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Motherless Brooklyn

Giovedì 07 Novembre 2019 00:38 Pubblicato in Recensioni
Ambientato nella New York degli anni '50, dove sono ancora avvertibili gli effetti della grande depressione e della guerra da poco conclusa, il film segue le vicende del giovane detective Lionel, detto Brooklyn (Edward Norton), orfano di madre e affetto dalla sindrome di Tourette.
Quando il suo mentore Frank (Bruce Willis) viene ucciso in circostanze misteriose, lo strano ma sveglio investigatore decide di far luce sul caso, addentrandosi nei segreti piú tetri della città.
È una decina di anni che questo copione girava sulla scrivania di Norton, colpito dal romanzo di Jonathan Lethem e assolutamente convinto a trasporlo sul grande schermo. 
Alla sua prima opera sia da regista che da scrittore, chissà quante volte però sarà tornato sui suoi passi per trovare la formula perfetta, e alla fine decide di andare sul sicuro e di attenersi al manuale, realizzando un noir aderente a tutti gli stilemi del genere. 
Ambientazioni urbane e notturne, fotografia chiaroscura molto contrastata (ottimo lavoro del veterano Dick Pope), delle inquadrature distorte e taglienti fanno da base per la messa in scena di una città dai sentimenti corrotti e malsani.
Tuttavia nella sua tecnica quasi perfetta giace anche il suo limite, perché si sente la mancanza una qualsiasi direzione prettamente personale; tanti richiami a grandi capolavori del passato, Chinatown su tutti, ma nessuno spunto originale per dare risalto alla propria creatura.
Da consuetudine noir anche la verità della vicenda è tra le ombre della narrazione, negli sguardi dei personaggi, che si stagliano attraverso fumi di sigaretta o nella penombra di vicoli oscuri. Però più che creare un'atmosfera ambigua e misteriosa, col passare dei minuti si ha la perenne sensazione che qualcosa non torni. 
La sceneggiatura costruisce e stratifica, sembra quasi che improvvisi ispirandosi alla tradizione jazz della colonna sonora, ma poi si annoda su se stessa lasciando una fastidiosa confusione. Non aiutano gli scambi tra i personaggi, sempre piuttosto artificiosi, quasi a riempire i silenzi di una pellicola che sta trascinandosi troppo a lungo.
La durata è infatti eccessiva, un ritmo colpevolmente dilatato accentua la sensazione di pesantezza della trama e qualche taglio avrebbe sicuramente giovato all'economia complessiva.
Dal punto di vista prettamente attoriale invece le cose vanno meglio, il casting è senza dubbio azzeccato, ma senza la giusta base di sceneggiatura i personaggi fanno fatica ad emergere. Bruce Willis compare sullo schermo troppo poco per lasciare il segno ed Alec Baldwin non riesce a riempire fino in fondo il ruolo di antagonista che gli viene cucito addosso. Tutto il peso quindi giace sulle spalle di Edward Norton e porta a casa il compito in maniera più che sufficiente, col suo solito talento e magnetismo, ma soprattutto nella prima parte eccede nella caratterizzazione di Brooklyn in un leggero overacting.
Dopo tutti questi anni dalla sua prima vera direzione, nel 2000 con Tentazioni d'amore, l'attore di Boston ritorna dietro la macchina da presa con un film ben costruito ma poco coraggioso. Un'opera che sarà stata complicata da portare a termine, dal parto travagliato, perché si nota la mancanza di fluidità e di decisione, tecnicamente inossidabile ma purtroppo anonimo nella sostanza. La proverbiale occasione mancata.
 
 
Omar Mourad Agha

A Marriage Story. Storia di un matrimonio

Lunedì 18 Novembre 2019 00:22 Pubblicato in Recensioni
Nicole (Scarlett Johansson) è un'attrice lanciata nel mondo di Hollywood, Charlie (Adam Driver) un giovane regista teatrale di talento in forte ascesa a New York. Dal loro incontro nasce un amore intenso e passionale, che piega carriere e scuote gli animi nelle fondamenta. Uno di quelli che non può finire con una semplice firma sui documenti di divorzio, tra belle e nostalgiche parole, ma fa riemergere tutte le incomprensioni e i rancori repressi. Tra urla di dolore e litigi a cuore aperto, va in scena il capitolo finale della storia di un matrimonio.
Noah Baumbach cura una regia precisa e al tempo stesso discreta, che ci porta alla giusta distanza dai personaggi. Le inquadrature danno l'impressione di una messa in scena teatrale piuttosto che strettamente cinematografica, acquisendo spessore e vitalità. Una dimensione più intima passa attraverso primi piani o mezzi busti che segnano tutta la sofferenza dei protagonisti.
Ne risulta un ritratto del dramma realistico ed empatico, pregno di sentimento, in cui la separazione segue dei passaggi a volte molto marcati ma sempre spontanei. Ci si può facilmente immedesimare in questa storia, nella fine di questo amore, forse malinconico, in cui si tende per tutto il tempo a desiderare una via di fuga, una svolta salvifica inaspettata. Ampio risalto è dato ad entrambe le parti, in modo quasi del tutto simmetrico sembrerebbe. Le situazioni di lui e le situazioni di lei hanno lo stesso peso, a partire da una versione delle locandine in cui prima una figura e poi l'altra si guardano e, come sfondo, uno spaccato urbano di due diverse città, due luoghi che inesorabilmente creano una frattura.
New York e Los Angeles, agli antipodi della nazione, sono quasi comprimari che dettano il tono della messa in scena, raccolta e quasi soffocata nella Grande Mela, più aperta e vivace nella Città degli Angeli.
Ma la vera colonna portante di un film così riuscito è senza dubbio la sceneggiatura. La compattezza complessiva della vicenda è figlia di dialoghi fluidi e ottimamente costruiti, e lo sviluppo degli episodi appare molto naturale. Un ritmo serrato e frizzante mantiene alto il livello di tensione dello spettacolo, soprattutto in un paio di sequenze in particolare, ma degli opportuni cambi di registro evitano di appesantire eccessivamente lo spettatore.
In questo contesto gli attori stessi appaiono in grande spolvero. A partire dai protagonisti principali, che danno molto del loro per garantire la genuinità delle emozioni che permeano la pellicola, soprattutto la Johansson, in una delle sue migliori interpretazioni. Anche i comprimari sono ottimamente in parte, Ray Liotta e Laura Dern, nel ruolo degli avvocati dei due coniugi sono sempre molto precisi e puntuali nel tratteggiare la spietatezza e l'egocentrismo dei loro ruoli.
Storia di un matrimonio è un film forte, che sbatte in faccia allo spettatore la sofferenza e le problematiche insite nelle relazioni, ma d'altro canto non lesina sulla tenerezza di certi gesti e sulle ragioni che ci portano comunque a cercarci l'un l'altro. In fin dei conti è un film che parla semplicemente d'amore e lo fa con una potenza ed un'espressività che ormai si vede raramente sul grande schermo. Lo fa da grande film.
 
Omar Mourad Agha

Black Square. La fuga del giovane Holden

Mercoledì 20 Novembre 2019 15:35 Pubblicato in News
Venerdì 22 novembre, alle ore 18, presso la Libreria Eli di Roma, in viale Somalia, 50/A, verrà presentato al pubblico Black Square. La fuga del giovane Holden, quinto romanzo della scrittrice Maria Rosaria Petti, uscito il 15 novembre per L’Erudita – Gruppo Giulio Perrone Editore.
 
L’incontro, moderato da Simona Sala (Vicedirettore Tg1 RAI), vedrà la partecipazione di Sergio Bonetti (docente universitario), Aldo Di Russo (regista) e sarà arricchito dalle letture di alcuni estratti del romanzo dell’attrice Paola Sambo.
 
 
…New York è terribile quando qualcuno ride per la strada la sera tardi. Si sente a km di distanza e ti fa sentire solo…(J.D.Salinger)
 
Black Square è la storia di una inverosimile evasione, tra Roma, New York, Amsterdam e San Pietroburgo, in un equilibrio incerto tra persone e personaggi. Pietro Maltese, protagonista accompagnato dalla figlia che non sapeva di avere, farà i conti con il proprio passato e con gli intricati percorsi dell’esistenza. All’Hermitage intanto una donna scompare in modo misterioso sotto gli occhi di tutti, mentre due illustri personaggi letterari, Holden Caulfield ed Anne Frank, evasi dalle pagine dei loro libri e in cerca di una vita vera, viaggeranno con Pietro da una dimensione all’altra, attraverso un enigmatico quadro: Black Square di K. Malevich. Questa fuga scatenerà l’Interpol in una serrata caccia ai fuggitivi per riportare tutto all’ordine precostituito, ma niente è come sembra e nulla sarà più come prima…
 
 
Un romanzo dai forti richiami cinematografici, in cui oltre i toni evocativi sono presenti in modo preponderante citazioni che vanno da Forrest Gump a La 25esima ora
Con uno stile deciso e raffinato, l’autrice ci conduce in un racconto paradossale della realtà, illuminando, nell’incredibile viaggio, i molti angoli nascosti della complessità umana.
 
 
Maria Rosaria Petti è nata a Napoli e vive a Roma. Soggettista per una società di comunicazione audiovisiva (con la quale nel 1993 vince il Premio Speciale della Giuria all’AMI Award di New Orleans per il miglior film industriale), nel 1996 ha pubblicato per la Shakespeare and Company il suo primo romanzo Luci del Nord. Per Rubbettino – Iride ha pubblicato i romanzi Titoli di coda (2008), L’ultimo viaggio di Sofia (2012) e Il Filo di Marianna (2015).
A novembre 2019 esce per L’Erudita – Gruppo Giulio Perrone Editore Black Square. La fuga del giovane Holden.
 
Di seguito i canali social dell'autrice 
 
 
 

L'Ufficiale e la Spia

Mercoledì 20 Novembre 2019 10:31 Pubblicato in Recensioni

J’accuse di Roman Polański è stato oggetto di una rovente discussione prima dell’inizio della competizione veneziana. Il film del regista polacco, per la presidente di Giuria Lucrecia Martel, non avrebbe dovuto competere nel concorso ufficiale, che assegna i premi della kermesse. Invece, il direttore della Mostra Alberto Barbera, si è schierato a favore dell’artista Polański, non giudicando l’uomo, sul quale pende ancora un’accusa di molestie sessuali. Sta di fatto che l’opera presentata al Lido aveva tutte le carte in tavola per ricevere un premio, e questo gli è stato assegnato: il Leone d’Argento – Gran Premio della Giuria. Lucrecia Martel sperava che il regista avesse girato un altro “Pirati” (1986) o un’altra “Nona Porta” (1999); in questo caso non avrebbe avuto problemi a escluderlo dal palmares. Invece, obbligata o meno, ha dovuto far dietrofront e dare un Leone di prestigio al film. Comunque, a parte la polemica, J’accuse è un film interessante, sicuramente non qualcosa di indimenticabile, ma una spy-story confezionata con precisione e con una messa in scena impeccabile.

L’ufficiale e la spia, titolo italiano, tratta del caso Dreyfus, capitano in forza all’esercito francese. Reo di aver passato informazioni strategiche ai nemici tedeschi. Ma la sua colpevolezza è solo una questione di razza, essendo il soldato di origine ebraica. Siamo esattamente nell’anno 1894 quando delle lettere compromettenti vengono intercettate ed attribuite al povero Dreyfus (Louis Garrel). Tutta l’intelligence francese, compreso il neo capitano Picquart (Jean Dujardin), non hanno dubbi: l’ex capitano deve scontare una pena durissima nella fantomatica Isola del Diavolo. La sua vita deve finire in quella cella sperduta in mezzo all’oceano. Ma Picquart scopre i magheggi politici, che hanno portato all’ingiusta carcerazione di Dreyfus. Eticamente corretto il capitano intraprende una battaglia lunga 12 anni (Dreyfus verrà prosciolto solo nel 1906), che lo porterà a scoprire la verità. In questo viaggio anch’egli troverà grandi ostacoli,che influenzeranno negativamente la sua esistenza. Ma quando entra in gioco il famoso scrittore democratico Emile Zola (François Damiens), con la sua lettera indirizzata al Presidente della Repubblica, scritto focoso che riprende per l’appunto il titolo del film “J’accuse”, l’opinione pubblica vacilla e con essa anche le più alte cariche istituzionali. Dapprima tutto sembra un fuoco di paglia, ma con l’andare degli anni le prove di colpevolezza di Dreyfus cadono come il più instabile dei castelli di carte.

Polański si affida ancora una volta al fidato amico e scrittore Robert Harris, autore del romanzo storico (2013), che ha come protagonista il malcapitato Dreyfus. I due avevano già scritto insieme la sceneggiatura di “L’uomo nell’ombra” nel 2010. Il film qui a Venezia ha ricevuto anche il premio Fipresci dalla federazione internazionale della stampa cinematografica.

Nel trafiletto pubblicato su Facebook, subito dopo la visione del film, abbiamo affermato che J’accuse è un film legato indissolubilmente al suo autore: un opera estremamente autoreferenziale. E’ anche vero che nel cinema di Polański poco non è autoreferenziale, ma non abbiamo potuto esimerci di costatarlo per l’ennesima volta. Qui il legame con il suo protagonista ghettizzato è veramente forte ed ancora ferocemente attuale. E anche qui come in passato troviamo tutte le sue ossessioni. La paura di essere costretto a rimanere in un luogo chiuso: la prigione sull’isola del Diavolo né è la testimonianza. Il timore profondo per l’acqua, che circonda irrimediabilmente la prigionia di Dreyfus. L’uomo Polański è così un’isola, tagliato fuori dal mondo. E’ uomo sotto costante accusa.

Ritroviamo nell’Ufficiale e la Spia anche quel senso spiccato per la chiusura degli avvenimenti presentati, che sublima con il ritorno alla libertà di Dreyfus. E non possiamo dimenticare certe scene prettamente teatrali, fotografate con spessore da Paweł Edelman. Le inquadrature sembrano quadri con un focus chiaro e pulito all’interno di stanze buie, colme di corruzione. La luce è la protagonista per poter fare la giusta chiarezza sugli avvenimenti.

Dal punto di vista registico c’è poco da dire, nel senso positivo del termine. La direzione è formale, compatta, meticolosa e un filo didascalica. Ed l’unico inciampo da parte del regista, che realizza un film tecnicamente perfetto, ma forse poco empatizzante per il pubblico. La macchina da presa è usata con attenzione nel mettere in risalto la cattiveria. L’energia e l’intensità che viene messa in scena per svilire e denigrare il personaggio pubblico Dreyfus, ma anche l’uomo, è possente (la scena dove gli vengono tolti i gradi in una pubblica piazza né è l’esempio lampante). I tempi sono dilatati. La verità va ricercata con scrupolo e dedizione, nulla va lasciato al caso.

J’accuse è un film contro l’antisemitismo, per un mondo che si dimentica troppo velocemente della storia e dei processi che ha subito. In Italia uscirà il 21 Novembre. Nel suo incedere con l’inchiesta si avvicina ad uno Spotlight del 900.

David Siena