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La Llorona

Mercoledì 17 Aprile 2019 21:12 Pubblicato in Recensioni
Da Michael Chaves, stesso regista di The Conjuring 3, arriva in tutte le sale italiane un nuovo horror basato sulla leggenda della Llorona, spettro appartenente al folklore dell’America Latina. La leggenda trae le sue origini dalla mitologia aborigena delle popolazioni preispaniche nella quale si narra di una donna, in particolare una madre, che avrebbe annegato suo figlio per vendicarsi del marito adultero. Realizzato il grave errore, ella vagherebbe, senza una meta, alla ricerca di un bambino che possa sostituire il suo, annunciando la sua presenza con un caratteristico pianto disperato. Ambientato nella Los Angeles degli anni ‘70, il film segue le vicende di un’assistente sociale che, a causa del proprio lavoro, si trova a contatto con una delle madri vittime della Llorona che, invano, sta tentando di proteggere i suoi figli segregandoli in casa. Tutti i rituali salvifici della donna vengono interrotti “in favore” del recupero dei bambini che, non più protetti, muoiono affogati per mano dello spettro. Sin dall’incipit tutto pare poco coinvolgente, in una narrazione che si sviluppa a poco a poco in un banale groviglio di cliché, cambiando solo la natura della minaccia che incombe sui protagonisti, ma non lo svolgimento dei fatti. L’assenza di elementi capaci di dare colore finirà con l’appiattire il tutto confinando il film tra quei poco riusciti thriller degli ultimi anni. Ogni cosa è già vista a tal punto che il pensiero che ci assale alla fine è che si potrebbe risparmiare tranquillamente il costo del biglietto, preferendo qualcosa di meglio. Sono effettivamente presenti tutti quegli elementi comuni alla maggior parte dei classici horror così eccessivamente mainstream da non far divertire più lo spettatore: jump scare poco studiati, propaganda religiosa che finisce con l’annoiare e personaggi dalle reazioni, spesso e volentieri, del tutto innaturali. Probabilmente un pubblico di appassionati dell’universo The Conjuring, con il quale La Llorona condivide parecchie somiglianze, troverà ciò che sperava di vedere, per tutti gli altri, il pericolo del “già visto” spaventerà e non poco.
 
Valeria Marra
 

 

Il 22 marzo scorso è uscito Grief Is The Thing With Feathers di Teho Teardo. Otto intensissime tracce sulla scia dell’elaborazione di una perdita. L’idea nasce nel 2017 a seguito della lettura dell’omonimo libro di Max Porter (Il dolore è una cosa con le piume, edito in Italia da Guanda) alla quale, un mese dopo, si accoda il regista e scrittore Enda Walsh (tra i suoi lavori più importanti nella scrittura Lazarus con David Bowie e Hunger di Steve Mc Queen) che decide di farne uno spettacolo teatrale. Cillian Murphy ne è il protagonista, ora in scena al St. Ann’s Warehouse di New York fino a metà maggio e già sold out nel mese di aprile al Barbican di Londra.
L’album si fregia di validissimi musicisti oltre che di collaborazioni altisonanti del calibro di Joe Lally (Fugazi) al basso. Grazie ad un ascolto privato e riservato a pochi, ho potuto sentirlo in anteprima, nello studio dove è stato creato, e questa intervista è frutto di questo straordinario incontro. 
 
 
Per partorire questo album hai impiegato quasi 2 anni, quanto è cambiato dal 2017?
 
È cambiato un bel po’ c’erano delle cose che ad un certo punto non mi piacevano più e ho dovuto limare dei passaggi che in scena vanno benissimo ma non hanno lo stesso effetto dentro un disco.
Al 95% la musica è la stessa ma con alcune variazioni. Quando sei in uno spettacolo devi interagire con il luogo, con necessità degli attori e altre di scena e anche l’ascolto di un album ha necessità ben precise, ci sono altri livelli di dinamiche, altre durate. Per lo spettacolo importante è stato anche il buon rapporto con Cillian,con cui già mi ero trovato a lavorare. Lui di fatto è un musicista mancato, avendo iniziato la sua carriera nella musica ma poi, proprio grazie ad Enda, si è riscoperto attore.
 
 
 
È necessario un diverso approccio al cinema rispetto al lavoro per il teatro?
 
No, per me si tratta sempre di fare della musica che deve trovare una via per un progetto. Non  ho uno stile per il teatro, uno per il cinema, questo mi sembrerebbe una stronzata. 
Quando ero ragazzino andavo al cinema e sentivo delle colonne sonore, compravo il disco e talvolta succedeva che aveva tutt’altro effetto non funzionando più o viceversa, ad esempio con la colonna sonora di Paris Texas sono nati bambini anche di persone che conosco. Bisogna tenere presente però che la musica per il cinema o per il teatro deve essere più semplice avere meno elementi, in genere più è elaborata e più tende a sgonfiarsi.
 
Qual’è il tuo riferimento per la composizione nei film o nel teatro?
 
C’è un disco fondamentale che dovrebbe essere studiato ed è la colonna sonora di Sandokan dei De Angelis, quel lavoro ha i titoli che corrispondono alle sequenze del film e quando lo ascolti hai sempre quell’unico riferimento e inevitabilmente questo arresta tutta una serie di possibilità che si potrebbero avere. Se cristallizzi la musica in un punto preciso della narrazione riduci la potenzialità della musica stessa. La diversità del teatro è che comunque lo spettacolo ha un certo numero di repliche ma poi finisce rischiando di trasformare l’ascolto successivo in qualcosa di tendenzialmente nostalgico. 
Io perciò compongo basandomi unicamente sulla sceneggiatura e sui colloqui che ho col regista, questo mi garantisce maggiore libertà.
 
Noi in Italia abbiamo codificato un modo di fare musica per il cinema, penso ad esempio ad Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto di Morricone che raggiunge vette altissime. Quando ho iniziato a far questo lavoro mi sono domandato che tipo di impostazione volessi seguire, inserirmi in una scia che mi avrebbe portato dritto al piano bar oppure fare altro? Io vengo dal punk rock e ho ritenuto che ci potesse essere anche un altro modo per avvicinarsi ad un racconto. Facendo musica senza basarmi unicamente sulle immagini hai musica svincolata ma legata alla storia, entrando in un gioco che dà vita anche ad una serie di contraddizioni, in una ricerca di connessioni tra quello che ti lancia la musica e quello che evocano le immagini. Si creano così infinite possibilità perché l’immagine ha un perimetro ben definito mentre la musica ha un raggio molto più vasto.
 
 
Hai un compositore di riferimento?
 
I miei compositori di riferimento sono i Cramps, il rock’n roll primitivo e brutale, essenzialmente elementare, perché ci sono talmente pochi elementi che o funzionano oppure no, non c’è scampo. Con la tecnologia, i mezzi, un’orchestra, si può in qualche modo confondere le acque per far passare degli andamenti come delle composizioni invece spesso è soltanto aria fritta. Mi piace quel tipo di musica che poi deriva dal blues degli anni 20/30 dove c’era soltanto un uomo con una chitarra e per allargare le cose usava un collo di bottiglia, erano a quel tempo gli archi dei poveri perché, non potendo permettersi altro, davano in questo modo una distorsione. Amo il concetto di ultraeconomia che con pochissimo devi trovare una soluzione. Molta musica che arriva dal cinema non è così e a me stanca tanto. Le cose che mi colpiscono del cinema sono poche, penso ad esempio al lavoro che ha fatto Sakamoto che però non veniva dal cinema, o Trent Reznor che è un gigante ma arriva da un altro ambito musicale, e secondo me è necessario che dopo cento anni di colonne sonore si cambino un po’ le cose. 
 
Una cosa fighissima dei compositori italiani è che di solito hanno sempre il budget più basso rispetto a tutti. Morricone faceva 50 film in un anno, adesso nell’ipotesi migliore uno ne fa tre, quattro, all’epoca lui aveva molto meno tempo per lavorarci il che vuol dire che tutta una serie di cose non le poteva fare e doveva operare delle scelte, questo modo di lavorare continua ad intrigarmi molto. 
 
Sembra tu abbia un marchio ben chiaro oltre che una forte vicinanza a Londra.. 
 
Sono diversi anni che lavoro assieme ad un certo team e Londra è sempre la base dell’operazione e per me è diventato un luogo di riferimento importante e di conseguenza lo è per la mia musica. Mi fa piacere che si senta che c’è un marchio perché quello che faccio è tentare sempre di cancellarlo per poi immancabilmente ritrovarlo. Uno dei miei gruppi preferiti sono i Ramones che hanno un sound ben codificato che si riconosce nell’immediato. È importante avere uno stile preciso che cambia e si trasforma nel tempo ma che faccia sempre riferimento a ciò che precede e ciò che verrà.
 
 
Qual’è il messaggio che vorresti lanciare e c’è un’evoluzione personale all’interno di questo album? 
 
Non ho messaggi politici palesi, però se penso alle persone che hanno suonato in questo disco, al tipo di circuitazione che ha questa musica è già un tipo di messaggio evidente del mio modo di pensare. È interessante anche vedere che queste idee possano poi avere una diffusione ultramainstream come al Barbican di Londra, però arrivano da un altro punto di inizio e questo è già un messaggio. È comunque una questione talmente privata da diventare politica. Non sono assolutamente in sintonia con l’andamento politico di questo paese e credo che questa musica lo manifesti pienamente. È una musica che non è allineata in alcun modo con gli standard estetici che, sia in modo mainstream che underground, sono imperanti, è un no evidente a tutto questo. PJ Harvey diceva che non serve fare delle gran critiche basta fare dei pezzi e non serve nemmeno fare delle interviste per dirlo, basta fare musica. 
In Italia che musica esce? Ok c’è tutto quello che sappiamo ma c’è anche questo e poi tu le cose le metti tutte lì vicine e le cose parlano da sole, dipende anche da chi vuole ascoltare e da come vuole ascoltare.
 
È una musica che però ritrova le sue basi nel passato e che quindi dovremmo già aver metabolizzato, secondo te rimane ancora solo un ascolto di nicchia? Cosa è successo, ci siamo  arrestati? 
 
Cosa io penso degli ultimi 20 anni di questo paese è che ha iniziato a guardarsi l’ombelico sempre più spesso fino a non vedere più niente. C’è stata un’invenzione del rock italiano che in realtà era rock anglosassone ma solo cantato in italiano e questo secondo me è un problema serio. 
Io ad esempio suono perché a 17 anni un mio amico m’ha portato a vedere James Brown a Pordenone e quando l’ho visto sono rimasto folgorato capendo che volevo fare veramente musica nella vita, essere una presenza sul palco che dice delle cose, io volevo far qualcosa: è come un processo di impollinazione dove c’è un seme nell’aria che ti feconda. Se tu metti in un sistema delle cose sterili non fecondano niente ed è evidente. La musica rock è scomparsa ed è strano che sia letteralmente sparita nelle nuove generazioni. Anche in altri ambiti non c’è tutto questo gran fermento e ho la certezza che all’inizio degli anni ‘90 si sia fatta questa invenzione del rock italiano che abbia distrutto una buona fetta di musica e soprattutto anche un pubblico di ascoltatori. Io sono italiano ma non rappresento l’Italia quando suono, è importante non essere ascrivibili ad una precisa nazione perché non facciamo musica etnica, noi suoniamo per tutti. Negli anni ‘90 sono comparsi una serie di imitatori italiani a rifare quello che facevano gli stranieri. C’è stato un atteggiamento di autoreferenzialità imbarazzante, nonostante vi siano un sacco di artisti talentuosi costretti a tagliare la corda. 
Un esempio di tutto ciò può essere dato da Joe Lally, un bassista impressionante, veniva spesso da me perché ha abitato 8 anni a Roma e siamo molto amici, non l’ha mai chiamato nessuno a suonare nel periodo che ha passato qui. È un fuoriclasse, oltre ad essere un uomo che ha avuto un’esperienza clamorosa nella musica, avrebbero potuto contattarlo prima di fare ritorno a Washington 2 anni fa, invece non sapevano nemmeno chi fosse, questa è una cosa davvero significativa.
 
 
Max Porter parlando del tuo album dice: è difficile ascoltare la musica senza sentirsi tristi ma anche pieni di speranza, sei d’accordo?
 
Sì sono d’accordo nel senso che la mia musica è nel dark side delle cose che è un punto di osservazione, il che non significa che io abbia uno sguardo pessimista ma che guardo da un’altra angolazione per vedere la realtà. 
 
Mi è venuta in mente una bella intervista a Jim Jarmusch, in occasione di un suo film dove ho lavorato, nella quale diceva che l’hanno ispirato i cani nel guardare, perché i cani quando osservano inclinano la testa per capire meglio. Nello stesso film c’è Blixa che dice io per capire una cosa devo rovesciarla e, sempre in questo film, c’è Bowie che dice io per mettere bene a fuoco una cosa devo farla saltare per aria. Sono tutte espressioni abbastanza forti, quasi negative, ma in realtà è il contrario. Qui c’è un punto d’osservazione che parte dall’oscurità ma poi guarda verso una possibilità. Credo che questo sia il mio lavoro più oscuro e che sia anche il disco dove la maggior parte degli elementi dentro spingono per venire alla luce. 
 
Sembra un percorso di elaborazione del lutto anche in base alla scaletta che hai scelto, questa rottura dell’abitudine fino all’ultima traccia dove si ha una sensazione quasi di lasciare andare dopo aver raschiato il fondale, di risalire per riprendere aria.. 
 
Il tema principale è tutto giocato sulla scia del ricordo e sull’elaborazione della perdita. Poco tempo fa se n’è andata la mamma di Enda e volevamo qualcosa che servisse a rievocarla, sia una voce quindi che una sonorità ricercata e adatta a questo scopo, la voce di Susanna Buffa non ha un testo sono solo dei vocalizzi e anche la melodia è molto contenuta, è quasi un ectoplasma sonoro che arriva ad un certo punto e poi se ne va.
 
 
Ma come si può musicare una perdita? 
 
Evocare qualcuno che non c’è è un modo per raccontare una perdita, mi allungo così tanto verso te per cercarti ma nel buio non ti trovo. Questa voce questo fa, si appoggia a tutta una serie di passaggi di pizzicato di violoncello e viola che non portano da nessuna parte e ad un certo punto si srotola verso una parte musicale più melodica, ma la voce gira intorno a se stessa ed è come se brancolassimo un po’ nel buio. 
Uno dei modi per approcciarci a questo lavoro con Enda è stato parlare delle nostre rispettive madri domandandoci dove fossero adesso, come qualcosa che era presente nei detriti dei nostri discorsi. 
Si evoca qualcuno che non c’è più forse per prendersi cura di quelli che sono rimasti. Molti di noi hanno avuto dei vuoti difficili da colmare e nella musica io ho trovato uno dei modi per farmela passare.
 
Significativa è stata anche la collaborazione passata di Enda con Bowie per Lazarus. Bowie, quando seppe della sua malattia, lo contattò dicendogli è l’ultima cosa che faccio e vorrei farla con te, Enda ebbe un infarto per il carico di responsabilità. E a proposito di perdite ci sono montagne di provini che Bowie mandava tutte le mattine ad Enda tramite pc, perché per un periodo lavoravano a distanza. Un giorno Enda dimenticò questo computer in aereo e tutto quel materiale è andato perso per sempre.
 
 
Chiara Nucera

A maggio la prima edizione della Muestra de Cine Mexicano

Lunedì 22 Aprile 2019 22:46 Pubblicato in News
Si tiene a Roma, dal 17 al 19 maggio 2019 – a ingresso gratuito fino a esaurimento posti - presso la Casa del Cinema, la prima edizione della “Muestra de Cine Mexicano”. Fondato e diretto da Cecilia Romo Pelayo, il festival nasce dal desiderio e dalla volontà di creare uno spazio alternativo e internazionale per il cinema messicano. 
 
“In questa prima edizione – nelle parole della direttrice artistica - si presenterà un programma audace, con una scelta di film che raccontano storie insolite, sconvolgenti e commoventi, insomma, difficili da dimenticare!”. Una scelta che unisce i lavori contemporanei dei registi messicani ai grandi classici. In programma, l'anteprima europea di “Silencio”, scritto, diretto e prodotto da Lorena Villarreal, che sarà ospite del festival. Il film, prodotto anche da Denisse Chapa e interpretato da Rupert Graves, John Noble e Melina Matthews, racconta di Ana, donna single e psichiatra di successo che conduce una vita tranquilla occupandosi di suo figlio e del nonno, il dottor James White, uno scienziato riconosciuto a livello mondiale, che ora lotta contro la demenza. Costui nel passato aveva scoperto – e nascosto per non farla cadere in mani sbagliate - una pietra dai poteri incredibili, nella Zona del Silencio, un luogo misterioso in cui succedono fatti inspiegabili, conosciuta come il “Triangolo delle Bermuda” del Messico. La vita di Ana viene sconvolta quando qualcuno viene a conoscenza dei poteri della pietra e lei si vede costretta a trovarla per salvare suo figlio. Già regista di “Las Lloronas”, uno dei successi più sorprendenti della stagione 2004 in Messico, Lorena Villareal è stata produttrice associata del film “Acusada”, di Gonzalo Tobal e produttrice esecutiva del film “Allá en el rancho”, di prossima uscita. Presidente di una delle principali agenzie di marketing e pubblicità messicane, ha una lunga carriera di successo nel settore finanziario messicano. 
 
 
La preziosa cinematografia messicana del passato sarà esaltata quindi dalla proiezione de “La Trilogía de la Revolución” di Fernando De Fuentes, che rappresenta il cinema degli anni Trenta messicano dell'epoca pre-industriale. “Grazie al virtuosismo, alla sensibilità e all’ingegno dei suoi registi – continua la direttrice artistica – il Messico dimostra sempre più al Mondo la propria tenacia, abilità e passione per la Settima Arte, premiato da riconoscimenti a livello internazionale che aprono la strada a nuovi e brillanti cineasti messicani”. 
 

Hellboy

Giovedì 11 Aprile 2019 09:52 Pubblicato in Recensioni
Sono trascorsi ben più di dieci anni dall’ultimo capitolo dedicato all’antieroe mefistofelico più singolare e irruento di sempre: HellBoy. The Golden Army (del 2008) è stato infatti l’ultimo film della saga diretta da Guillermo Del Toro, apprezzata da moltissimi, e che ha segnato in modo indelebile l’universo creato Mike Mignola. Il film che uscirà al cinema l’11 aprile si presenta quale reboot della saga, e questa volta vedrà dietro la macchina da presa il regista Neil Marshall, un nome che non è nuovo a chi di fantasy e horror se ne intende( egli ha infatti diretto alcuni episodi de Il trono di Spade e la pellicola horror di culto The descent).In questo reboot della saga, Hell Boy torna sullo schermo più indemoniato che mai, pronto ad affrontare un nemico tanto attraente quanto spietato come la bellissima strega Nimue, la Regina di Sangue, la qule assetata di vendetta intende eliminare l’intera umanità. Chiamato in Inghilterra per combattere dei giganti mostruosi e famelici, il demoniaco detective del BPRD, dovrà sconfiggere la forza oscura di Nimue, in uno scontro titantico senza precedenti. Hell Boy firmato Neil Marshall, gode di tutti quegli elementi più prossimi al fumetto originale, come ad esempio quella marcata componente gotica ( molto cara a Mignola) e la ricerca continua di scontri al cardiopalmo tra personaggi. La regia di Marshall spinge sull’accelleratore per quel che riguarda il ritmo, mettendo forse troppa carne al fuoco, tanto da risultare in alcuni passaggi un po’ troppo frastornante. Tuttavia, il film sembra funzionare proprio in virtù di quel tono politicamente scorretto che strizza l’occhio al divertimento, alla continua contaminazione tra epica fantasy ed action più disimpegnato. Di certo Neil Marshall non è un regista dato in prestito al genere, muovendosi da sempre tra azione, sparatorie e scontri fisici. La sua regia è pertanto disinvolta e naturale, rendendo il film piuttosto godibile sotto il profilo della fluidità. Dietro il mastodontico diavolo c’è l’attore David Harbour ( già noto al grande pubblico per il ruolo di Jim Hopper, capo della polizia in Stranger Things), che ha da subito convinto Marshall, un po’ per la sua prestante fisicità e un po’ per la sua profonda cura nel calarsi in ogni ruolo in modo impeccabile. Per Harbour, girare alcune sequenze è stato molto complesso e faticoso, per via delle protesi e dell’ingombrante tuta addosso. Tra le scene più elaborate infatti, è da annoverare quella della sanguinosa e sfibrante lotta con i giganti, uno dei momenti più ad alta tensione dell’intero film, nonché scena memorabile per effetti speciali e struttura sonora di questo HellBoy. Nel complesso, a dispetto delle numerose stroncature avvenute oltreoeano, HellBoy di Neil Marshall è un esperimento riuscito. E se la  sua virtù è quella di intrattenere senza troppe pretese, alternando diversi registri, il suo difetto è quello di chiudere frettolosamente la lotta finale, che di epico ha ben poco.
 
Giada Farrace 
 
voto: 3/5
 
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Nato dalle matite di Mike Mignola, il personaggio di Hellboy torna a distanza di 11 anni dalla coppia di film ad opera di Guillermo Del Toro, due ottimi esempi di cinecomic in tempi in cui questo genere di pellicole aveva sicuramente meno appeal tra il pubblico e riceveva meno riscontro anche da parte della critica. Tuttavia la mano dell'istrionico regista messicano contribuì ad elevare i due episodi precedenti allo status di cult, anche tra i meno avvezzi alle letture fumettistiche d'origine. Questo nuovo e atteso capitolo si confronta quindi per forza di cose coi precedenti, e la storia che fa da sfondo a questa nuova vicenda è legata ad un particolare ciclo narrativo, a detta del creatore uno dei più caratteristici ed efficaci per rilanciare il diavolo rosso sul grande schermo. L’intreccio prende il via dall'astio di una antica strega (Milla Jovovich, badass girl di Resident Evil), resa inerme per mano di Re Artú, grazie alla famigerata Excalibur, e dalla sua sete di vendetta nei confronti del genere umano su cui brama di scatenare nuovamente i pieni poteri. L'attore scelto per personificare Hellboy è David Harbour (già potuto apprezzare nella incensatissima Stranger Things) che compie più che discretamente il compito, riuscendo a dar corpo a una figura che come prestanza scenica non fa rimpiangere Ron Perlman, iconico interprete dei precedenti capitoli. Purtroppo però i problemi nascono quando il protagonista decide a sproposito di aprire bocca, con una serie di linee di dialogo e battute fuori da ogni tempo comico e la maggior parte delle volte piuttosto forzate, alla stregua dei peggiori siparietti tra i Vendicatori dei recenti film Marvel. In generale è la sceneggiatura che appare piatta e banale, con personaggi secondari assolutamente persi nello sfondo della vicenda, e coprotagonisti che faticano a ritagliarsi un ruolo di alcun rilievo, emblematico esempio nella figura del Professore Broom (Ian McShane), padre adottivo di Hellboy, che dovrebbe godere di uno spessore sicuramente maggiore per giustificare comportamenti e dinamiche a schermo. Lo sviluppo stesso segue un canovaccio fin troppo classico e scontato, piuttosto sfililacciato nell’intreccio della trama e nell’introduzione dei nuovi compagni d'avventura, col risultato di una serie di situazioni che si spostano di location e scopo principalmente per inerzia. Il regista, Neil Marshall, all'opera precedentemente in Doomsday e in alcuni episodi di serie tv tra le più chiacchierate (Trono di Spade, Westworld), si comporta al meglio delle sue possibilità per gestire le scene d'azione, che risultano montate al giusto ritmo e con una buona dinamica, ma il lavoro viene poi inficiato da una pessima CGI, nei suoi difetti piuttosto vistosa. Peccato perché in conclusione vale invece la pena citare che l'atmosfera fumettistica viene ricreata sufficientemente bene, che rispetto ai capitoli precedenti si avvicina a toni più dark, meglio confacenti alle caratteristiche originali dell'opera. 
 
Omar Mourad Agha 
 
voto: 2/5