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Bruxelles, 2016. Lì per lì ci viene subito da pensare all’Unione europea e, visto anche quello che sta succedendo in questi periodi, alle aspre critiche verso l’Italia e alla sua politica economica. In Europa siamo considerati Hellhole, o poco ci manca. Ma l’oggetto del contendere in questa pellicola è un altro. E’ il terrore che hanno provocato gli attentati terroristici nella capitale belga nel 2016. Il titolo del film deriva da un’esternazione fatta dal presidente americano Trump, che ha etichettato Bruxelles come una città infernale. Il film scritto e diretto da Bas Devos (belga di nascita) è un emblematico affresco della situazione psicologica della città. Raccontare storie di persone che annaspano come medicamento agli accadimenti di panico e terrore. Hellhole è un opera che si prefigge di suggestionare; un film acre e malinconico. Non per forza necessario, ma nel suo intento efficacie. Il regista mette in scena dei quadri rappresentativi di vite scomposte, che impongono riflessione nello spettatore. Molto significativa la prima sequenza del film, dove degli alunni seduti ai loro banchi di scuola descrivono la città come la capitale jihadista d’Europa e che sarebbe meglio bombardarla. Poi una risata scoppia fragorosa, ma è solo un esorcismo. Le parole pronunciate fanno male e paura, il tremore è reale. Ne scaturisce un dolore da infarto, come si può vedere nella scena subito dopo. Ad una fermata della metropolitana un uomo arranca colpito da un forte malore.
Hellhole è presentato alla Berlinale 2019 nella sezione Panorama e racconta, con uno sviluppo narrativo ai minimi termini, tre vite problematiche che trasudano malessere inghiottite dalla città belga, luogo di nessuno.
Mehdi (Hamza Belarbi) è un ragazzo algerino, che vive una vita anonima tra la sua compagnia giovanile e gli affetti. Alba (Alba Rohrwacher), donna di origine italiana, si trova a Bruxelles nelle vesti di traduttrice al Parlamento Europeo. Wannes (Willy Thomas) è un dottore di provenienza fiamminga sperduto e solo; non trova pace dopo la partenza del figlio per il servizio di leva. Stranieri in una terra che ormai è straniera anche per gli abitanti del posto. La libertà di muoversi come si vuole è soffocata da una situazione globale di paura. Lo straniero è comunque un ospite non ben accetto.
Il regista sa esattamente dove posizionare la macchina da presa, riuscendo a creare l’esatto climax di inquietudine globale (Bruxelles città piegata e percossa), fermandosi su immagini rilevanti in modo contemplativo. Estrapola, con la stessa apatia che provano i personaggi, il loro stato d’animo: cupo e depresso. E il disagio diventa palpabile.
E’ la summa della tendenza del cinema degli untimi 20 anni, dalle torri gemelle in poi. Un punto di vista e di arrivo autorale. Non si mette in scena la violenza oggettiva (nulla a che vedere con in vari “Attacco al potere”), ma quella che ne è scaturita dopo il male subito. Soggettività in panico. Una violenza subita che si protrae psicologicamente su tutti i cittadini. Nessuna bomba o sangue, solo il mutismo sordo dell’anima.
Come già anticipato precedentemente con Hellhole non si grida al miracolo cinematografico. Piccola produzione, che nel suo piccolo porta a casa il risultato, o almeno quello che promette mantiene. Bas Devos entra in una sorta di esistenzialismo. E ora dopo tutti questi eventi dove stiamo andando e cosa dobbiamo fare di noi stessi? Ora che anche la libertà è minata, il registro della nostra vita è fosco e i nostri sforzi sprofondano giù, nel posto più remoto dell’inferno.
David Siena
Diciamolo senza filtri: quando ci si trova davanti ad una spy-story ci si aspettano diverse cose. Una su tutte l’azione, quella alla Mission Impossible per intenderci. Oppure una ragnatela di intrighi ben congeniata, che sublima con il colpo di scena finale; qui siamo dalle parti di John Le Carré. L’importante, qualsiasi siano le intenzioni della sceneggiatura, è che non deve mai mancare la giusta dose di suspense. The Operative purtroppo non sorregge nessuna di queste peculiarità. Nel cercare di umanizzare al massimo la figura della spia, il regista Yuval Adler (praticamente all’esordio con il cinema che conta, prima solo poche opere home made) perde un po’ la bussola e si ritrova dentro un ibrido spy-noir, dove i tempi di narrazione risultano sbagliati e la stessa si sfilaccia troppo spesso. La confezione finale è poco invitante. Se dal cast ci si poteva esaltare, Diane Kruger (Oltre la Notte) e Martin Freeman (Lo Hobbit) sono attori con la “A” maiuscola, a conti fatti anche loro si perdono nella regia del film: scialba ed anestetizzante. La Kruger ci prova a donare alla sua protagonista quelle forze e fragilità che dovrebbero contraddistinguere il suo personaggio di spia, riuscendoci solo in parte. Freeman rimane inghiottito dal suo ruolo, decisamente non adatto all’attore britannico.
The Operative è una delle proiezioni speciali della Berlinale 69. Il film scritto e diretto dall’israeliano Yuval Adler è fuori concorso. Il lungometraggio è tratto dal recente romanzo di Yiftach Reicher Atir, ex agente del Mossad. Il libro ha soli 3 anni ed è anche il momento storico che vede Rachel (Diane Kruger) entrare a far parte del Mossad. Diventa così una pedina indispensabile in Iran. Il suo scopo è quello di boicottare l’avanzata verso il nucleare degli islamici più estremisti. La sua copertura consiste nell’essere un’esperta insegnante di inglese. Ma una volta recatasi a Londra per il funerale del padre Rachel scompare. Il suo maestro di intelligence Thomas (Martin Freeman) è l’ultima persona che l’ha sentita per telefono. Il teatro degli intrighi ora si sposta in Germania, luogo dove è più semplice per Thomas proteggere Rachel. Qui la donna riesce a portare avanti le proprie operazioni richieste dall’alto.
Come già ampiamente accennato nell’introduzione della recensione The Operative è un film spento, che cerca un’originalità, ma non la trova, anzi sembra di trovarsi davanti ad una pellicola estremamente vintage. La regia è caotica; troppo rimane sepolto tra gli intrecciati meccanismi dello spionaggio e il regista non riesce nel compito di rendere interessante la quotidianità delle spie. Pedine di una scacchiera impolverata, fuori dalle loro posizioni e quindi impossibilitate a fare scacco matto.
The Operative manca di compattezza e questo probabilmente è il vero limite del film. Si cerca una nuova versione della spy-story senza però sapere bene come muoversi. In questo campo minato si va troppe volte sulle mine. I colpi di scena non consentono esternazioni onomatopeiche degne del genere. Il puntare tutto sull’aspetto umano forse avrebbe trovato più senso in una serie tv, dove i verticalismi dei personaggi possono portare vie delle intere puntate, per poi chiudere con il giusto pathos.
David Siena