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La prima cosa che viene in mente pensando ad un film sugli adolescenti ambientato negli anni 90 è: qui ci divertiamo e ci rilassiamo. Possiamo così goderci un’ora e mezza di beata amarcord, condita da bella musica, perché questa certo non mancava negli anni 90. Invece Mids90 ci porta nel cuore di quegli anni e nelle caotiche vie della formazione di un tredicenne di nome Stevie (Sunny Suljic). Il debuttante alla regia Johan Hill (per intenderci è l’amico di abbuffate di Leo di Caprio in The Wolf of Wall Street) mette in scena un’opera che vuole essere un’elaborazione sentita di quella decade, usando il genere “coming of age” per spiegarci cosa successe di travolgente e devastante durante gli anni della crisi del capitalismo. Stevie è il suo Virgilio, anima pura che viene a conoscenza della parola violenza, subendola e vedendola ogni giorno. Ci accompagna attraverso un mondo depresso, in perenne difficoltà, dove le famiglie sono allo sfascio e molti giovani perdono la via. Il regista addentrandosi in queste paludi confeziona un film che ci fa vedere tutto questo, però con il pregio di non moralizzare, riuscendo così a donare all’anima del film una sorta di freschezza, che si apprezza per l’intera visione.
Presentato all’ultimo Festival di Toronto, si presenta qui alla Berlinale edizione 69 nella categoria Panorama.
Girato con formato un po’ agée: Rapporto 1,33 :1, ormai non più in uso. Questo era in voga negli anni dell’ambientazione del film. Mids90 rientra in un contesto cinematografico indie come il recente Lady Bird di Greta Gerwig. Johan Hill non ha solo diretto il film, ma lo ha anche scritto. La sua è una spec script (sceneggiatura speculativa), scritta senza una richiesta da parte di una produzione. Questi tipi di sceneggiature vengono introdotte nel mercato cinematografico per poi essere scovate da chi vuol scommettere sul progetto.
Nella sua casa di Los Angeles Stevie vive con la madre Dabney (Katherine Waterston) e con il fratello Ian (Lucas Hedges, Manchester by the Sea). La sua vita di famiglia è turbolenta, manca equilibrio ed il fratello, piuttosto che essere affettuoso ed accomodante, è manesco e prepotente. L’estate è la stagione per fare nuove amicizie e Stevie si avvicina ad un gruppo di ragazzi amanti dello skateboard. Il luogo di ritrovo è proprio un negozio di skates, dove il tredicenne prova i primi vizi della vita: bere birra e fumare. I suoi nuovi amici sono più grandi lui e in questa comunità Stevie viene accettato dopo prove coraggiose, ma altrettanto pericolose. Impara ad andare con lo skate e non solo, si fa forte con i suoi nuovi compagni, scopre le femmine e giova della sincerità che vige nel gruppo. Ragazzi strampalati, ma trasparenti. Ecco che Stevie inizia a crescere. Nel bene o nel male la sua vita ha inizio, una lunga corsa verso l’accettazione di se stessi, alla ricerca del proprio posto nel mondo.
Il film di Johan Hill non è proprio una novità, ma ha il pregio di essere godibile. La regia ci regala qualche bel piano sequenza (i ragazzi con lo skate che vengono contro la telecamera percorrendo una strada con le macchine che gli passano sui fianchi). La metafora con la vita è evidente. I dialoghi non sono banali. Cospicuo uso dello slang, classico dei film girati negli anni 90. I cambiamenti del giovane Stevie li troviamo nel quotidiano: nelle minuzie e nelle sue piccole grandi imprese. Da qui prende il via l’identificazione di se stessi, passando da un dolore forse necessario, ma non per forza distruttivo, contro il quale combatte ogni giorno. Il giovane non ha molte coperte di Linus da portare con se. Solo nell’essere accettato dalla sua nuova compagnia trova la forza per sbocciare, errando parecchio.
Mids90 si fa forte di un linguaggio che non omette le bruttezze, diventando così un prodotto anni 90 a tutto tondo. In quegli anni il cinema cambiò prospettive. Il mondo viene spogliato e si decide di portare sul grande schermo la vita per quella che è. Un cinema che mette in mostra la violenza in società, ma anche tra le mura domestiche. Le paure contemporanee trovano il loro spazio sulla celluloide, che di lì a poco farà il grande salto al digitale. Una sorta di testamento sincero del millennio precedente. Droghe, sessualità esplicita, disturbi mentali, politica corrotta, stress e gioventù bruciata sono i temi cardine del cinema “made in 90s”.
David Siena
Gli Aerosmith cantavano nella loro bellissima Amazing: “la vita è un’avventura, non una destinazione”. Qui l’avventura ce l’abbiamo, ma possiamo anche affermare che la vita è una destinazione. Sopravvivere, rimanere in vita, portare se stessi e qualcosa dei nostri cari nel futuro, questa è la destinazione di Light of my life.
Un padre (Casey Affleck), che non ha nome, è sdraiato con la giovane figlia Rag all’interno di una tenda. Fuori solo alberi ed i rumori di un silenziosissimo bosco. Le parole, che rompono il silenzio, raccontano di una volpe che mette in salvo l’amata consorte, ma anche molti altri esseri viventi. Ed è il genitore che con dolcezza e convinzione narra la storia alla figlia, dove troviamo diluvi ed arche a completare la biblica novella (sequenza meravigliosa che incarna appieno il senso del film). Il mondo al loro risveglio non è quello solito, una malattia ignota ha sterminato completamente il genere femminile. Il contesto distopico obbliga il padre e la figlia a vivere da eremiti ed a nascondersi perennemente. La ragazzina è camuffata da maschio per la costante paura di subire violenze dettate da un mondo in cui gli uomini ucciderebbero per una donna. Soprattutto ora che Rag lo sta diventando, Affleck ha il suo ben da fare per proteggerla da ogni persona che incontrano, che incarna un possibile pericolo.
Light of my life è un film che ha molto in comune con “I figli degli uomini” di Alfonso Cuaron e con The Road di John Hillcoat, quest’ultimo tratto dal romanzo capolavoro di Cormac McCarthy.
Casey Affleck, al suo debutto dietro la macchina da presa, si focalizza sulla forza dell’amore di un padre verso la figlia. Non in concorso qui alla Berlinale 2019, il film rientra nella line-up della sezione Panorama. Il premio Oscar per Manchester by the Sea scrive, dirige ed interpreta un padre che mette in risalto le proprie paure più profonde, sorretto dalla figlioletta Anna Pniowsky.
Casey Affleck confeziona un survivor movie intimo. Concentra la sua regia sul rapporto padre/figlia. Il regista cesella con cura queste immagini, le smussa, le accarezza, le coccola e così facendo gli dona respiro e profondità. Questi sono i momenti clou del film. Sembrano poveri in un primo momento, ma il contenuto è robusto e vigoroso. La sua è una sceneggiatura disidratata di materialità, da pochi punti di riferimento, decontestualizza e così facendo il climax è di paura perpetua. Il film ti tiene sempre lì, sull’attenti.
Light of my life pone la sua lente d’ingrandimento sull’umanità e sui suoi istinti, ma anche sulla disperazione, sugli affanni ed infine sulla speranza. Il film guarda verso la società contemporanea, che non sa bene come sarà il proprio futuro. Incertezza uguale a debolezza. Un’umanità senza nessun punto di riferimento fa da contraltare alla ricchezza di sentimento tra padre e figlia, dal quale scaturiscono emozioni palpabili e la speranza di un futuro. Assistiamo al ribaltamento dei ruoli, dove la figlia diventa genitore. Una sorta di angelo salvifico, non solo del padre, ma anche del genere umano.
Il tutto è ambientato nei boschi e in quelle strade di provincia, nessun grattacielo o l’ombra di una società post-moderna, dove la genuinità regna sovrana, o comunque regnava. Incertezza che globalizza tutto il nostro mondo, anche quello più sincero e naturale.
David Siena
La cinematografia ellenica giova negli ultimi anni di un buon credito fornito dall’ormai consolidato regista Yorgos Lanthimos (The Lobster, La Favorita). Ispirati e spinti da questo creativo e scioccante autore, altri registi suoi connazionali tentano, non sempre con i risultati sperati, di sorprendere e stuzzicare il pubblico. E’ il caso di Syllas Tzoumerkas, che confeziona un’opera a tratti molto interessante, ma non pienamente riuscita. Un thriller dai risvolti disturbanti e controversi ambientato ai confini del mondo greco, nelle zone paludose di Missolungi. Città dimenticata da Dio tanto che gli stessi greci etichettano gli abitanti di Missolungi “quelli dell’aldilà”. Zona morta che vide anche la dipartita di George Gordon Byron, conosciuto come Lord Byron. In questo sito sperduto hanno luogo le vicende di The miracle of the Sargasso Sea, thriller perverso che mette a fuoco la vita di due donne, che non hanno avuto un’esistenza ordinaria. Non si veleggia solo all’interno delle soggettività e delle personalità, formatesi dà famiglie disagiate, ma si naviga e si scava anche nelle problematiche sociali e politiche del paese. Tutto questo usando un registro schizofrenico, cupo e a tratti surreale. Non mancano sequenze spaventose, che colpiscono. La tensione emotiva è alta, anche con qualche imperfezione nella sceneggiatura e l’uso eccessivo di simboli. Il viaggio in questo caso è più avvincente della risoluzione. Dove non tutto trova una risposta, vista anche la mole di sotto testi trattati. “Fuggi per la tua vita. Non guardare indietro e non fermarti dentro la valle: fuggi sulle montagne per non essere travolto!” (Genesi 19:17). Questa biblica frase può essere ben accostata alle due protagoniste del film, in fuga dalla loro Sodoma e Gomorra.
The miracle of the Sargasso Sea, inserito nella line up di Panorama al Festival di Berlino 2019, è scritto dal regista Syllas Tzoumerkas assieme a Youla Boudali (che nel film interpreta il personaggio cardine di Rita). Accostabile come climax alla prima serie di True Detective, con un taglio europeo e meno americaneggiante. Sostanzialmente più sporco, ma non per questo declassabile. Una sorta, al contrario, de La notte brava del soldato Jonathan con Clint Eastwood e con temi vicini allo Snowtown di Justin Kurzel.
2008, Grecia peninsulare. Elisabeth (Angeliki Papoulia) svolge con serietà il suo mestiere di investigatrice. Purtroppo è ricattata da terroristi pronti a riservarle una vendetta trasversale se decide di consegnarli alla polizia. Declassata e spedita a Missolungi in veste di capo del distretto, inizia una vita all’insegna dell’alcol e della depressione. Momento della sua vita che si protrae per ben 10 anni. Il suo compagno di bottiglia ed anche amante è Vassilis (Argyris Xafis). Non proprio la persona giusta per auto rivalutarsi. Ma la persona giusta arriva e si chiama Rita (Youla Boudali). Quest’ultima è una donna provata dalla vita, con un passato orribile. Rita lavora in un’azienda che alleva anguille. Malauguratamente il fratello drogato Manolis (Hristos Passalis) la perseguita continuamente. E’ da questo abominevole rapporto che Rita non riesce a ripristinare adeguatamente la sua dignità. Durante un’esibizione canora di Manolis, cantante da quattro soldi, Rita subisce ulteriori diffamazioni davanti a tutto il paese. E rischia di prendere severe botte dagli albanesi locali, che vogliono vendicarsi delle frasi scagliate contro di loro dal fratello, in evidente stato allucinatorio. Il giorno seguente Manolis viene trovato senza vita appeso ad una pianta. Qui entra in gioco Elisabeth, incaricata di far luce sull’accaduto. All’interno di questa macabra dinamica nasce il rapporto di aiuto e ricerca di assoluzione tra Elisabeth e Rita. Dalle ceneri dell’oblio, rinnegando le loro appartenenze e non solo, le due donne istaurano una loro comunità riparatrice, che Dio volendo le farà risorgere fenici.
In conclusione, ricalcando le riflessioni fatte precedentemente, il film di Syllas Tzoumerkas è un’opera sulle occasioni perdute, ma anche sulle possibilità di redenzione che ci offre la vita. Una rinascita al femminile che è legittima e attuale, in tema con i movimenti pro femministi degli ultimi anni. Diretto senza delle regole precise e con uno stile psicologicamente instabile. La macchina da presa è decisamente più potente della scrittura. Ne consegue una scarsa compattezza. Il lungometraggio è sorta di western moderno, nel quale vivono persone strambe e al limite. Nella terra di nessuno, l’esatto posto dove non essere. Essere inteso come “io”, soffocato dalla misoginia e da una cultura troppo arcaica.
David Siena