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Cloro

Lunedì 16 Marzo 2015 15:45 Pubblicato in Recensioni
Jenny (Sara Serraiocco) ha 17 anni e sogna di diventare una campionessa di nuoto sincronizzato, ma la morte improvvisa della madre sconvolge il destino della sua famiglia e la ragazza è costretta a farsi carico del fratello minore e del padre profondamente depresso. 
I tre si trasferiscono da Ostia, la sovraffollata spiaggia di Roma, a Passo San Leonardo, picco desolato dell'Appennino abruzzese, dove lo zio (Giorgio Colangeli con un inedito accento abruzzese) gli mette a disposizione una baita. 
Abbandona la scuola e si trova un lavoro come cameriera all'Hotel Splendor, per far fronte alle ristrettezze economiche della famiglia dopo il licenziamento del padre.
Come un anfibio (dal greco amphi-bios, “dalla doppia vita”), il cui ciclo vitale prevede che almeno una parte della vita venga trascorsa in acqua, Jenny giunge, più o meno gradualmente, alla metamorfosi dallo stato larvale dell'adolescenza alla consapevolezza della vita adulta. 
 
La situazione di fondo è un tema intramontabile: bambini precocemente responsabilizzati che si trovano a fare da genitori agli adulti stessi, persi nelle loro nevrosi. Quindi, la fine dei sogni e dell'adolescenza, sterilizzati dal cloro, il cui odore però è difficile da mandare via. 
 
I movimenti di macchina sono subordinati a quelli dei personaggi, in particolar modo a quelli di Jenny, che il regista Lamberto Sanfelice pedina nel suo passaggio fisico e interiore, dal litorale romano alla vita montanara; percorso inverso rispetto alle migrazioni del ‘900, spesso partite dall’Abruzzo in cerca di una vita migliore a Roma. La macchina da presa rimane le rimane addosso, a discapito dei possibili stimoli visivi che la provincia abruzzese ha da offrire, quelli di una terra ancora in fase di ricostruzione. La simmetria visiva nella dicotomia fra i due mondi ne esce squilibrata, anche se l'immagine speculare  della protagonista appare, in maniera un po' scontata, su qualsiasi superficie riflettente nel corso del film.
 
Nelle paesaggio sconfinato, ma allo stesso tempo claustrofobico delle montagne, il richiamo dell'acqua è più forte di ogni cosa. La piscina dell'albergo diventa il luogo dei segreti allenamenti notturni di Jenny e il nido del suo amore clandestino con il custode Ivan. Il loro amore si consuma sempre lì, nell'acqua, come la riproduzione di quasi tutte le specie anfibie.
 
Il contesto socioeconomico è solo accennato. La disoccupazione e il dramma degli sfratti, che segnano il passaggio della famiglia, rimangono denunce implicite. Mentre la televisione sempre accesa, che fa da tappeto sonoro nei momenti casalinghi, è una presenza distante, non un modello patinato di successo come in Corpo celeste di Alice Rohrwacher, piuttosto un testimone indifferente del dramma familiare.
 
Nella sua opera prima Sanfelice soffre dell'ambizione comune a molti registi italiani della sua generazione, ovvero, la ricerca ostinata del dramma intimista, dove tutto è ovvio ed evidente, dove si piange con il personaggio che piange e si ride con il personaggio che ride, tra la nobile autoralità europea e lezioni un po' mistificate di un proto-neorealismo desichiano. Il regista punta sull'immedesimazione più che sull'originalità nella mise en scène di una condizione già sviscerata da molti autori prima di lui.
 
Il pater familias che vaga completamente nudo fra la neve, ad esempio, ha uno straordinario potenziale grottesco inespresso. Così come quell'ipocrita e superstiziosa provincia abruzzese, rappresentata dallo zio e dal prete di paese, che pensano di curare la depressione del padre con la clausura in convento. Ma Sanfelice sceglie di prendersi (troppo) sul serio e non sempre riesce a raggiungere i picchi di intensità dei suoi predecessori. Mi torna in mente Anche libero va bene (2005) di Kim Rossi Stuart, anch'essa opera prima, crudo dramma familiare sulla differenze di sguardi tra padre e figlio. 
Così il film è solo uno dei tanti titoli che fa il gioco di chi, un po' superficialmente, divide il cinema italiano in “solo morbosi drammi dalle ambizioni autoriali o solo commedie scollacciate”. 
 
Proiettato alla Berlinale e unico titolo italiano selezionato al Sundance Film Festival, Cloro è nelle sale dal 12 marzo distribuito da Good Films. 
 
Angelo Santini

Rassegna Internazionale del Cinema Archeologico

Giovedì 12 Marzo 2015 11:39 Pubblicato in Concorsi
Scadenza Bando: 20 aprile 2015
 
Nei giorni dal 6 all'10 ottobre 2015 la Fondazione Museo Civico di Rovereto, in collaborazione con la rivista Archeologia Viva, organizza la 26ª edizione della Rassegna Internazionale del Cinema Archeologico. 
La partecipazione alla Rassegna è aperta a tutte le produzioni nel settore della ricerca archeologica, storica, paletnologica, antropologica e comunque aventi come scopo la tutela e la conservazione dei beni culturali.
 
Ai fini dell'ammissione si privilegiano le recenti produzioni cinematografiche e le opere che contengono argomenti attinenti al tema 'Le grandi civiltà: le nostre origini'.
 
Tutti i film ammessi alla Rassegna concorreranno al Premio "Città di Rovereto-Archeologia Viva", rappresentato da una colonna ionica artisticamente lavorata, attribuito dal pubblico attraverso la compilazione di una scheda consegnata nel corso delle proiezioni. 
 
Nella stessa edizione viene bandito anche il XII concorso biennale 'Premio Paolo Orsi' assegnato da una giuria internazionale.
 
La scheda di partecipazione alla Rassegna viene inviata a tutte le case di produzione in archivio, a chi ne abbia fatto richiesta all'organizzazione della Rassegna, a tutti i festival europei ed extraeuropei, e inoltre sarà scaricabile on-line dal sito del Museo Civico.
 
Il termine per l'invio delle schede di adesione è stato fissato al 20 aprile 2015.
 
 

Automata

Mercoledì 11 Marzo 2015 11:22 Pubblicato in Recensioni
La realtà di Blade Runner era una caccia alle streghe, ai replicanti difettosi, controllati dall'istinto di provare emozioni pericolose e fin troppo umane. I padri della fantascienza di genere come Philip K. Dick, hanno generato involontariamente capolavori indiscussi e disastri dimenticabili, al cinema abbiamo visto fin troppe volte la stessa minestra, robot che si ribellano al genere umano, salomonici conflitti irrisolti di  registi che puntano a sorprendere con l'effetto speciale più che cercare di dare un punto di vista differente.
Asimov scrisse agli inizi degli anni quaranta le tre leggi della robotica. Nella realtà di Automata immaginata dal regista spagnolo Gabe Ibanez, al suo secondo esordio cinematografico, ci sono solo due regole che permettono la convivenza dei robot con gli esseri umani : le intelligenze artificiali non possono nuocere a nessuna forma di vita e non possono modificarsi o modificare i propri "simili". In una città fatiscente, post apocalittica Jacq Vaucan (un post atomico Antonio Banderas), assicuratore per la ditta ROC che produce gli automi,  è il classico  "giusto in un mondo di ingiusti" ma il disordine  persevera  e gli umani scaricano le proprie colpe  sui  robot di casa, indifesi capri espiatori di frustrazioni e silenziosi spettatori di crimini di ogni tipo. Davanti a un incredulo poliziotto, un rottame senza padrone in un sudicio capanno dei bassifondi, senza una apparente spiegazione, comincia a ripararsi da solo contravvenendo alla legge e agendo di propria coscienza come non sarebbe  possibile. Da questa insurrezione si scatena il caso che genera il caos e una ossessiva ricerca della verità da parte del protagonista che è, come spesso accade, diviso tra il dovere e la famiglia. Questo film sembra attingere da storie già scritte, tematiche già affrontate, scenari già visti, cliché superati, ma sorprende: pulito, semplice, logico, genera riflessioni interessanti, passando dal "già visto" al "classico" in pochi passaggi. In un deserto di novità, sotto il sole cocente di un panorama fantascientifico sterile, vedere un Banderas arrugginito che arranca nel deserto con quattro automi in cerca di risposte smuove domande sul cosa significa essere vivi e funziona. Bellissima la robot prostituta Cleo (Fritz Lang l'avrebbe forse accolta in Metropolis)  giocattolo erotico modificato per soddisfare il bisogno di violenza del bipede uomo, Eva, madre, femmina e strumento di vita per una società senza futuro. Quando ci ritroviamo davanti un'opera  come Automata il pericolo di trovarci a combattere con la noia è quasi una certezza ma questa sfiducia  ci permette di apprezzare una pellicola ben riuscita senza pretese con effetti visivi efficaci, dimostrazione che anche con un basso budget si può plasmare uno scenario credibile dove i robot piangono lacrime di metallo e gli uomini sperano di dimenticarsi cos'è la violenza.
 
Francesca Tulli
 

The Search

Martedì 03 Marzo 2015 11:48 Pubblicato in Recensioni
Dopo il sorprendente omaggio al cinema muto con The Artist, che gli procurò l’Oscar come miglior regia nel 2012, il regista francese Michel Hazanavicius riparte da zero con un film umanitario in quattro lingue, sullo sfondo della seconda guerra cecena.
Ispirato a The Search di Fred Zinnermann (Odissea tragica, 1948), Hazanavicius se ne discosta quasi subito, ampliando la dimensione del suo film attraverso molteplici punti di vista.   
Hadji, un bambino di 9 anni, fugge dal suo villaggio dopo la brutale esecuzione dei genitori ad opera dell’esercito russo. Fra le macerie di un paese distrutto incontra Carol, capo delegazione dell’Unione Europea, con la quale stabilisce un profondo legame, pur parlando una lingua diverse. Nel frattempo Raissa, la sorella maggiore, lo cerca disperatamente fra la folla di civili messi in fuga. 
Infine c’è Kolia, ventenne russo, che, a causa di piccoli problemi con la legge, viene costretto ad arruolarsi nell’esercito, dove conosce la quotidiana brutalità della guerra. 
Nell’esercito russo i militari non hanno un vero addestramento, che non consista nel contagioso sadismo dei propri superiori. L’ambiente rappresentato da Hazanavicius è una sorta di “animal factory”, dove a sopravvivere è il più brutale. Un ingranaggio che può stritolare la gente e trasformala in assassini, tra Full Metal Jacket e Primo Levi. 
Abolita ogni reticenza, Kolia è obbligato a rovesciare ogni valore civile e morale, prendendoci rapidamente gusto. 
 
Il percorso del bambino è l’esatto opposto di quello del soldato. Hadji passa dalla morte di un mondo in rovina alla vita sociale, mentre Kolia dalla vita sociale alla morte, guadagnandosi però il rispetto dei propri superiori.  
Quello che se ne ricava è il totale fallimento di ogni forma di istituzione: da un esercito russo efferato ma totalmente allo sbando, a un’Europa profondamente distratta e priva di effettivi contatti con la realtà. 
Nel rapporto fra Hadji e Carol la questione che si pone è proprio  quella del ruolo degli occidentali e della complessità nell’accettare il dolore altrui. 
“Quale deve essere il nostro atteggiamento, la nostra empatia?” si chiede il regista. 
L’incontro con il bambino spinge la donna a rifondare la sua militanza dal basso. Forse è più importante occuparsi di Hadji che salvare tutta la Cecenia nel nome di un Parlamento Europeo che non vede (o non vuole vedere) più in là del suo naso. 
 
Il film funziona piuttosto bene, almeno fino a quando il dramma nazionale - costellato di reminiscenze, più o meno consapevoli, del genocidio degli Ebrei - lascia troppo spazio al dramma familiare del triangolo Hadji- Carol- Raissa e le istanze umanitarie del regista diventano un po’ ingombranti. Nella prima parte invece sono quasi sempre le immagini a parlare e quelle ambientazioni che rappresentano, di volta in volta, una perfetta allegoria dello stato d’animo dei personaggi; come quando Hadji, affamato e spaventato, si trova a vagare senza meta precisa nella desolazione della città distrutta insieme ai cani randagi che fiutano fra le macerie cercando qualcosa da mangiare. 
Un film importante, che riporta alla luce le stragi di un conflitto rimosso rapidamente dalla memoria collettiva (sempre che ne abbia mai fatto parte).
 
Angelo Santini