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The Party

Lunedì 27 Febbraio 2017 22:27 Pubblicato in Recensioni
The Party porta brio e caffeina nel grigio e spento Febbraio berlinese. Dopo una serie di deludenti film in concorso, questa black comedy girata in bianco e nero, della durata esigua di 71 minuti, risulta essere l’opera più interessante. Sferzante e tagliente al punto giusto, ci sveglia dai nostri sonni sulle poltrone del Berlinale Palast. Perché il film diretto e scritto dalla britannica Sally Potter maschera per poi rivelare, con un ritorno al punto di partenza disseminato di segreti che vengono a galla, che scioccano e divertono all’ennesima potenza. 
 
Il film si apre col botto per poi rilassarsi. Il luogo della festa/cena è la casa di Janet (Kristin Scott Thomas) e Bill (Timothy Spall). La coppia riunisce gli amici più cari per festeggiare una vittoria politica. I primi ospiti ad arrivare sono April (Patricia Clarkson) e Gottfried (Bruno Ganz). Acidissima lei e aroma-terapista lui. Da subito si capisce che Bill ha qualche problema, indifferente alla parole di Gottfried, si posiziona al centro della stanza intenzionato a bere fino ad ubriacarsi e ad ascoltare musica mista proveniente dal suo adorato vinile. Le donne sparlano a più non posso quando vengono disturbate dal suono del campanello: sono arrivate Martha (Cherry Jones) e Jinny (Emily Mortimer), lesbiche in attesa di ben 3 figli. Il loro arrivo alza l’asticella dell’inquietudine. L’ansia si fa largo tra i commensali, esplodendo copiosa quando fa il suo ingresso in scena Tom (Cillian Murphy). Sarà quest’ultimo che accenderà la miccia della bomba che nessuno vorrebbe far dipanare, ma che tutti sanno essere pronta alla detonazione. La frenesia e l’irrequietezza di Tom, facile alla cocaina, portano dritti alla rivoltella che tiene nascosta sotto la giacca e da qui in poi vi lasciamo il piacere di scoprire con i vostri occhi il circus che ne divamperà.
 
Maldestramente escluso dai premi della Berlinale edizione 67, The “theatrical” Party, non solo The Party, perché abbiamo a che fare con il teatro che incontra il cinema, è un film con tanta forma e sostanza. Un grande conflitto borghese in un piccolissimo spazio, quattro mura che uccidono e divertono allo stesso tempo. Sally Potter ci regala dialoghi frizzanti al vetriolo ed una regia robusta e omogena. Chiusi in un salotto, dove non proviamo claustrofobia, libera l’estro dei protagonisti, che offrono prove attoriali di assoluto livello. L’autrice inglese ci offre un film che potrebbe gridare al déjà vu. Con mano graffiante riesce a scardinare gli stereotipi ad esso legati, attualizzandolo e portandolo da film da camera a film con vista sul mondo, focalizzandosi sulle sue mode ed ideali. Lo spettatore è su un’altalena: si alternano tragedia e humor, rendendo così The Party godibile e per nulla banale. L’ascesa dei personaggi, che fanno in mille pezzi la proprie maschere, è travolgente e schizzata. Nevrosi che esplodono in un salotto, nel quale si sentirebbe a suo agio anche Woody Allen. 
 
Con un azzeccato bianco e nero, omaggio a Hitchcock ed al cinema noir, le espressioni sui volti assumono sfumature diverse, più marcate e di conseguenza il messaggio arriva forte e chiaro.  Il film della Potter è la realizzazione dell’incubo di Perfetti Sconosciuti. Innovativo ed in parte assimilabile all’egocentrico Birdman, The Party è la fiera della mezza età e delle sue frustrazioni. Si battagliano: gli oggettivi contro gli spirituali e gli indifferenti in lotta con i concettuali. Questo loro farsi male per davvero è la cosa che funziona di più.
 
La regista di Orlando (1992) sceglie l’anno della Brexit per l’uscita del suo The Party. Sarà un caso? Il dilemma: restare (amare che fa rima con fedeltà) o uscire (tradire), calza veramente a pennello. 
 
 
David Siena

The Dinner

Lunedì 20 Febbraio 2017 22:18 Pubblicato in Recensioni
Tutti aspettavamo con curiosità The Dinner, ultimo lavoro di Oren Moverman, in concorso qui a Berlino per l’Orso d’Oro. Tratto del best seller omonimo di Herman Koch e secondo adattamento cinematografico dopo il riuscito I nostri ragazzi (2014), del nostro Ivano De Matteo. Come accade di sovente quando le aspettative sono alte, il prodotto non sempre le mantiene. Purtroppo questo The Dinner non fa eccezione. Lo stuzzicante contesto nel quale si svolgono i fatti e vengono sviscerati i ricordi è gestito con un po’ di esteriorità e non usato come valore aggiunto. L’anima del libro è dimenticata e il film risente di una regia monotona e greve, che ci fa rimanere la cena indigesta. 
 
Teatro nel quale si svolgono i fatti è un prestigioso ristorante. Cena organizzata per discutere affari famigliari tra due fratelli con carriere e passati diametralmente opposti, accompagnati dalle mogli. Stan Lohman (Richard Gere) è un famoso politico candidato al ruolo di governatore. Paul Lohman (Steve Coogan) è un insegnante di storia con alle spalle problemi di depressione. Tra loro il rapporto è sempre stato teso, visto che la madre ha sempre preferito Stan, portando così Paul a sentirsi inferiore e di conseguenza a soffrire di insicurezze. Katelyn (Rebecca Hall) e Claire (Laura Linney), la prima moglie di Stan con poca personalità, la seconda invece compagna complice ed affettuosa, assistono all’acceso dialogo dei relativi compagni, contribuendo a raffreddare l’aspro diverbio che divampa come un’incontrollabile falò. I rispettivi figli hanno commesso un atto riprovevole: è questo il piatto forte della cena. Un segreto che mette le due famiglie alla prova. Una sorta di Carnage (2011), peccato che la riuscita del film sia inappagante rispetto all’ottima opera di Roman Polanski. 
 
Moverman, dopo il promettente The Messenger (2009), aveva già dato segno di flessione con Time out of mind (2015); ora prende in mano un egregia base narrativa, dalla quale non riesce ad estrapolarne tutta l’essenza. La sua è una regia monocorde, poco creativa e senza una vera visione. Perde per strada anche l’iniziale sarcasmo; figura retorica che è il fulcro del romanzo. E’ proprio nel non seguire ed assecondare il senso del racconto il difetto più evidente di The Dinner e di conseguenza le riflessioni morali ed etiche riescono solo in parte a farsi largo. I personaggi dovrebbero fingere di essere quello che realmente non sono, ma qui non succede. Anche le prove attoriali dell’intero cast risultano sottotono. Certamente l’estrema verbosità dei dialoghi non aiuta, ma la quota d’espressione è decisamente grigia.
La pellicola è divisa in sequenze come se fossero parti di un menù. Le portate, presentate simpaticamente dal capo del servizio, cercano di sdrammatizzare il tutto, ma anche queste non riescono nello scopo di far uscire il film dalla spirale del pesante. Pietanze che rimangono sullo stomaco allo spettatore, complici anche i flashback (troppi), che non aiutano ad uscire da un climax troppo carico e gravoso. 
Manca chiarezza ed anche noi come i protagonisti non usciamo dall’oscurità, anzi ci perdiamo irrimediabilmente in domande senza risposta. 
 
The Dinner cerca di mostrarci, e questo in parte lo fa, quello che si cela dietro alle società perbene dell’intero pianeta: una finta unità che nasconde ancora profondi odi razziali. Un’unione solo di facciata, perché le divisioni ci sono e sono riscontrabili nei fatti di cronaca nera. Povertà di condotta in mondo che si sente unito solo dai social network. Almeno quest’ultima riflessione ci rende la parte finale del pasto meno amara, un dolce digestivo, che suo malgrado non riesce a smaltire un’ottima materia prima dosata male.
 
David Siena
 

Como Nossos Pais

Domenica 26 Febbraio 2017 22:13 Pubblicato in Recensioni
Just like our parents, titolo nella versione anglofona, riassume alla perfezione quella che sarà la spina dorsale del film: viviamo influenzati dalla famiglia e nella nostra esistenza, nel bene o nel male, ripercorreremo parte della vita dei nostri genitori. A questo non c’è scampo. Fin da subito il film brasiliano si strappa di dosso i luoghi comuni legati al proprio paese: favelas, povertà, delinquenza e ignoranza, offrendoci una storia diversa, moderna e appassionante. Film tutto in rosa, come il nome della protagonista, che ci porta tra gli alti e i bassi della sua vita borghese, influenzata dal rapporto burrascoso con la madre e il matrimonio in stato di crisi. Tradimenti, scoperte ed una sana innocenza, senza cadere mai nel moralismo, avvicinano molto il film di Laìs Bodanzky alla visione del maestro Pedro Almodovar.
 
La sequenza iniziale ci propone tutta la famiglia di Rosa (Maria Ribeiro) intorno ad una tavola per un assolato pranzo di famiglia. Durante la presentazioni di tutti i personaggi principali, focalizzate in pochi dialoghi che ben identificano le personalità ed i caratteri, la madre Clarice (Clarisse Abujamra) svela uno scabroso segreto a tutti i partecipanti. La destinataria di tutto questo è proprio Rosa. Scopre alla soglia dei quarant’anni di avere un padre diverso da quello che conosce. Clarice aveva tradito il suo compagno durante un viaggio di lavoro. Marito anch’esso poco incline alla fedeltà. Ormai da molto tempo separati, quello che Rosa pensava fosse essere il vero padre ha bisogno del suo supporto quasi giornaliero. Non si nega tuttavia di conoscere l’uomo che realmente l’ha messa al mondo: un politico di successo. Gli sconvolgimenti non cessano, anzi, vengono amplificati dalla notizia che Clarice sta morendo di cancro. Rosa vede davanti a se muri altissimi, cementati con armatura pesante, visto che anche la sua vita privata non va a gonfie vele. Sostiene lei il suo matrimonio e le due figlie, dato che il marito Pedro (Felipe Rocha) ha un lavoro precario. In più, l’ombra di un tradimento da parte del compagno si fa sempre più largo nella sua mente. La tremenda tempesta davanti a se e dentro il suo cuore la metterà alla prova. Su questi esami si basa la narrazione di Como nossos pais, opera impegnata, ma allo stesso tempo delicata, in competizione nella sezione Panorama al Festival di Berlino 2017.
 
La pellicola è scritta con accuratezza dalla stessa regista con l’aiuto di Luiz Bolognesi. Il film non giudica la donna Rosa, ma la segue semplicemente nella sua vita, fatta di salite e discese. Resistente e forte come una nave durante la peggiore delle tempeste. Senza mai perdersi d’animo, giova sia dei dolori che delle gioie. Nel suo andamento prettamente drammatico ci sono dei momenti di ironia e brio, che regalano al film, con arguzia, una sorta di leggerezza, un anima comprensibile e leggibile da tutti. Argomenti trattari con naturalezza senza calcare troppo la mano, senza mai perdere la tensione drammatica.
 
Un viaggio nelle dinamiche della donna moderna: madre, figlia, moglie, amante, sorella e professionista. Oberata di impegni e scelte. Trovare la propria dimensione in una società prettamente maschilista non è facile. Il film riesce a mettere in evidenza quanto la donna abbia una forza sovrumana per far fronte alle battaglie e uscirne vincitrice dalla guerra. E anche quando viene sconfitta non perde mai completamente la dignità del proprio essere, rispetto all’annullamento che molti uomini si procurano. 
 
Como nossos pais ci mostra come sia arduo trovare un punto di equilibrio nell’esistenza. Il film ci prova, non risolvendo l’enigma, ma portandoci dentro ad esso. Forse la vita stessa è qualcosa da risolvere. Siamo sempre in balia degli eventi. Non sappiamo se troverà una distribuzione sul mercato italiano e questo è un peccato perché è un film ben controllato, piacevole e gratificante. 
 
David Siena

Bright Nights

Sabato 25 Febbraio 2017 22:07 Pubblicato in Recensioni
Il lunedì è sempre stato e sempre sarà il giorno più odiato della settimana. Ma quando partecipi ad un Festival, il lunedì segna l’inizio della seconda settimana di kermesse. Il film del mattino, che inaugura il giro di boa, ha l’obbligo di rinvigorire il palinsesto e dare quel brio in più per affrontare le numerose pellicole ancora in programma. Quindi, il lunedì da Festival si contrappone con vigore a quello della quotidianità, fa purtroppo eccezione il lunedì della Berlinale 2017, che apre il suo concorso con il deludente Bright nights. Seduti sulle poltrone del cinema quasi quasi rimpiangiamo l’ufficio o l’aula scolastica. Poco coinvolgente ed a tratti tedioso, il film tedesco di Thomas Arslan (Gold – 2013), non lascia traccia. Evidente l’utilizzo di piani sequenza per aumentare la tensione drammatica, ma questi sono fini a se stessi, appesantiscono il film, che invece di rinvigorirsi si svuota. 
 
La storia, decisamente classica, ma sempre appetibile, meritava un risultato finale più consono al Festival di appartenenza. Michael (Georg Friedrich, a Berlino anche con Wild Mouse), che nella vita fa l’ingegnere ed è separato dalla moglie, apprende della morte improvvisa del padre. I funerali avranno luogo in Norvegia, dove il genitore viveva ormai da parecchi anni. A seguirlo in terra scandinava sarà il figlio Luis (Tristan Göbel), che vive con la madre. L’adolescente non ha un buon rapporto con il padre. Michael convince il figlio a restare con lui qualche giorno di più in Norvegia. I due intraprendono un viaggio on the road immersi nella splendida natura di un paese dove non si dorme mai. L’estate regala luce fino a mezzanotte. In questo contesto, molto simbolico, il loro legame si rafforza, senza però prima scontrarsi con decisione. Il bagliore continuo, portatore di pace, aiuta a far luce e chiarezza negli animi del padre e del figlio; un po’ meno nello spettatore, che rimane sbigottito dal minimalismo della trama, dove veramente non succede nulla.
 
Bright Nights, conferma la tendenza del cinema tedesco ad essere estremamente impegnato. Un film che scava, proponendoci silenzi eccessivi. Il suo è un “voluto” andamento muto, fatto di sguardi ed atteggiamenti e di momenti naturali della vita. Una direzione troppo delicata, che trova nelle piccole cose la strada cicatrizzante del rapporto: un tenda in riva ad un lago, una camminata tra gli alberi e un dialogo cinematografico guardando le montagne. Ma questa coerenza narrativa non basta per salvare la pellicola, priva di una vera spina dorsale, con poca carne al fuoco e scarsamente concreta. Nel magma psicologico dei protagonisti ci si addentra, ma non ci si trova mai.  Una narrazione piatta e senza vere svolte rende il film poco invogliante.
 
Bright Nights cerca nella sottrazione il proprio risultato. Purtroppo questo non arriva. Il film rimane perennemente sulla sua linea d’ombra e i raggi di sole non si scorgono neanche in lontananza. Gli attori, ed in primis il protagonista Georg Friedrich, offrono una prova poco carismatica, adagiandosi sulle pochezze dello script. Qui a Berlino si vocifera di un possibile Orso d’Argento come migliore attore proprio per l’attore austriaco. Sarebbe alquanto discutibile, viste le sontuose performance dell’intero cast di The Party della britannica Sally Potter. (su tutti il monster di bravura Timothy Spall).
 
David Siena