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Hellhole

Sabato 16 Febbraio 2019 12:43 Pubblicato in Recensioni

Bruxelles, 2016. Lì per lì ci viene subito da pensare all’Unione europea e, visto anche quello che sta succedendo in questi periodi, alle aspre critiche verso l’Italia e alla sua politica economica. In Europa siamo considerati Hellhole, o poco ci manca. Ma l’oggetto del contendere in questa pellicola è un altro. E’ il terrore che hanno provocato gli attentati terroristici nella capitale belga nel 2016. Il titolo del film deriva da un’esternazione fatta dal presidente americano Trump, che ha etichettato Bruxelles come una città infernale. Il film scritto e diretto da Bas Devos (belga di nascita) è un emblematico affresco della situazione psicologica della città. Raccontare storie di persone che annaspano come medicamento agli accadimenti di panico e terrore. Hellhole è un opera che si prefigge di suggestionare; un film acre e malinconico. Non per forza necessario, ma nel suo intento efficacie. Il regista mette in scena dei quadri rappresentativi di vite scomposte, che impongono riflessione nello spettatore. Molto significativa la prima sequenza del film, dove degli alunni seduti ai loro banchi di scuola descrivono la città come la capitale jihadista d’Europa e che sarebbe meglio bombardarla. Poi una risata scoppia fragorosa, ma è solo un esorcismo. Le parole pronunciate fanno male e paura, il tremore è reale. Ne scaturisce un dolore da infarto, come si può vedere nella scena subito dopo. Ad una fermata della metropolitana un uomo arranca colpito da un forte malore.

Hellhole è presentato alla Berlinale 2019 nella sezione Panorama e racconta, con uno sviluppo narrativo ai minimi termini, tre vite problematiche che trasudano malessere inghiottite dalla città belga, luogo di nessuno.  

Mehdi (Hamza Belarbi) è un ragazzo algerino, che vive una vita anonima tra la sua compagnia giovanile e gli affetti. Alba (Alba Rohrwacher), donna di origine italiana, si trova a Bruxelles nelle vesti di traduttrice al Parlamento Europeo. Wannes (Willy Thomas) è un dottore di provenienza fiamminga sperduto e solo; non trova pace dopo la partenza del figlio per il servizio di leva. Stranieri in una terra che ormai è straniera anche per gli abitanti del posto. La libertà di muoversi come si vuole è soffocata da una situazione globale di paura. Lo straniero è comunque un ospite non ben accetto.

Il regista sa esattamente dove posizionare la macchina da presa, riuscendo a creare l’esatto climax di inquietudine globale (Bruxelles città piegata e percossa), fermandosi su immagini rilevanti in modo contemplativo. Estrapola, con la stessa apatia che provano i personaggi, il loro stato d’animo: cupo e depresso. E il disagio diventa palpabile.

E’ la summa della tendenza del cinema degli untimi 20 anni, dalle torri gemelle in poi. Un punto di vista e di arrivo autorale. Non si mette in scena la violenza oggettiva (nulla a che vedere con in vari “Attacco al potere”), ma quella che ne è scaturita dopo il male subito. Soggettività in panico. Una violenza subita che si protrae psicologicamente su tutti i cittadini. Nessuna bomba o sangue, solo il mutismo sordo dell’anima.

Come già anticipato precedentemente con Hellhole non si grida al miracolo cinematografico. Piccola produzione, che nel suo piccolo porta a casa il risultato, o almeno quello che promette mantiene. Bas Devos entra in una sorta di esistenzialismo. E ora dopo tutti questi eventi dove stiamo andando e cosa dobbiamo fare di noi stessi? Ora che anche la libertà è minata, il registro della nostra vita è fosco e i nostri sforzi sprofondano giù, nel posto più remoto dell’inferno.

David Siena

The Operative

Giovedì 14 Febbraio 2019 07:19 Pubblicato in Recensioni

Diciamolo senza filtri: quando ci si trova davanti ad una spy-story ci si aspettano diverse cose. Una su tutte l’azione, quella alla Mission Impossible per intenderci. Oppure una ragnatela di intrighi ben congeniata, che sublima con il colpo di scena finale; qui siamo dalle parti di John Le Carré. L’importante, qualsiasi siano le intenzioni della sceneggiatura, è che non deve mai mancare la giusta dose di suspense. The Operative purtroppo non sorregge nessuna di queste peculiarità. Nel cercare di umanizzare al massimo la figura della spia, il regista Yuval Adler (praticamente all’esordio con il cinema che conta, prima solo poche opere home made) perde un po’ la bussola e si ritrova dentro un ibrido spy-noir, dove i tempi di narrazione risultano sbagliati e la stessa si sfilaccia troppo spesso. La confezione finale è poco invitante. Se dal cast ci si poteva esaltare, Diane Kruger (Oltre la Notte) e Martin Freeman (Lo Hobbit) sono attori con la “A” maiuscola, a conti fatti anche loro si perdono nella regia del film: scialba ed anestetizzante. La Kruger ci prova a donare alla sua protagonista quelle forze e fragilità che dovrebbero contraddistinguere il suo personaggio di spia, riuscendoci solo in parte. Freeman rimane inghiottito dal suo ruolo, decisamente non adatto all’attore britannico.

The Operative è una delle proiezioni speciali della Berlinale 69. Il film scritto e diretto dall’israeliano Yuval Adler è fuori concorso. Il lungometraggio è tratto dal recente romanzo di Yiftach Reicher Atir, ex agente del Mossad. Il libro ha soli 3 anni ed è anche il momento storico che vede Rachel (Diane Kruger) entrare a far parte del Mossad. Diventa così una pedina indispensabile in Iran. Il suo scopo è quello di boicottare l’avanzata verso il nucleare degli islamici più estremisti. La sua copertura consiste nell’essere un’esperta insegnante di inglese. Ma una volta recatasi a Londra per il funerale del padre Rachel scompare. Il suo maestro di intelligence Thomas (Martin Freeman) è l’ultima persona che l’ha sentita per telefono. Il teatro degli intrighi ora si sposta in Germania, luogo dove è più semplice per Thomas proteggere Rachel. Qui la donna riesce a portare avanti le proprie operazioni richieste dall’alto.

Come già ampiamente accennato nell’introduzione della recensione The Operative è un film spento, che cerca un’originalità, ma non la trova, anzi sembra di trovarsi davanti ad una pellicola estremamente vintage. La regia è caotica; troppo rimane sepolto tra gli intrecciati meccanismi dello spionaggio e il regista non riesce nel compito di rendere interessante la quotidianità delle spie. Pedine di una scacchiera impolverata, fuori dalle loro posizioni e quindi impossibilitate a fare scacco matto.

The Operative manca di compattezza e questo probabilmente è il vero limite del film. Si cerca una nuova versione della spy-story senza però sapere bene come muoversi. In questo campo minato si va troppe volte sulle mine. I colpi di scena non consentono esternazioni onomatopeiche degne del genere. Il puntare tutto sull’aspetto umano forse avrebbe trovato più senso in una serie tv, dove i verticalismi dei personaggi possono portare vie delle intere puntate, per poi chiudere con il giusto pathos.  

David Siena

MID90S

Venerdì 15 Febbraio 2019 10:13 Pubblicato in Recensioni

La prima cosa che viene in mente pensando ad un film sugli adolescenti ambientato negli anni 90 è: qui ci divertiamo e ci rilassiamo. Possiamo così goderci un’ora e mezza di beata amarcord, condita da bella musica, perché questa certo non mancava negli anni 90. Invece Mids90 ci porta nel cuore di quegli anni e nelle caotiche vie della formazione di un tredicenne di nome Stevie (Sunny Suljic). Il debuttante alla regia Johan Hill (per intenderci è l’amico di abbuffate di Leo di Caprio in The Wolf of Wall Street) mette in scena un’opera che vuole essere un’elaborazione sentita di quella decade, usando il genere “coming of age” per spiegarci cosa successe di travolgente e devastante durante gli anni della crisi del capitalismo. Stevie è il suo Virgilio, anima pura che viene a conoscenza della parola violenza, subendola e vedendola ogni giorno. Ci accompagna attraverso un mondo depresso, in perenne difficoltà, dove le famiglie sono allo sfascio e molti giovani perdono la via. Il regista addentrandosi in queste paludi confeziona un film che ci fa vedere tutto questo, però con il pregio di non moralizzare, riuscendo così a donare all’anima del film una sorta di freschezza, che si apprezza per l’intera visione.

Presentato all’ultimo Festival di Toronto, si presenta qui alla Berlinale edizione 69 nella categoria Panorama.

Girato con formato un po’ agée: Rapporto 1,33 :1, ormai non più in uso. Questo era in voga negli anni dell’ambientazione del film. Mids90 rientra in un contesto cinematografico indie come il recente Lady Bird di Greta Gerwig. Johan Hill non ha solo diretto il film, ma lo ha anche scritto. La sua è una spec script (sceneggiatura speculativa), scritta senza una richiesta da parte di una produzione. Questi tipi di sceneggiature vengono introdotte nel mercato cinematografico per poi essere scovate da chi vuol scommettere sul progetto. 

Nella sua casa di Los Angeles Stevie vive con la madre Dabney (Katherine Waterston) e con il fratello Ian (Lucas Hedges, Manchester by the Sea). La sua vita di famiglia è turbolenta, manca equilibrio ed il fratello, piuttosto che essere affettuoso ed accomodante, è manesco e prepotente. L’estate è la stagione per fare nuove amicizie e Stevie si avvicina ad un gruppo di ragazzi amanti dello skateboard. Il luogo di ritrovo è proprio un negozio di skates, dove il tredicenne prova i primi vizi della vita: bere birra e fumare. I suoi nuovi amici sono più grandi lui e in questa comunità Stevie viene accettato dopo prove coraggiose, ma altrettanto pericolose. Impara ad andare con lo skate e non solo, si fa forte con i suoi nuovi compagni, scopre le femmine e giova della sincerità che vige nel gruppo. Ragazzi strampalati, ma trasparenti. Ecco che Stevie inizia a crescere. Nel bene o nel male la sua vita ha inizio, una lunga corsa verso l’accettazione di se stessi, alla ricerca del proprio posto nel mondo.

Il film di Johan Hill non è proprio una novità, ma ha il pregio di essere godibile. La regia ci regala qualche bel piano sequenza (i ragazzi con lo skate che vengono contro la telecamera percorrendo una strada con le macchine che gli passano sui fianchi). La metafora con la vita è evidente. I dialoghi non sono banali. Cospicuo uso dello slang, classico dei film girati negli anni 90. I cambiamenti del giovane Stevie li troviamo nel quotidiano: nelle minuzie e nelle sue piccole grandi imprese. Da qui prende il via l’identificazione di se stessi, passando da un dolore forse necessario, ma non per forza distruttivo, contro il quale combatte ogni giorno. Il giovane non ha molte coperte di Linus da portare con se. Solo nell’essere accettato dalla sua nuova compagnia trova la forza per sbocciare, errando parecchio.

Mids90 si fa forte di un linguaggio che non omette le bruttezze, diventando così un prodotto anni 90 a tutto tondo. In quegli anni il cinema cambiò prospettive. Il mondo viene spogliato e si decide di portare sul grande schermo la vita per quella che è. Un cinema che mette in mostra la violenza in società, ma anche tra le mura domestiche. Le paure contemporanee trovano il loro spazio sulla celluloide, che di lì a poco farà il grande salto al digitale. Una sorta di testamento sincero del millennio precedente. Droghe, sessualità esplicita, disturbi mentali, politica corrotta, stress e gioventù bruciata sono i temi cardine del cinema “made in 90s”.

David Siena

Light of my life

Martedì 12 Febbraio 2019 08:51 Pubblicato in Recensioni

Gli Aerosmith cantavano nella loro bellissima Amazing: “la vita è un’avventura, non una destinazione”. Qui l’avventura ce l’abbiamo, ma possiamo anche affermare che la vita è una destinazione. Sopravvivere, rimanere in vita, portare se stessi e qualcosa dei nostri cari nel futuro, questa è la destinazione di Light of my life.

Un padre (Casey Affleck), che non ha nome, è sdraiato con la giovane figlia Rag all’interno di una tenda. Fuori solo alberi ed i rumori di un silenziosissimo bosco. Le parole, che rompono il silenzio, raccontano di una volpe che mette in salvo l’amata consorte, ma anche molti altri esseri viventi. Ed è il genitore che con dolcezza e convinzione narra la storia alla figlia, dove troviamo diluvi ed arche a completare la biblica novella (sequenza meravigliosa che incarna appieno il senso del film). Il mondo al loro risveglio non è quello solito, una malattia ignota ha sterminato completamente il genere femminile. Il contesto distopico obbliga il padre e la figlia a vivere da eremiti ed a nascondersi perennemente. La ragazzina è camuffata da maschio per la costante paura di subire violenze dettate da un mondo in cui gli uomini ucciderebbero per una donna. Soprattutto ora che Rag lo sta diventando, Affleck ha il suo ben da fare per proteggerla da ogni persona che incontrano, che incarna un possibile pericolo.

Light of my life è un film che ha molto in comune con “I figli degli uomini” di Alfonso Cuaron e con The Road di John Hillcoat, quest’ultimo tratto dal romanzo capolavoro di Cormac McCarthy.

Casey Affleck, al suo debutto dietro la macchina da presa, si focalizza sulla forza dell’amore di un padre verso la figlia. Non in concorso qui alla Berlinale 2019, il film rientra nella line-up della sezione Panorama. Il premio Oscar per Manchester by the Sea scrive, dirige ed interpreta un padre che mette in risalto le proprie paure più profonde, sorretto dalla figlioletta Anna Pniowsky.

Casey Affleck confeziona un survivor movie intimo. Concentra la sua regia sul rapporto padre/figlia. Il regista cesella con cura queste immagini, le smussa, le accarezza, le coccola e così facendo gli dona respiro e profondità. Questi sono i momenti clou del film. Sembrano poveri in un primo momento, ma il contenuto è robusto e vigoroso. La sua è una sceneggiatura disidratata di materialità, da pochi punti di riferimento, decontestualizza e così facendo il climax è di paura perpetua. Il film ti tiene sempre lì, sull’attenti.

Light of my life pone la sua lente d’ingrandimento sull’umanità e sui suoi istinti, ma anche sulla disperazione, sugli affanni ed infine sulla speranza. Il film guarda verso la società contemporanea, che non sa bene come sarà il proprio futuro. Incertezza uguale a debolezza. Un’umanità senza nessun punto di riferimento fa da contraltare alla ricchezza di sentimento tra padre e figlia, dal quale scaturiscono emozioni palpabili e la speranza di un futuro. Assistiamo al ribaltamento dei ruoli, dove la figlia diventa genitore. Una sorta di   angelo salvifico, non solo del padre, ma anche del genere umano.

Il tutto è ambientato nei boschi e in quelle strade di provincia, nessun grattacielo o l’ombra di una società post-moderna, dove la genuinità regna sovrana, o comunque regnava. Incertezza che globalizza tutto il nostro mondo, anche quello più sincero e naturale.  

David Siena