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A maggio la prima edizione della Muestra de Cine Mexicano

Lunedì 22 Aprile 2019 22:46 Pubblicato in News
Si tiene a Roma, dal 17 al 19 maggio 2019 – a ingresso gratuito fino a esaurimento posti - presso la Casa del Cinema, la prima edizione della “Muestra de Cine Mexicano”. Fondato e diretto da Cecilia Romo Pelayo, il festival nasce dal desiderio e dalla volontà di creare uno spazio alternativo e internazionale per il cinema messicano. 
 
“In questa prima edizione – nelle parole della direttrice artistica - si presenterà un programma audace, con una scelta di film che raccontano storie insolite, sconvolgenti e commoventi, insomma, difficili da dimenticare!”. Una scelta che unisce i lavori contemporanei dei registi messicani ai grandi classici. In programma, l'anteprima europea di “Silencio”, scritto, diretto e prodotto da Lorena Villarreal, che sarà ospite del festival. Il film, prodotto anche da Denisse Chapa e interpretato da Rupert Graves, John Noble e Melina Matthews, racconta di Ana, donna single e psichiatra di successo che conduce una vita tranquilla occupandosi di suo figlio e del nonno, il dottor James White, uno scienziato riconosciuto a livello mondiale, che ora lotta contro la demenza. Costui nel passato aveva scoperto – e nascosto per non farla cadere in mani sbagliate - una pietra dai poteri incredibili, nella Zona del Silencio, un luogo misterioso in cui succedono fatti inspiegabili, conosciuta come il “Triangolo delle Bermuda” del Messico. La vita di Ana viene sconvolta quando qualcuno viene a conoscenza dei poteri della pietra e lei si vede costretta a trovarla per salvare suo figlio. Già regista di “Las Lloronas”, uno dei successi più sorprendenti della stagione 2004 in Messico, Lorena Villareal è stata produttrice associata del film “Acusada”, di Gonzalo Tobal e produttrice esecutiva del film “Allá en el rancho”, di prossima uscita. Presidente di una delle principali agenzie di marketing e pubblicità messicane, ha una lunga carriera di successo nel settore finanziario messicano. 
 
 
La preziosa cinematografia messicana del passato sarà esaltata quindi dalla proiezione de “La Trilogía de la Revolución” di Fernando De Fuentes, che rappresenta il cinema degli anni Trenta messicano dell'epoca pre-industriale. “Grazie al virtuosismo, alla sensibilità e all’ingegno dei suoi registi – continua la direttrice artistica – il Messico dimostra sempre più al Mondo la propria tenacia, abilità e passione per la Settima Arte, premiato da riconoscimenti a livello internazionale che aprono la strada a nuovi e brillanti cineasti messicani”. 
 

Hellboy

Giovedì 11 Aprile 2019 09:52 Pubblicato in Recensioni
Sono trascorsi ben più di dieci anni dall’ultimo capitolo dedicato all’antieroe mefistofelico più singolare e irruento di sempre: HellBoy. The Golden Army (del 2008) è stato infatti l’ultimo film della saga diretta da Guillermo Del Toro, apprezzata da moltissimi, e che ha segnato in modo indelebile l’universo creato Mike Mignola. Il film che uscirà al cinema l’11 aprile si presenta quale reboot della saga, e questa volta vedrà dietro la macchina da presa il regista Neil Marshall, un nome che non è nuovo a chi di fantasy e horror se ne intende( egli ha infatti diretto alcuni episodi de Il trono di Spade e la pellicola horror di culto The descent).In questo reboot della saga, Hell Boy torna sullo schermo più indemoniato che mai, pronto ad affrontare un nemico tanto attraente quanto spietato come la bellissima strega Nimue, la Regina di Sangue, la qule assetata di vendetta intende eliminare l’intera umanità. Chiamato in Inghilterra per combattere dei giganti mostruosi e famelici, il demoniaco detective del BPRD, dovrà sconfiggere la forza oscura di Nimue, in uno scontro titantico senza precedenti. Hell Boy firmato Neil Marshall, gode di tutti quegli elementi più prossimi al fumetto originale, come ad esempio quella marcata componente gotica ( molto cara a Mignola) e la ricerca continua di scontri al cardiopalmo tra personaggi. La regia di Marshall spinge sull’accelleratore per quel che riguarda il ritmo, mettendo forse troppa carne al fuoco, tanto da risultare in alcuni passaggi un po’ troppo frastornante. Tuttavia, il film sembra funzionare proprio in virtù di quel tono politicamente scorretto che strizza l’occhio al divertimento, alla continua contaminazione tra epica fantasy ed action più disimpegnato. Di certo Neil Marshall non è un regista dato in prestito al genere, muovendosi da sempre tra azione, sparatorie e scontri fisici. La sua regia è pertanto disinvolta e naturale, rendendo il film piuttosto godibile sotto il profilo della fluidità. Dietro il mastodontico diavolo c’è l’attore David Harbour ( già noto al grande pubblico per il ruolo di Jim Hopper, capo della polizia in Stranger Things), che ha da subito convinto Marshall, un po’ per la sua prestante fisicità e un po’ per la sua profonda cura nel calarsi in ogni ruolo in modo impeccabile. Per Harbour, girare alcune sequenze è stato molto complesso e faticoso, per via delle protesi e dell’ingombrante tuta addosso. Tra le scene più elaborate infatti, è da annoverare quella della sanguinosa e sfibrante lotta con i giganti, uno dei momenti più ad alta tensione dell’intero film, nonché scena memorabile per effetti speciali e struttura sonora di questo HellBoy. Nel complesso, a dispetto delle numerose stroncature avvenute oltreoeano, HellBoy di Neil Marshall è un esperimento riuscito. E se la  sua virtù è quella di intrattenere senza troppe pretese, alternando diversi registri, il suo difetto è quello di chiudere frettolosamente la lotta finale, che di epico ha ben poco.
 
Giada Farrace 
 
voto: 3/5
 
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Nato dalle matite di Mike Mignola, il personaggio di Hellboy torna a distanza di 11 anni dalla coppia di film ad opera di Guillermo Del Toro, due ottimi esempi di cinecomic in tempi in cui questo genere di pellicole aveva sicuramente meno appeal tra il pubblico e riceveva meno riscontro anche da parte della critica. Tuttavia la mano dell'istrionico regista messicano contribuì ad elevare i due episodi precedenti allo status di cult, anche tra i meno avvezzi alle letture fumettistiche d'origine. Questo nuovo e atteso capitolo si confronta quindi per forza di cose coi precedenti, e la storia che fa da sfondo a questa nuova vicenda è legata ad un particolare ciclo narrativo, a detta del creatore uno dei più caratteristici ed efficaci per rilanciare il diavolo rosso sul grande schermo. L’intreccio prende il via dall'astio di una antica strega (Milla Jovovich, badass girl di Resident Evil), resa inerme per mano di Re Artú, grazie alla famigerata Excalibur, e dalla sua sete di vendetta nei confronti del genere umano su cui brama di scatenare nuovamente i pieni poteri. L'attore scelto per personificare Hellboy è David Harbour (già potuto apprezzare nella incensatissima Stranger Things) che compie più che discretamente il compito, riuscendo a dar corpo a una figura che come prestanza scenica non fa rimpiangere Ron Perlman, iconico interprete dei precedenti capitoli. Purtroppo però i problemi nascono quando il protagonista decide a sproposito di aprire bocca, con una serie di linee di dialogo e battute fuori da ogni tempo comico e la maggior parte delle volte piuttosto forzate, alla stregua dei peggiori siparietti tra i Vendicatori dei recenti film Marvel. In generale è la sceneggiatura che appare piatta e banale, con personaggi secondari assolutamente persi nello sfondo della vicenda, e coprotagonisti che faticano a ritagliarsi un ruolo di alcun rilievo, emblematico esempio nella figura del Professore Broom (Ian McShane), padre adottivo di Hellboy, che dovrebbe godere di uno spessore sicuramente maggiore per giustificare comportamenti e dinamiche a schermo. Lo sviluppo stesso segue un canovaccio fin troppo classico e scontato, piuttosto sfililacciato nell’intreccio della trama e nell’introduzione dei nuovi compagni d'avventura, col risultato di una serie di situazioni che si spostano di location e scopo principalmente per inerzia. Il regista, Neil Marshall, all'opera precedentemente in Doomsday e in alcuni episodi di serie tv tra le più chiacchierate (Trono di Spade, Westworld), si comporta al meglio delle sue possibilità per gestire le scene d'azione, che risultano montate al giusto ritmo e con una buona dinamica, ma il lavoro viene poi inficiato da una pessima CGI, nei suoi difetti piuttosto vistosa. Peccato perché in conclusione vale invece la pena citare che l'atmosfera fumettistica viene ricreata sufficientemente bene, che rispetto ai capitoli precedenti si avvicina a toni più dark, meglio confacenti alle caratteristiche originali dell'opera. 
 
Omar Mourad Agha 
 
voto: 2/5
 

Border

Giovedì 28 Marzo 2019 14:42 Pubblicato in Recensioni
Tina (Eva Melander) lavora come doganiera in un porto svedese, crocevia di viaggiatori che arrivano prevalentemente dalla Danimarca. Lavoro routinario che lei compie tuttaviacon eccezionalità, visto che possiede un incredibile olfatto, con cui può percepire emozioniquali paura, vergogna e rabbia dalle persone intorno a lei.
Purtroppo anche altre caratteristiche la differenziano dall’ordinario, perchè è accompagnata da un aspetto che mette a disagio la gente comune, lei appare piuttosto tozza e villosa, con fattezze quasi neanderthaliane, a sottolineare la distanza tra lei e gli homo sapiens che la circondano.
Le peculiarità fisiche di Tina la portano molto piú vicina al regno animale, piú primitivo e impulsivo di quello artificioso della città, in cui sempre piú situazioni sembrano metterla a disagio. Si sente molto piú in contatto con volpi, alci e cervi che popolano il paesaggio svedese che all'interno delle mura domestiche, dove la aspetta quotidianamente una convivenza con un personaggio approfittatore e superficiale.
Ed è durante l'ennesimo controllo alla frontiera che incontra un viaggiatore molto particolare, Vore (Eero Milonoff), un individuo a lei somigliante e che il suo olfatto non riesce a decifrare. Tra i suoi oggetti personali cose misteriose come un orologio senza lancette e un barattolo di vermi, e un modo di comunicare molto diretto e schietto, cosí diverso dalle parole ingannevoli della massa.
La curiosità e soprattutto la speranza di aver trovato qualche punto di unione con un’altra
persona la porteranno a lasciare tutte le (poche) sicurezze della sua vita e a inseguire una
strada che finora sembrava sbarrata. E il nuovo arrivato, ora compagno di viaggio, diventa guida verso la scoperta di lati della sua persona di cui ignorava completamente l'esistenza. Questi, a cavallo del confine tra
mondo umano e naturale nasconde però anche altri lati, piú oscuri, con cui Tina ben presto impara ad avere a che fare.
I confini e la ridefinizione degli stessi sono concetti che appaiono costantemente, e di cui Tina stessa si fa carico a partire già dal suo lavoro. Ma vengono qui ripresentati coniugati in una pluralità di versioni, dal modo in cui una persona riesce a sentirsi parte di un tessuto sociale al riconoscersi nella propria anatomia
e identità sessuale, fino al significato stesso della nostra umanità. Attraverso la lotta per l'accettazione si può arrivare a capire veramente fin dove ci si può spingere e quali ideali inseguire per definire sè stessi, pena lasciarsi andare ad un odio e vendetta senza alcun limite.
Il film è continuamente alternato da momenti di una sensibilità e candore rari ad altri molto piú ottenebranti ed aggressivi, quasi animaleschi, e si viene colpiti dall'assoluta istintività di certe sequenze.
Tutti meriti del regista, che con una serie di primi piani molto intimi e gestendo con efficacia silenzi e sguardi dei protagonisti ci consente di empatizzare con facilità, e di avvicinarci come un animale incuriosito a questa fiaba moderna, figlia di un racconto di John Ajvide Lindqvist, definito lo Stephen King svedese per la sua attinenza al genere horror. Dopo Lasciami Entrare, dello stesso autore, in cui i confini dell'umanità sfumavano tra la figura gotica del vampiro e l'innocenza della giovinezza, arriva quindi un'altra opera
dura e immaginifica a metà tra la concretezza delle opere nordiche e una pellicola alla Del Toro.
Menzione finale per il trucco, autentico valore in piú rispetto alla già ottima caratterizzazione dei due protagonisti.
 
Omar Mourad Agha

La casa di Jack

Giovedì 28 Febbraio 2019 14:15 Pubblicato in Recensioni
Il perseguimento del piacere in modo compulsivo è quanto di necessario e vitale per l’archetipo dell’individuo affetto da ossessione. Raggiungere quello stato di ebrezza è l’unico modo per far cessare un preciso dolore o una frustrazione. La ripetizione di un determinato atto capace di generare piacere assume automatismo tanto da essere paragonato alla respirazione, e ad altri fenomeni di cui non si ha sempre percezione. Jack è portato quasi naturalmente ad uccidere, questa pulsione è generata dalla precisa volontà di provare un incommensurabile piacere, capace di renderlo immune a qualsiasi frustrazione. Ma quando tale condizione di superiorità cessa, egli si ritrova vulnerabile e di nuovo pronto a bramare altre vite, e pertanto altro piacere. Nel film diretto da Lars Von Trier si ripercorrono 5 dei 60 omicidi commessi da Jack durante la sua vita. E come in tutte le opere firmate dal regista danese, anche in questa la narrazione è scandita attraverso una clinica suddivisione in capitoli, preceduti da un prologo e in fase finale da un epilogo. Data la natura infernale di questo terrificante viaggio, l’epilogo in tal caso si presenta quale catabasi, nel senso più stretto e letterale del termine, ossia quale tappa finale nell’inferno più profondo, nella gola più ripida degli inferi. Ciò che rende questo film, sublime e allo stesso modo atroce, è la ricostruzione spaventosamente scrupolosa di ogni particolare degli omicidi. La minuziosità di Jack, orientata nell’organizzazione delle efferatezze, è al di sopra di ogni rappresentazione umana, fuori dalla portata di una mente ordinaria. Jack organizza la realtà secondo schemi ben precisi che confluiscono in un agghiacciante registro della morte. Vera anima del film, sono le voci fuori campo di Jack e Virgilio, che accompagnano dall’inizio alla fine la narrazione, alternando al resoconto degli omicidi degli interessanti esercizi di stile su prolusioni di varia natura. Pertanto, anche ne La casa di Jack, Von Trier gioca con le dissertazioni su argomenti che da sempre hanno esercitato su di lui una sconfinata attrazione. Arte, storia e religione sono solo alcuni dei temi che vengono trattati nei discorsi tra Jack e Virgilio, nei momenti che intramezzano la narrazione. Matt Dillon, alle prese con un ruolo piuttosto complesso e difficile da metabolizzare, è riuscito a restituire un personaggio unico, dalle più interessanti sfumature. Il suo Jack, è quasi un artista, un individuo capace di destare nello spettatore le più controverse reazioni. Impossibile non fare cenno alla presenza di Bruno Ganz, scomparso da pochissimo, e che nel film interpreta l’emblematica figura di Virgilio. La casa di Jack è l’ultimo film in cui Ganz ha recitato, e nel quale si è confrontato con un ruolo ancora una volta complesso e stratificato. Per lo spettatore, vederlo recitare in quello che sarebbe stato il suo ultimo film è toccante oltre che smisuratamente doloroso. Con lui se n’è andato anche un pezzo di grande cinema, un lungo capitolo sull’arte e sullo spessore di essa. La casa di Jack sarà nelle sale italiane a partire dal 28 febbraio, ed è fuori dubbio che turberà una vasta festa di pubblico. Un film che lascerà il segno nel bene e nel male. Da non perdere.
 
Giada Farrace