Fuoritraccia

Newsletter

Messaggio
  • EU e-Privacy Directive

    This website uses cookies to manage authentication, navigation, and other functions. By using our website, you agree that we can place these types of cookies on your device.

    View e-Privacy Directive Documents

Home » I Nostri Corsi » Info
A+ R A-
Info

Info

E-mail: Questo indirizzo e-mail è protetto dallo spam bot. Abilita Javascript per vederlo.

Per sempre di Alessio di Cosimo vince il Corto d'Argento

Venerdì 07 Giugno 2019 21:01 Pubblicato in News
"Per sempre" di Alessio di Cosimo si aggiudica lo speciale Corto d'Argento 2019, premio cinematografico del Sindacato Nazionale Critici Cinematografici assegnato ai cortometraggi. L'opera, interpretata dall'attore internazionale Lou Castel, era già stata vincitrice di altri prestigiosi Festival.
 
 
Lou Castel, pluripremiato artista cresciuto in Giamaica, a New York e a Stoccolma è apparso in circa 100 film di nazionalità, generi e budget diversi. Ha lavorato con registi italiani, oltre che tedeschi e francesi, rivelandosi come interprete ribelle ed eclettico. In Italia sono noti i suoi ruoli con Liliana Cavani, Salvatore Samperi, Ettore Scola, Marco Bellocchio.
Il regista Alessio Di Cosimo ha voluto ringraziare tutti coloro che hanno contribuito al successo del cortometraggio tra cui la produzione Inthefilm di Giampietro Preziosa e Marco S. Puccioni, in collaborazione con Dreamworldmovies, la distribuzione Premiere Film, la responsabile comunicazione Francesca Piggianelli, il direttore della fotografia Sandro Chessa,al montaggio Annalisa Schillaci, lo scenografo Andrea Urso, i costumi Isabel Ruiz,il trucco Gennaro Marchese, le musiche Paolo Costa,il suono Vincenzo Santo .
 
Il cortometraggio verrà omaggiato con una proiezione speciale il 23 giugno presso Cineland alle 20.00 nell’ambito dell’Ostia International Film Festival, occasione per il regista anche per annunciare le riprese della sua opera prima.
 

Selfie

Martedì 04 Giugno 2019 17:08 Pubblicato in Recensioni
È possibile uscire da una realtà in cui siamo nati e cresciuti? E se riuscissimo ad uscirne, una parte di essa continuerebbe comunque a risiedere in noi? È possibile ammettere all’interno di un sistema codificato di regole sociali una deviazione dalla norma e con quali conseguenze?
Selfie è un’opera pura, scarna, disincantata, priva di fronzoli o artificiosità sceniche. Agostino Ferrente, dopo il prezioso Le cose belle, fa esattamente ciò che un documentarista dovrebbe fare: si mette da parte affidando ai protagonisti la narrazione di se stessi. Ne deriva un lavoro lontano dalle ipocrisie, al tempo stesso doloroso ma che, come ogni cosa sofferta, non esclude il suo lato romantico e dolce, perché sofferenza e amore sono spesso complementari. Lontano dai cliché a cui il racconto cinematografico ci ha ormai tristemente e noiosamente abituato, dalla vita di due sedicenni Alessandro, garzone di un bar, e Pietro, barbiere disoccupato che si tiene in allenamento con amici e parenti, e dalla loro forte e tenera fratellanza, nasce tutto. Loro i protagonisti, loro i registi, che con cellulare in mano riprendono le loro giornate. Nel corso  di una torrida estate napoletana ci rendono partecipi dei loro pensieri, decidono e ragionano su cosa sia giusto mostrare, se solo le cose belle del Rione Traiano, quartiere alle cronache per le tristi vicende di spaccio e criminalità, perché di quella realtà già se ne parla abbastanza, come dice Pietro, oppure tutta la verità, il bello e il brutto, come vorrebbe Alessandro. E si finisce col mostrare ogni cosa, compresi i sogni e le difficoltà dei suoi giovani abitanti che immaginano un futuro sperando di andare via da quel luogo, anche se gli affetti li legano o talvolta li spronano a lasciare, rendendosi amaramente conto che per alcuni, i predestinati, il balzo sarebbe paragonabile ad un sogno e basta. Pietro e Alessandro avevano un altro fratello acquisito, Davide Bifolco, ucciso dalle forze dell'ordine una notte, casualmente, perché nonostante il giovane fosse disarmato e di spalle, viene scambiato per un pericoloso ricercato e si fa fuoco su di lui, poi raccontando di essere maldestramente inciampati facendo inavvertitamente partire un colpo fatale. In realtà Davide era un ragazzo come tanti, la cui famiglia ora non trova pace e di cui un suo fratello di sangue si è lasciato morire per il dispiacere, dopo il secondo grado di giudizio che nega almeno un risarcimento morale per quella vita recisa. Un martire di un sistema malato, l’ennesimo ultimo che non trova giustizia, resta ad emblema di questa terra contratta alla barbarie la sua immagine dipinta su un muro del quartiere, a monito sempiterno che tutto ciò non dovrebbe mai accadere. 
Tanta verità ci arriva da una delle testimonianze raccolte da Pietro e Alessandro, quella di uno spacciatore che, incappucciato e dalla voce contraffatta, ci spiega il triste senso delle cose, quello che i veri criminali vivono  in quartieri bene circondati da lusso e opulenza, e spesso fanno parte delle classi sociali che contano, sono loro a muovere i fili della manovalanza dello spaccio, che diventa foriero di semplici operai del mercato della droga, per la maggior parte dei quali unica via (facile) per la sopravvivenza. È la logica del sistema in cui non c’è niente da stupirsi. Fin da quando vengono al mondo, maschi e femmine hanno ruoli prestabiliti, gli uomini delinquono, le donne tengono la famiglia in piedi e aspettano mostrando così il rispetto al maschio a cui si sono legate. È tutto ben chiaro e tristemente cristallizzato. Ma in ogni sistema c’è sempre chi tende ad uscire dalla regola, c’è chi sogna e chi forse con gli strumenti adatti a furia di sognare ne uscirà.
Qui non c’è giudizio, c’è solo mostrare per comprendere e far luce, facendo della conoscenza una base per combattere ignoranza e pregiudizio, delle classi sociali più elevate verso le ultime, di quel “noi” confezionato e stigmatizzante nei confronti sempre di un “loro”, perché anche all’interno di quel “loro” esisteranno sempre differenze sostanziali e alternative valide.
 
Chiara Nucera

L'uomo che compro' la luna

Giovedì 02 Maggio 2019 23:14 Pubblicato in Recensioni
Due agenti segreti italiani scoprono che un abitante di un piccolo paese della  Sardegna si è impossessato della luna con uno stratagemma legale risalente a cinquant’anni prima e, tramite i servizi segreti americani, mandano in missione una spia che sanno avere origini sarde seppure ben nascoste e mimetizzate dall’accento meneghino e da una tintura bionda per capelli.
Il film è una sorta di romanzo di formazione in cui il protagonista cresce ritrovando la sua vera essenza e le sue radici nella Sardegna, patria del nonno, e allo stesso tempo sfondo caustico, duro e spigoloso.
Il prologo mostra un uomo su un’ape che incontra di fronte a lui, su una distesa desertica, un asino che cocciutamente non accenna a scostarsi per far passare l’ape e il suo guidatore che, allo stesso modo, non devia di un millimetro dalla sua direzione nonostante lo spazio disponibile.
Con questo riferimento a uno dei più comuni stereotipi sardi (l’essere testardi) si apre la seconda opera del regista Paolo Zucca che, dopo “L’arbitro”, raggiunge una maturità artistica maggiore e sforna un piccolo gioiellino cinematografico. 
Nonostante l’intera trama sia strettamente legata all’essenza e all’anima dell’isola, il film è assolutamente godibile per ogni tipo di pubblico. Zucca rende merito alle caratteristiche più peculiari dei suoi corregionali utilizzando come espediente narrativo gli stereotipi che li descrivono, senza però farne macchiette ridicole. L’iconografia sarda diventa simbolo di una provincia che non c’è più e che esprime tutta la profonda identità di un popolo profondamente radicato nei propri confini. Si ride in modo caustico e improvviso e senza mai strizzare l’occhio ad espedienti prosaici ma sfruttando la naturale predisposizione del carattere isolano.
Kevin Pirelli (Jacopo Cullin) si ritrova come nel più tradizionale viaggio dell’eroe a girare la Sardegna in cerca di qualcosa e qualcuno che poi finirà per essere più un viaggio interiore che utilitaristico.
La missione deve essere eseguita in modo perfetto e quindi occorre un addestramento per mimetizzarsi al meglio nel territorio. Gli agenti segreti convocheranno quindi un precettore: Badore (Benito Urgu) un sardo doc che incarna perfettamente l’archetipo che vuole rappresentare e che, insieme al protagonista compone una coppia comica irresistibile.
Oltre agli elementi comici e picareschi “L’uomo che comprò la luna” si offre allo spettatore anche in una veste poetica. C’è il tema della lealtà, del rispetto, dell’amore tra coniugi e dell’adorazione per la propria terra e le proprie radici. C’è un’aria surreale, quasi favolistica con un pizzico di fantascienza che, traslata in una dimensione provinciale, evoca degli scenari improbabili e proprio per questo interessanti. 
Esattamente come le caratteristiche degli sceneggiatori questo film ha tre anime perfettamente correlate tra loro: quella dello stesso Zucca che compie un atto di amore, non privo di critiche, verso la sua terra; quello di Geppi Cucciari e il suo umorismo connaturato alla sua “sardità” e quello di Barbara Alberti e del suo tocco intellettuale e femminile.
Questi tre aspetti sono perfettamente inseriti nella trama narrativa che riesce ad essere credibile nonostante l’apparente prologo surreale.  
La godibilità di questo film resta intatta per tutta l’ora e quarantacinque minuti, appassionando lo spettatore che si affeziona inevitabilmente al protagonista un po’ goffo che alla fine sceglierà se portare a termine il suo lavoro o ritrovare la sua anima sarda nei suoi anfratti più intimi, rispettando gli insegnamenti del suo precettore.
 
Valeria Volpini

Ted Bundy. Fascino Criminale

Giovedì 09 Maggio 2019 22:45 Pubblicato in Recensioni
Fascino criminale è il sottotitolo italiano del film che pone subito all’attenzione dello spettatore il primo elemento che contraddistingue il protagonista della pellicola: l’attrazione irresistibile che un uomo bello e carismatico esercita sulle masse, attraverso il veicolo dei mass media, reso celebre da un dubbio sinistro che nelle menti di un pubblico, soprattutto femminile, lo rende ancora più magnetico. Ted Bundi è innocente come si professa o è colpevole come tutti gli indizi sembrerebbero provare? Il biopic risponde a questa domanda e nutre la curiosità dello spettatore con fremente suspense fino all’ultima scena. E’ questa la qualità maggiore dell’opera di Joe Berlinger, regista appassionato di crimine e cronaca nera, che aveva già diretto una docu-serie Netflix proprio sulla vicenda Bundy.
Ma la storia di questo film è anche e soprattutto una storia d’amore. E’ il punto di vista della moglie di Ted: Elizabeth, interpretata da Lily Collins, che ci descrive subito la figura del protagonista. 
Bello, affascinante, buono e gentile senza riserve. L’uomo perfetto che si prende cura di una ragazza madre e di sua figlia come se fosse sua. C’è però, nel fascino di questo aspirante avvocato dagli occhi di ghiaccio, un barlume di follia. Zac Efron, che è Bundy, ormai lontano dai primi ruoli da teen idol, riesce ad essere credibile e a regalare allo spettatore un’interpretazione dai toni drammatici e dai colori torbidi, portando sullo schermo tutta l’ambiguità di una narrazione sapida e intrigante.
La trama è già scritta dalla cronaca, come evidenziano alcune scene riprese pedissequamente da episodi realmente accaduti di quello che è stato il primo processo mediatico al mondo. C’è in questa definizione un significato che spiega la natura stessa del film: la ricerca della verità oltre le apparenze. La dualità che abita il protagonista e che fino alla fine lo spettatore, insieme ad Elizabeth, cerca di dipanare, è un’ambiguità che è strumento narrativo e allo stesso tempo la caratteristica che permette al film di considerarsi un’opera riuscita, seppure con qualche inciampo, nell’approfondimento della psicologia del personaggio e nella lealtà dei riferimenti, soprattutto per quanto riguarda il ruolo di Elizabeth, che la cronaca ci suggerisce essere stata il deus ex machina nella cattura del marito, con più coerenza e maggiore decisione rispetto alla trama cinematografica. 
Il vero intento del regista non è quello di mostrare agli spettatori la crudezza degli omicidi compiuti da Bundy, o almeno non subito. La spettacolarità dell’efferatezza e della violenza non è un escamotage narrativo, il vero plot si esplica nel sentimento ambivalente che provano i due protagonisti. Così come Elizabeth si chiederà fino all’ultimo se il suo amato è davvero innocente come professa, anche lo spettatore con lei, è ammaliato dal carisma e dall’arte affabulatoria di quello che già sa essere un serial killer dai tratti psicotici, eppure così docile quando si rapporta alla donna amata. 
“Extremely Wicked, Shockingly Evil and Vile” come suggerisce il titolo originale del film che il regista ha scelto ricalcando le parole usate dal giudice (qui interpretato da John Malkovich) per descrivere, condannandolo, Ted Bundy, il più spettacolare protagonista della storia dei processi penali americana.
 
Valeria Volpini