicità grottesca che non dimentica mai di prendersi sul serio: i personaggi scoppiano uno ad uno ma il film non li deride. C’è una sorta di solenne rispetto nei confronti di queste schegge impazzite, ben distante dalla parodia o dalla gag. La sapiente calibratura del sistema di fascinazioni, tensioni e suspense dei singoli capitoli è una delle operazioni più riuscite dello sceneggiatore-regista. Come un grande comico supportato da una grande spalla, Szifron insieme al suo cast artistico sente il pubblico, ne prevede le reazioni e gestisce i tempi comici modulandone sempre l'intensità. Un dosaggio perfetto di tutti gli elementi: eccessivo senza mai nauseare. Allucinato ma profondamente onesto.
Storie pazzesche è il film su tutti quegli insospettabili vicini di casa che sembravano delle persone così per bene, eppure.
 
Chiara Del Zanno