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Shoplifters

Sabato 19 Maggio 2018 00:15 Pubblicato in Recensioni
Da qualche parte in Tokyo, Osamu Shibata (Lily Franky) e sua moglie Nobuyo (Sakura Ando) vivono una vita di stenti. Purtroppo Osamu ha solo dei lavori occasionali. La vera foraggiatrice di casa è la nonna (Kirin Kiki) con la sua pensione, ma da sola non riesce a sopperire alle molte mancanze. Perciò, per arrotondare, Osamu e il figlio Shota (Kairi Jō) si dedicano a piccoli furti nei supermercati della zona. Vizio scomodo, ma che gli garantisce la sopravvivenza. Padre e figlio sono dei maestri nel raggirare la sorveglianza e hanno anche l’ardire di prendersela con se stessi, perché si sono dimenticati di rubare lo shampoo. Un giorno trovano sulla loro strada una piccola senzatetto, la sperduta ed impaurita Yuri (Miyu Sasaki). Hanno la brillante idea di portala a casa con loro, visto che la famiglia di sangue della bambina sembra essere violenta e non molto attenta alle esigenze d’affetto della piccola. Contro ogni previsione, la piccola Yuri viene adottata dai poveri Osamu, ma questo non avviene ufficialmente e anche se per fin di bene, è dichiaratamente un sequestro. Ora il loro nucleo famigliare è più coeso che mai. Solo un malaugurato evento metterà a rischio l’integrità del legame creatosi.
 
La sinossi appena stesa è quella di una meritevole Palma d’Oro, o almeno quella di un racconto che ha messo d’accordo tutti gli addetti ai lavori. La Presidente di Giuria Cate Blanchett ha motivato così la decisione del giurì: “Siamo stati completamente travolti da Shoplifters. Le performances degli attori si sono intrecciate alla perfezione con le intenzioni registiche.” Tutto vero, perché Hirokazu Kore-eda (già vincitore del Premio della Giuria 2013 con Father & Son e molto simile a Shoplifters), che qui non solo dirige, ma scrive e cura il montaggio, ci dona un’opera dal doppio risvolto. Crime story sottosopra, vista dai buoni propositi. Lo sguardo del regista demonizza quello che per logica è male e riflette sulle conseguenze di prove di affetto in un ambiente dove i legami di sangue non esistono. La vera famiglia rimane sempre e solo quella genetica o può essere quella che ci ha veramente a cuore? La risposta arriva grazie alla messa in scena: l’intera famiglia chiusa in 4 mura, che sembrano 4 metri quadri. Lì, saldamente vicini gli uni agli altri, stretti ma uniti, unione che si eleva a felicità. Corroborato da attori genuini e sul pezzo, Kore-eda conferma le sue ottime doti di regista: spicca la forma e la facilità nella gestione di un argomento delicato come questo. Leggerezza e scorrevolezza sono il fiore all’occhiello di Shoplifters. 
 
La narrazione è corposa, ma lo spettatore non ha un compito arduo per portarla a termine. Anche grazie ad una regia dolce e classica, che mette in scena un mondo fatto di bugie a fin di bene, menzogne che comunque avranno voce e porteranno delle conseguenze. Tutto quello che la macchina da presa inquadra lo inquadra con finezza, si allontana consapevolmente dai cliché, privilegiando un realismo che riconosce i gesti quotidiani, capaci di autenticità e mai di vergogna. La telecamera del regista non viene usata per giudicare, ma per sorprendere. 
E non aspettatevi di piangere a dirotto. L’eccesso non è nel dna di Kore-eda. 
 
Il regista giapponese ancora una volta si sofferma su storie di famiglia. La pellicola vuole anche essere una piena rivalutazione dei padri e del senso di famiglia, criticati nel suo Little Sister del 2015. Shoplifters ha un non so ché di poetico tra le sue righe. Ha la grazia di una farfalla, priva di inestetismi dopo una gestazione dolorosa ed oscura. Vola tra i fiori più colorati e profumati, orgogliosa della sua bellezza. Senza preoccuparsi della difficoltà, che è insita nel vivere.
 
David Siena
 

Marcello Fonte e Edoardo Pesce ai Nastri d'Argento

Mercoledì 30 Maggio 2018 19:03 Pubblicato in Full Screen

Per la cerimonia dell'assegnazione delle nomination ai Nastri d'Argento 2018, Marcello Fonte ed Edoardo Pesce salgono sul palco nominati ex aequo come miglior attore protagonista per Dogman di Matteo Garrone.

Ghost Stories

Giovedì 19 Aprile 2018 13:50 Pubblicato in Recensioni
L’uomo nutre da sempre un’insaziabile curiosità nei confronti dell’ignoto. Un interesse coltivato da numerosissime culture mediante una vasta gamma di mitologie i cui racconti trovano tuttora ampio spazio nell’immaginario collettivo. La spinta verso il mistero deriva da un’irrefrenabile volontà di scoperta  nonché dalla profonda curiosità di confrontarsi con qualcosa che sfugge ad ogni tentativo di catalogazione: il paranormale. In Ghost Stories il professor Goodman, un accademico dal forte senso critico e dall’innato scettiscismo nei riguardi del paranormale, conduce un noto programma televisivo in cui si occupa principalmente di smascherare alcuni fenomeni legati alla sfera dell’occulto, quali sedute spiritiche e contatti con strane entità conturbanti. Goodman dovrà ora confrontarsi con tre casi molto particolari, che metteranno a dura prova il suo fervente scetticismo. Misurandosi con situazioni inspiegabili, il professore si troverà in una condizione di incertezza e ambiguità circa la natura effettiva di tali fenomeni paranormali. La sua irremovibile convinzione verrà pertanto scossa da eventi che sfuggiranno radicalmente allo scibile. La fiamma del dubbio inizierà ad ardere progressivamente, insinuandosi persino nelle convinzioni più assodate come quelle legate alla sfera dell’aldilà. Il film, è la trasposizione cinematografica di una fortunatissima pièce teatrale horror andata in scena a Londra qualche anno fa. Un successo oltre ogni aspettativa che ha contribuito a rendere i due registi consapevoli di avere tra le mani uno spettacolo brillante destinato ad approdare su grande schermo. Il risultato di questa trasposizione è un film strutturato in modo impeccabile, interpretato abilmente da un cast di attori di tutto rispetto composto da Alex Lawther, Andy Nyman (che è anche uno dei due registi) e Martin Freeman. Andy Nyman e Jeremy Dyson dirigono pertanto un’opera che intrattiene senza perdere mai credibilità, un omaggio sincero a quel cinema horror coerente e macabro che tanto manca in questi ultimi anni. Ghost Stories, forse il più atteso horror della stagione, riesce a fare leva sulle delicate e complesse corde del conturbante, canalizzando in modo sapiente anche il più piccolo frammento di tensione attraverso una struttura episodica agile e magnetica. 
 
Giada Farrace

Il Codice del Babbuino

Lunedì 14 Maggio 2018 13:04 Pubblicato in Recensioni
Ultimo lavoro della Donkey's Movie, arriva dopo otto anni dal precedente Ad Ogni Costo.
La cifra stilistica del gruppo, conosciuto in passato con il nome di Amanda Flor, è stata da subito chiara dagli esordi di Venezia 2006, quando venne presentato La Rieducazione, un film singolare nel suo genere sia dal punto di vista produttivo che formale.
Un cinema quello di Davide Alfonsi e Denis Malagnino fatto con pochissimi mezzi ma ciò non costituisce affatto un limite di fronte ad una straordinaria potenza di immagini e contenuti, dal sapore di un neorealismo 3.0 che si nutre di disagi delle periferie e di personaggi borderline, temi attualmente molto in voga per grosse produzioni patinate, ma qui affrontati in maniera del tutto originale perché reale, andando dritti al punto.
Il nuovo progetto muove i primi passi nel 2012 e mediante un'accurata sfrondatura di sceneggiatura, vede la luce in forma completa solo ora, portato in sala da Distribuzione Indipendente che ci regala ancora una volta un piccolo grande film, perla nell'attuale panorama cinematografico italiano. 
Dialoghi serrati in unità di tempo e luogo, perfetti e convincenti, in un crescendo di tensione e pathos, smorzati in giustificati respiri, pause ma anche sorrisi in una vicenda che prende spunto da un fatto realmente accaduto. 
Siamo a Guidonia, nell'interland romano, le vite di tre uomini molto diversi tra loro si incrociano, confondendosi in un gioco delle parti dove i ruoli vengono costantemente messi in discussione, dove ogni cosa non è mai come sembra. Il tutto accade in un'unica notte, all'interno di un'auto scassata che vaga senza sosta come i suoi passeggeri. 
Ciò che innesca la vicenda è un tentativo di vendetta, come in ogni western che si rispetti, è il concetto di giustizia privata che qui trova sfogo e che muove l'intera storia: una giustizia fai da te scaturita dal desiderio di vendicare la violenza subita dalla donna di uno dei tre protagonisti. Anche i generi si mischiano garantendo sempre la sospensione dell'incredulità, senza alcuna sbavatura, facendo risultare il tutto sempre troppo vero, sempre troppo crudo. Dialoghi serrati cadenzano lo scorrere del tempo, oscuro come la notte e fluido come le strade, illuminate solo da bar e sale slot, alla ricerca di un colpevole che non si svelerà mai fino alla fine, riservando comunque continui colpi di scena. É tutto così reale, personale, e noi siamo letteralmente trascinati dentro la storia senza capire come, a caccia di qualcosa che ci risarcisca di quel torto subito. Un costante interrogarsi sui concetti sempre troppo labili di giustizia, legge, chi sia la vera vittima e chi il carnefice di chi. 
In nome della più estrema adesione ai fatti anche gli stessi interpreti, tutti attori non professionisti (ad eccezione di Malagnino in doppia veste in vari lavori del collettivo) ma abilissimi come Stefano Miconi Proietti nei panni di un pessimo Tibetano, scelgono di chiamarsi con i nomi propri della vita reale, giocando ad immaginarsi immersi in un contesto di straordinari accadimenti e il gioco sembra riuscirgli davvero bene e, noi con loro, diventiamo il quarto passeggero di quella macchina, incastrati assieme alle loro vite sul sedile posteriore, col fiato spezzato, fino alla fine. 
 
Chiara Nucera