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PPZ. Pride + Prejudice Zombies

Giovedì 11 Febbraio 2016 16:23 Pubblicato in Recensioni

Il rivoltante accostamento Jane Austen e morti viventi, è un idea di Seth Grahame-Smith autore del best seller PPZ:Pride Prejudice and Zombies oggi film diretto da Burr Steers per lucrare sulle orde di adolescenti alla ricerca di nuovi cult. La signora Bennet deve maritare le sue tre figlie, Elizabeth (Lily James), la secondogenita, ha preferito studiare le arti marziali dai monaci Shaolin in Cina (piuttosto che frequentare le altezzose scuole giapponesi delle sue coetanee) e non ne vuole sapere di smettere di uccidere Zombie per la patria Inghilterra in cambio di una vita modesta da moglie, fino a quando non incontra Mr. Darcy (Sam Riley) che da subito (fin troppo “da subito”) stuzzica la sua curiosità e duella con lei in quel gioco di sguardi, diverbi e cappa e spada, che finirà per dividerli prima e unirli dopo per sempre felici e contenti. Abominevole come Lizzie sia stata privata del suo carattere pungente e della sua forte personalità e ridotta ad un eroina scialba come (quasi) tutte le ragazze super forti dei film per ragazzi, rivisitare una storia o, come in questo caso, un classico letterario sembra essere un’impresa sempre più ardua, perché la buona propaganda femminista (di cui questo film è un esempio perfetto) di mettere un'arma in mano ad una donna e renderla così “sexy e invulnerabile” toglie a gran parte delle protagoniste la forza interiore, quella vera di cui davvero le donne sono capaci e che ha incantato generazioni di ragazze. Tanto Orgoglio e Pregiudizio nella sceneggiatura e pochissimi sporadici ridicoli zombie, un’occasione bruciata di vedere un'orda di barbari mangia cervelli vestiti in stile regency, quelli che ci sono hanno un buon trucco da “zombie walk” ma risultano meno minacciosi e meno numerosi (almeno per tre quarti di film) di quelli visti nelle lunghe stagioni della serie The Walking Dead e non suscitano nessun dubbio morale su “la vita e la non vita”. La scelta del cast è discutibile, ne esce bene solo l’attore inglese Matt Smith, che interpreta una ancora più caricaturata versione imbellita del Reverendo Collins, spasimante senza speranza di Lizzie, di per sè parodia dei rappresentati del clero anche nell’originale, strappa qualche sorriso facile per la sua goffaggine teatrale. Lily Collins, la protagonista, (fu Cenerentola per Branagh) sembra non credere a quello che fa, e non si prende sul serio (come potrebbe?) e il Mr Darcy con un acconciatura di capelli ridicola è messo in ombra dall’avvenenza del suo compare Mr.Bingley (Douglas Booth), scelta non voluta e paradossale. I costumi sono di buona fattura ma la scenografia a basso budget fa pensare ad una consapevolezza di scadere nel trash come la neve finta sul finale. Una nota positiva sono le musiche di Fernando Velázquez (esperto compositore di colonne sonore di moltissimi horror) e i titoli di testa “ritagliati” come un libro. Tanto imbarazzo, non abbatte i pregiudizi e non rende orgoglioso nessuno, tantomeno i fan dei due generi.

 
Francesca Tulli

I Milionari

Giovedì 11 Febbraio 2016 15:31 Pubblicato in Recensioni

Alessandro Piva approda al Festival Internazionale del Film di Roma con I Milionari, presentato in concorso all’interno della rassegna Cinema Oggi.

Libero adattamento dell’omonimo romanzo-inchiesta di Luigi Alberto Cannavale e Giacomo Gensini, il film racconta l’ascesa criminale di un gruppo di giovani banditi napoletani nel quartiere di Secondigliano.
Piva cambia tutti i nomi dei personaggi, aggiunge dettagli e ne omette altri, ma cerca di mantenere la stessa tensione realistica del libro, con l’obiettivo di disegnare una mitologia criminale di Napoli. 
Così il protagonista Paolo di Lauro, in arte e al lavoro “Ciruzzo ‘o milionario”, diventa Marcello Cavani, soprannominato a sua volta “Alendelòne” e interpretato da un deludente Francesco Scianna (Vallanzasca – Gli angeli del male, Allacciate le cinture). 
Regista di culto nell’underground pugliese, Piva sbarca a Napoli, con un film dal budget più alto rispetto ai precedenti, in cui vuole sottolineare l’impossibile convivenza tra le velleità borghesi di Cavani e la sua sostanza criminale. 
Tutto scorre piatto. 
Le immagini sono una successione di inquadrature banali, senza spessore, degne della più generalista delle fiction Rai (manca solo Beppe Fiorello). 
Non era facile reggere il confronto con i camorra-movie degli ultimi anni; prima Gomorra di Matteo Garrone, vincitore del Gran Premio della giuria a Cannes e di 7 David di Donatello, poi l’omonima serie, uno dei migliori prodotti televisivi italiani degli ultimi vent’anni, senza dimenticare il sottovalutato Fortapasc di Marco Risi, sulla breve esistenza del giornalista Giancarlo Siani ucciso dalla camorra. 
Francesco Scianna si conferma uno degli attori peggiori della sua generazione;
la recitazione caricata  trasuda insicurezza e dilettantismo. 
Dopo il sopravvalutato Il sud è niente, Valentina Lodovini si trova di nuovo relegata a un personaggio femminile debole e scritto male. 
Eppure il soggetto di spunti stimolanti potrebbe offrirne; lo scambio fra i regali nuziali (le “buste” ) e le bomboniere nella facciata borghese ha le stesse dinamiche dello scambio danaro-hashish nel retroscena criminale. 
Ma Piva sembra come spaesato e la sua regia approssimativa; dopo quello che sembrava essere un nuovo punto di partenza con il noir romano Henry, il regista delude irrimediabilmente le aspettative dei suoi fan più affezionati. Si concentra sulle megalomani aspirazioni del protagonista, ma non riesce a codificare i rituali della malavita in immagini che suscitino un minimo di interesse in più rispetto al canonico campo e controcampo.
I mostri un po’ grotteschi di La Capa Gira, ritratto della microcriminalità barese dai risvolti amari, lasciano il posto a personaggi privi di spessore, dalle evoluzioni sciatte e prevedibili. Si ricicla la figura stereotipata del bandito dandy e carismatico, ormai superata da anni sia nel cinema che nella televisione di qualità, tratteggiando un profilo superficiale e reazionario della criminalità organizzata. 
In comune con il film di Gomorra c’è lo sceneggiatore Massimo Gaudioso, storico collaboratore di Garrone e certe situazioni sembrano la parodia involontariamente demenziale dell’omonima serie tv.
 
Angelo Santini

The Hateful Eight

Martedì 02 Febbraio 2016 22:58 Pubblicato in Recensioni

Ambientato durante la Guerra civile, The Hateful Eight, ottavo e ultimo lavoro di Quentin Tarantino,  si mostra molto particolare nel suo genere, essendo un mix di generi, tanto che potremmo chiederci se, abbandonato l'aspetto di un western classico, in realtà non si debba parlare di thriller, commedia, film drammatico, claustrofobica pellicola ad alta tensione, film di Natale post Natale? Il vero problema non è quello di incasellare il tutto in precisi parametri cinematografici, bensì quello di ritrovare un senso più compiuto dietro le abbaglianti immagini.

Si parte così con un prodotto corale dove tutte le vecchie glorie del cinema di Tarantino tornano nel tentativo di riprendere da dove le avevamo lasciate, esattamente dove le avevamo lasciate. Proprio per questo sembra per certi versi di assistere ad un'autocelebrazione, dove non solo ritroviamo coloro ai quali eravamo abituati ma anche e soprattutto ambientazioni che non ci sono nuove in una storia che è tutto fuorché originale. Tutto comincia in una landa desolata nel più feroce degli scenari in cui un uomo possa trovarsi, una terra dove la natura è nemica e dove immense gelide vallate segnano la linea dell'orizzonte. L'ambientazione western era già stata affrontata nel precedente Django Unchained, ci ritroviamo quindi davanti ad un omaggio, ancora una volta, ai grandi maestri del passato ma in particolare, come dichiara Tarantino, a Sergio Leone, abbondando in citazioni e, soprattutto, in autocitazioni. 
Ma oltre che a Leone, anche se in chiave leggermente dissonante, The Hateful Eight è chiaramente legato a La Cosa di John Carpenter, a sua volta pellicola ispiratrice de Le Iene. Da La Cosa, oltre che il protagonista Kurt Russell e il direttore della colonna sonora, Tarantino riprende le stesse ansiogene e innevate ambientazioni, per protagonisti che rinchiude dentro scricchiolanti pareti di un rifugio isolato, limitati fisicamente sotto il giogo della costante minaccia di un nemico invisibile ma tangibile al contempo, nella classica lotta alla sopravvivenza.  Un luogo non luogo perduto in un tagliente gelo, in cui solo un rifugio può sembrare un porto sicuro, dove non vi è in realtà salvezza perchè tutti saranno l'uno contro l'altro per causa e indole, divisi in fazioni ma purtroppo esenti da colpi di scena. Un discorso preciso va intrapreso sulla scrittura alla base di questo lavoro, che inizialmente si presenta come un thriller grottesco con struttura teatrale, serratissimi dialoghi in un'unità di luogo e di tempo, nonostante i numerosi, ma non necessari, flashback a ripercorrere gli eventi da più angolazioni, come una sorta di Rashomon postmoderno in cui ognuno, o quasi, racconta la sua versione dei fatti. Si entra in un percorso accidentato posto ad evidenziare,  ma finendo con il mortificare e appiattire, la bravura degli stessi interpreti. Ecco che si ripropongono i medesimi personaggi con le medesime formule interpretative attuate in passato, in questo non c'è novità né scelta coraggiosa per oltre tre ore che non valgono l'opera magnificente che si voleva portare a termine e, anche se non si può assolutamente dire che quello che ci scorre davanti è un brutto spettacolo, il cliché a volte può essere decisamente ridondante. Tarantino non ha la cifra di opere monumentali, come i grandi autori su cui forgia i suoi lavori, e ancora una volta la sceneggiatura citofonata dall'inizio alla fine, rende troppo prevedibile il tutto, strizzando continuamente l'occhio al grande pubblico, abbassando il target giocando sulla facile comprensibilità, alle mode old style del momento, all'esplosione patinata di colori e campi lunghi nell'abbondante postproduzione che invalida la presenza di una tecnica registica. 
Definire The Hateful Eight un Le Iene in salsa western è un'affermazione troppo azzardata: non è presente nemmeno un vago ricordo dell'originalità prepotente di un lavoro che ha dato seguito a imitazioni per i 20 anni successivi. Parlando di copie di copie in una rete di infiniti rimandi artistici mediatici e pubblicitari, anche la colonna sonora inedita, creata dal Maestro Ennio Morricone, è una riproposizione. Diversi brani, erano stati composti proprio per  La Cosa ma mai utilizzati all'epoca quindi riarrangiati e utilizzati ora, tutti tranne uno che è invece presente nel film di Carpenter. 
Forse questo è un po' il passo più lungo della gamba, quello dal sentore di inadeguatezza, dall'indole di un quasi sequestro di persona, che ci attanaglia per un lungo lungo tempo in cui avremmo potuto anche scappare all'intervallo, o iniziare a vederlo da subito dopo, un po' a scelta. 
 
Chiara Nucera

Il figlio di Saul

Martedì 26 Gennaio 2016 22:10 Pubblicato in Recensioni

Visto dagli occhi di uno dei Sonderkommando il “figlio di Saul” di Làszlò Nemes è un’atroce prospettiva di vergogna per l’intera umanità. Saul Ausalnder (Gèza Rohrig) è un ebreo ungherese costretto forzatamente ad appartenere alla casta dei lavoratori “vip” all’interno del campo di concentramento di Auschwitz-Birkenau, ha un’aspettativa di vita di quattro mesi, locali riscaldati dove dormire, un piatto di ceci al giorno, in cambio sono richieste le sue braccia forti per ammassare i cadaveri della sua gente, spalare la polvere di ciò che ne resta una volta fuori dai forni crematori, accompagnare i “morti” ancora vivi alla “soluzione finale”. Attraverso l’orrore scopriamo che un bambino nudo in mezzo a mille altri respira ancora, il corpicino innocente, soppresso nel giro di pochi minuti dal “medico” del campo, accende in Saul la voglia di tornare a sentirsi umano. Laddove non si può essere un “eroe” il suo bisogno primario diventa quello di seppellire quel ragazzo, “suo figlio” dice lui, nel più sacro dei modi, assolvere al comandamento universale di “vestire chi è nudo, sfamare chi è affamato, seppellire chi è morto”. Non si accontenta delle preghiere clandestine dei suoi compagni, cerca un Rabbino nel profondo girone dei dannati innocenti arrivati al campo e la sua ricerca, inosservata dai carnefici, attira le attenzioni dei ribelli pronti a fare un blitz per cercare di fuggire e raccontare al mondo la verità. La regia, spiega Rohrig presente alla conferenza stampa tenutasi a Roma per l'uscita del film, per evitare sguardi “pornografici” si avvale di un operatore che segue solo il protagonista, i suoi occhi stanchi che hanno visto troppo, la sua nuca mentre cammina tra inquadrature sfocate e grida agghiaccianti. Il sonoro, ottenuto con cinque settimane di sessioni per i rumoristi, è un espediente riuscitissimo per “sentire” la Shoah con rispetto e senza indugiare su aspetti gratuitamente macabri. Deve dichiaratamente molto agli scritti di Primo Levi. Non sorprende che nonostante sia stato girato in soli 28 giorni, con un budget bassissimo, abbia già vinto moltissimi premi come il Gran Prix Speciale della Giuria alla 68°esima edizione del festival di Cannes, il Golden Globe come “Miglior Film Straniero” e la nomination all’Oscar nella stessa categoria. Nonostante questo, il film non è stato fatto a tavolino da una Major di Hollywood ma con modestia da una casa indipendente, la Laokoon Filmgroup. Il 27 Gennaio ricorre la Giornata della Memoria, è molto importante non dare per scontato, in un mondo fatto anche di negazionisti e giovani fascistelli ignoranti, che tutto questo è accaduto. I nazisti non era mostri di un altro pianeta, erano esseri umani e gli uomini che fanno la guerra attraverso il lavoro sporco degli altri, esistono ancora. Oggi forse un olocausto lo progetterebbero con l’aiuto dei droni. Un film così dovrebbero vederlo tutti. Questa pellicola è la dimostrazione che il cinema non è solo intrattenimento, è uno strumento potentissimo che può svegliare le coscienze di molti. 

 
Francesca Tulli