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Il Caso Spotlight

Sabato 12 Settembre 2015 16:35 Pubblicato in Recensioni

Il Caso Spotlight di Tom McCarthy (L’Ospite Inatteso – 2007), presentato Fuori Concorso alla Mostra del cinema di Venezia edizione 72, è un film legato indissolubilmente al cinema hollywoodiano degli anni Settanta. In quegli anni, nella Mecca del cinema, vengono abbandonati i lustrini del divismo e dell’intrattenimento ad ogni costo. Il testimone passa ad un cinema di denuncia, a pellicole che hanno il coraggio di osare. Film che mettono in mostra la parte sporca della società, le problematiche generazionali e i disagi delle guerre. Ecco, Spotlight rientra in questo modo di interpretare la settima arte, attraverso un cinema investigativo. Con coraggio porta sullo schermo la pedofilia nella Chiesa, che un team di giornalisti del Boston Globe ha la forza e l’ardore di smascherare.

La frangia più estremista del quotidiano si chiama Spotlight ed è diretta da Walter 'Robby' Robinson (Michael Keaton, Birdman - 2014). Insieme a lui, un gruppo di giornalisti, capitanati da Mike Rezendes (Marc Ruffalo, Tutto può cambiare - 2013), vincitore del Premio Pulizer per il servizio pubblico nel 2003, combattono contro un mostro sacro: l’Arcivescovo Bernard Francis Law (Len Cariou, Prisoners – 2013). Le indagini, scomode e complicate, aprono una falda profonda, che vede la Chiesa Americana soccombere sotto le accuse di abusi fisici e crimini diabolici contro degli innocenti. Il Churchgate del 2002, non solo è sinonimo di tradimento della fede, ma anche una delle pagine più nere per l’umanità. L’inchiesta ha riguardato 90 sacerdoti appartenenti alla diocesi di Boston e dei suoi dintorni.
Il regista, che è anche co-sceneggiatore, affiancato da  Josh Singer (Il Quinto potere – 2013), ha dichiarato di essersi ispirato al cinema del compianto Sidney Lumet. Egregio cineasta, che ha dato il meglio di sé proprio negli anni Settanta con film del calibro di: Rapina record a New York - 1971, Serpico - 1973, Quel pomeriggio di un giorno da cani - 1975 e Quinto potere -1976. Tom McCarthy ha messo in scena, con freddezza chirurgica, la spietata cronaca e con una ferrea attenzione nel ricostruire gli eventi ha realisticamente inquadrato l’attualità dell’epoca. Ha indagato sul confine tra crimine e legalità, evidenziando le macchinazioni del potere e l’audacia nel combatterlo da parte di un giornalismo investigativo concentrato sulla ricerca della verità. Completamente riuscita è l’intensificazione drammatica degli episodi di cronaca e della storia. Resa coinvolgente dal ritmo senza pause del montaggio. Efficace il lavoro eseguito con gli attori. Cinema corale, che ha giovato delle intense interpretazioni di, compresi quelli già sopra nominati: Rachel McAdams (Questione di Tempo – 2013), Stanley Tucci (Il Diavolo veste Prada – 2006), Liev Schreiber (Wolverine Le origini – 2009) e John Slattery (Serie Tv Mad Men – dal 2007 al 2015). Cast al servizio di una sceneggiatura supportata da una grande quantità di documenti d’epoca. Cinema vicino e similare ad un post-moderno come David Fincher ed il suo Zodiac (2007). Per la tematica, Spotlight, ricorda anche Sleepers (1996) di Barry Levinson. Mancano i sentimenti, presenti in Dentro la Notizia di James L. Brooks (1987), film che per assonanza nel titolo è facile accostare al soggetto di Spotlight.
Dalla libera comunicazione si è potuto usufruire in quegli anni di un giornalismo investigativo, che ha dato i suoi frutti. L’uso della carta stampata ha aperto gli occhi al mondo, lo ha ripulito dalla feccia. Ora gli Stati trovano enormi difficoltà ad avere un giornalismo sicuro, pulito ed edificante. Giornalisti investigatori agiscono tramite il web. Piattaforma, non sempre legale, che comunque aiuta a far venire a galla la notizia scomoda e fastidiosa. 
Attendiamo ora l’uscita nella sale di Spotlight e la reazione da parte della Chiesa e di Papa Bergoglio, primo promotore nella lotta contro la pedofilia.  Ancora oggi l’Arcivescovo Law, cacciato da Boston, vive al Vaticano all’età di 84 anni.
 
David Siena 
 
 
 
 

 

La Ricompensa del Gatto

Giovedì 11 Febbraio 2016 16:57 Pubblicato in Recensioni

La ricompensa del Gatto è uno dei film d’animazione “minori” dello Studio Ghibli (famoso grazie al nome del suo fondatore Hayao Miyazaki) del 2002. La regia questa volta è di Hiroyuki Morita che adatta il manga “Baron: Neko no Danshaku” per il grande schermo. Il fumetto e il film raccontano la storia della liceale Haru che passeggiando con la sua amica per le strade del Giappone salva coraggiosamente un gatto da un violento impatto con un camion buttandosi nel bel mezzo della strada. La ragazza viene sorpresa nei giorni successivi da mille attenzioni “non richieste” (come dell’erba gatta altissima nel giardino della sua abitazione e topolini impacchettati sul fondo del suo armadietto a scuola), il tutto le sembra assurdo fino a quando non scoprirà che il gattino è in realtà il principe di un regno parallelo abitato da gatti e che questo gesto la rende degna di tutti gli onori agli occhi del grasso re felino a capo della comunità che la vuole maritare proprio con suo figlio. Sarà compito dell’affascinate ed elegantissimo Barone Baron Humbert Von Gikkingen (un soprammobile a forma di gatto che ha preso vita grazie ad un sortilegio) e dal suo fido secondo ciccione il gatto Muta (“mucca”) salvarla dal suo destino inesorabile. Dietro a questo film ci sono diverse citazioni che sfuggono agli occhi di chi non è appassionato del genere, nel precedente film “I sospiri del mio cuore” del 1995,  Baron compare in un contesto del tutto diverso, come statuetta antropomorfa nel negozio di un anziano signore Shiro Nishi e diventa il soggetto del romanzo che scriverà la protagonista che racconta di come il barone abbia perso la sua amata e di come da quel giorno abbia dedicato la sua vita alla sua ricerca. Questo personaggio è diventato così popolare in giappone da giustificare la realizzazione di questo “sequel”. L’animazione che vanta i colori tipici dello Studio è più “povera” rispetto a capolavori come Il castello errante di Howl, La città incantata o la principessa Mononoke ma lascia quella stessa soddisfazione all’occhio per metterlo una spanna sopra a tanti altri film d’animazione giapponese. Le musiche non sono di Joe Hisaishi (storico compositore delle colonne sonore di molti lungometraggi Ghibli) ma di Yuji Mori che scrisse i pezzi per “I sospiri del mio cuore” (di cui sopra). Una nota bisogna farla sull’adattamento italiano: i film dello studio sono stati affidati dalla Lucky Red a Gualtiero Cannarsi, appassionato conoscitore della lingua, che purtroppo per essere “troppo fedele” traduce da qualche anno a questa parte letteralmente dall’originale rendendo certi dialoghi indigesti e altri addirittura ridicoli. Nostalgia, dolcezza e una frivola ventata di freschezza per chiunque, il target dei film d’animazione giapponese spesso è adulto, questa volta anche i bambini possono apprezzarlo e immergersi in una favola bizzarra imparando che l’amore è la più imprevedibile delle emozioni. 

 
Francesca Tulli

PPZ. Pride + Prejudice Zombies

Giovedì 11 Febbraio 2016 16:23 Pubblicato in Recensioni

Il rivoltante accostamento Jane Austen e morti viventi, è un idea di Seth Grahame-Smith autore del best seller PPZ:Pride Prejudice and Zombies oggi film diretto da Burr Steers per lucrare sulle orde di adolescenti alla ricerca di nuovi cult. La signora Bennet deve maritare le sue tre figlie, Elizabeth (Lily James), la secondogenita, ha preferito studiare le arti marziali dai monaci Shaolin in Cina (piuttosto che frequentare le altezzose scuole giapponesi delle sue coetanee) e non ne vuole sapere di smettere di uccidere Zombie per la patria Inghilterra in cambio di una vita modesta da moglie, fino a quando non incontra Mr. Darcy (Sam Riley) che da subito (fin troppo “da subito”) stuzzica la sua curiosità e duella con lei in quel gioco di sguardi, diverbi e cappa e spada, che finirà per dividerli prima e unirli dopo per sempre felici e contenti. Abominevole come Lizzie sia stata privata del suo carattere pungente e della sua forte personalità e ridotta ad un eroina scialba come (quasi) tutte le ragazze super forti dei film per ragazzi, rivisitare una storia o, come in questo caso, un classico letterario sembra essere un’impresa sempre più ardua, perché la buona propaganda femminista (di cui questo film è un esempio perfetto) di mettere un'arma in mano ad una donna e renderla così “sexy e invulnerabile” toglie a gran parte delle protagoniste la forza interiore, quella vera di cui davvero le donne sono capaci e che ha incantato generazioni di ragazze. Tanto Orgoglio e Pregiudizio nella sceneggiatura e pochissimi sporadici ridicoli zombie, un’occasione bruciata di vedere un'orda di barbari mangia cervelli vestiti in stile regency, quelli che ci sono hanno un buon trucco da “zombie walk” ma risultano meno minacciosi e meno numerosi (almeno per tre quarti di film) di quelli visti nelle lunghe stagioni della serie The Walking Dead e non suscitano nessun dubbio morale su “la vita e la non vita”. La scelta del cast è discutibile, ne esce bene solo l’attore inglese Matt Smith, che interpreta una ancora più caricaturata versione imbellita del Reverendo Collins, spasimante senza speranza di Lizzie, di per sè parodia dei rappresentati del clero anche nell’originale, strappa qualche sorriso facile per la sua goffaggine teatrale. Lily Collins, la protagonista, (fu Cenerentola per Branagh) sembra non credere a quello che fa, e non si prende sul serio (come potrebbe?) e il Mr Darcy con un acconciatura di capelli ridicola è messo in ombra dall’avvenenza del suo compare Mr.Bingley (Douglas Booth), scelta non voluta e paradossale. I costumi sono di buona fattura ma la scenografia a basso budget fa pensare ad una consapevolezza di scadere nel trash come la neve finta sul finale. Una nota positiva sono le musiche di Fernando Velázquez (esperto compositore di colonne sonore di moltissimi horror) e i titoli di testa “ritagliati” come un libro. Tanto imbarazzo, non abbatte i pregiudizi e non rende orgoglioso nessuno, tantomeno i fan dei due generi.

 
Francesca Tulli

I Milionari

Giovedì 11 Febbraio 2016 15:31 Pubblicato in Recensioni

Alessandro Piva approda al Festival Internazionale del Film di Roma con I Milionari, presentato in concorso all’interno della rassegna Cinema Oggi.

Libero adattamento dell’omonimo romanzo-inchiesta di Luigi Alberto Cannavale e Giacomo Gensini, il film racconta l’ascesa criminale di un gruppo di giovani banditi napoletani nel quartiere di Secondigliano.
Piva cambia tutti i nomi dei personaggi, aggiunge dettagli e ne omette altri, ma cerca di mantenere la stessa tensione realistica del libro, con l’obiettivo di disegnare una mitologia criminale di Napoli. 
Così il protagonista Paolo di Lauro, in arte e al lavoro “Ciruzzo ‘o milionario”, diventa Marcello Cavani, soprannominato a sua volta “Alendelòne” e interpretato da un deludente Francesco Scianna (Vallanzasca – Gli angeli del male, Allacciate le cinture). 
Regista di culto nell’underground pugliese, Piva sbarca a Napoli, con un film dal budget più alto rispetto ai precedenti, in cui vuole sottolineare l’impossibile convivenza tra le velleità borghesi di Cavani e la sua sostanza criminale. 
Tutto scorre piatto. 
Le immagini sono una successione di inquadrature banali, senza spessore, degne della più generalista delle fiction Rai (manca solo Beppe Fiorello). 
Non era facile reggere il confronto con i camorra-movie degli ultimi anni; prima Gomorra di Matteo Garrone, vincitore del Gran Premio della giuria a Cannes e di 7 David di Donatello, poi l’omonima serie, uno dei migliori prodotti televisivi italiani degli ultimi vent’anni, senza dimenticare il sottovalutato Fortapasc di Marco Risi, sulla breve esistenza del giornalista Giancarlo Siani ucciso dalla camorra. 
Francesco Scianna si conferma uno degli attori peggiori della sua generazione;
la recitazione caricata  trasuda insicurezza e dilettantismo. 
Dopo il sopravvalutato Il sud è niente, Valentina Lodovini si trova di nuovo relegata a un personaggio femminile debole e scritto male. 
Eppure il soggetto di spunti stimolanti potrebbe offrirne; lo scambio fra i regali nuziali (le “buste” ) e le bomboniere nella facciata borghese ha le stesse dinamiche dello scambio danaro-hashish nel retroscena criminale. 
Ma Piva sembra come spaesato e la sua regia approssimativa; dopo quello che sembrava essere un nuovo punto di partenza con il noir romano Henry, il regista delude irrimediabilmente le aspettative dei suoi fan più affezionati. Si concentra sulle megalomani aspirazioni del protagonista, ma non riesce a codificare i rituali della malavita in immagini che suscitino un minimo di interesse in più rispetto al canonico campo e controcampo.
I mostri un po’ grotteschi di La Capa Gira, ritratto della microcriminalità barese dai risvolti amari, lasciano il posto a personaggi privi di spessore, dalle evoluzioni sciatte e prevedibili. Si ricicla la figura stereotipata del bandito dandy e carismatico, ormai superata da anni sia nel cinema che nella televisione di qualità, tratteggiando un profilo superficiale e reazionario della criminalità organizzata. 
In comune con il film di Gomorra c’è lo sceneggiatore Massimo Gaudioso, storico collaboratore di Garrone e certe situazioni sembrano la parodia involontariamente demenziale dell’omonima serie tv.
 
Angelo Santini