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The Killing of a Sacred Deer

Mercoledì 24 Maggio 2017 21:22 Pubblicato in Recensioni
Il brillante cardiochirurgo Steven (Colin Farrell, qui a Cannes anche con The Beguiled di Sofia Coppola) decide di prendere sotto la sua ala protettrice il giovane Martin (Barry Keoghan, che tra poco vedremo in Dunkirk di Chris Nolan). Il loro è un rapporto strano, un alone di mistero lo avvolge. L’adolescente pian piano si fa largo all’interno della famiglia del medico, ed il dottore stesso viene invitato a casa del ragazzo. Improvvisamente qualcosa di inspiegabile capita a Bob (Sunny Suljic), figlio di Steven. Nessuno riesce a capire cosa stia succedendo, in quanto il ragazzino sembra essere perfettamente sano. Da qui in poi le parole, che sarebbero spoiler, si fermano per lasciare spazio alla disamina critica. The Killing of a Sacred Deer è un film da scoprire in un crescere di suspense attanagliante. L’ultima fatica del regista Yorgos Lanthimos è inquietudine allo stato puro. 
 
Al Festival di Cannes 2015 il suo The Lobster si portò a casa il Premio della Giuria. Anche in questa edizione non rimane a bocca asciutta. Ex aequo con You Were Never Really Here di Lynne Ramsay, l’autore greco vince il premio della miglior sceneggiatura, scritta con Efthymis Filippou. Ed è proprio da qui che partiamo, da un soggetto ispirato alla mitologia greca: la dea Artemide che si vendica con Agamennone per aver ucciso un cervo a lei sacro. Su questa base si articola la geometrica scrittura di quest’opera tanto originale quanto angosciante. Script lineare che si sviluppa su un unico strato temporale, in grado di cambiare con disinvoltura registro, spostando il campo gravitazionale su gag feticiste e grottesche, senza mai far cadere la tensione. Anzi, le stranezze ed i rapporti ambigui amplificano il senso di disagio nello spettatore. Tutto diviene estremamente horror. Splendidamente codificato ed articolato. In più ci si mette una regia che si concentra su inquadrature a 180°, che inglobano i protagonisti all’interno degli ambienti. Quest’uso eccessivo diventa disturbante da poter essere paragonato agli avvenimenti proposti. Tutto fa atmosfera: la vera forza di The Killing of a Sacred Deer.
 
Direzione artistica potente e compiaciutamente distorta che incolla allo schermo in un’ascesa verso la sacralità e l’espiazione dei propri peccati. Diventa film di genere, del tutto decifrabile e spiccatamente moralista, ma per nulla scontato. Non mancano i tratti stilistici di Lanthimos: immagini atte ad impressionare, come il cuore aperto della primissima inquadratura o il sangue mistico di Bob. Forma che si incolla alla colpevolezza ed innocenza dei personaggi. Colpa ma non dolo, sottolineata anche da un commento musicale che taglia come un bisturi. Ti apre senza pietà potenziando la drammaticità della sceneggiatura.
 
L’ansia che ti prende lo stomaco è tremenda, complice un cast glaciale, che si armonizza con le intenzioni dell’autore. Su tutti Anna (Nicole Kidman, quest’anno con ben quattro film sulla Croisette), moglie di Steven, la sua è un’interpretazione energica, ma calibrata. Il suo sguardo si adatta ad ogni situazione, all’occorrenza deciso o sterile. La semplicità di passaggio è sinonimo di padronanza e grandezza attoriale.
 
Lanthimos si lascia andare solo nel finale. Il suo orologio infernale stecca solo verso la mezzanotte. L’ultimo rintocco non è che non realizzi in suo scopo, li ci è arrivato con largo margine. Una vetrina finale un po’ troppo compiaciuta stride con il resto della giostra. Palio infernale che sarebbe piaciuto anche al puntiglioso, ma geniale Stanley Kubrick.
 
David Siena
 

Loveless

Sabato 27 Maggio 2017 21:15 Pubblicato in Recensioni
Boris (Aleksey Rozin) e Zhenya (Maryana Spivak) sono una coppia che non ha più nulla da dirsi. Anzi, quello che esce dalle loro bocche fa solo male al piccolo Alyosha (Matvey Novikov). Prossimi al divorzio, visto che entrambe hanno già nuovi rapporti, sono alle prese con la vendita della loro casa. Nessuno dei due presta molta attenzione al figlio e l’affidamento sembra essere un peso per entrambe. Zhenya è concentrata sul suo nuovo partner, che sembra in procinto di chiederle la mano e Boris si è già portato avanti, visto che la sua giovane compagna è in dolce attesa. In questo sontuoso egoismo, il dodicenne Alyosha scompare. Variabile che nessuno ha messo in preventivo. Iniziano ricerche su larga scala per ritrovare il ragazzino. In Loveless l’esplorazione non è solo materiale, ma anche nelle coscienze dei genitori. Monografie terribili che stanano l’arrogante individualismo, neppure così tanto velato, che è parte viva e consenziente dell’uomo contemporaneo.
 
Dopo il meritato successo di Leviathan (premio alla regia qui a Cannes nel 2014 e Golden Globe come miglior film straniero nello stesso anno), Andrey Zvyagintsev torna in concorso al Festival di Cannes. Il regista russo si ricorda anche per il suo colpo di fulmine: il Ritorno, vincitore del Leone d’Oro a Venezia 2003. Ed ancora una volta lascia il segno, Loveless si aggiudica il Premio della Giuria. Fin da subito possiamo affermare che avrebbe meritato qualcosa di più. Il cineasta russo confeziona una nera parabola sull’amore e sul non prendersi cura di nessuno, neppure di se stessi. Lascia il dramma mitologico per il dramma famigliare, anche se l’amore può essere inteso come utopia, soprattutto nella nostra epoca, dove ha perso il suo vigore. Ora più che mai sentimento effimero paragonabile ad un selfie.
 
La sua è una regia compatta, spietata e cinica, che trasmette un angosciante senso di vuoto e paura, in grado di scavare nel profondo. Si sofferma sui momenti più drammatici, rimane lì per creare scompiglio. Scruta attentamente i protagonisti e le loro reazioni davanti al male. Scene strazianti che entrano prepotentemente nella carne dello spettatore. Nella più rappresentativa, gioca con il bene ed il male, relegandoli nel fuori campo, creando così una sorta di ambiguità. Il risultato che ne consegue è potentissimo, come un pugno alla bocca dello stomaco. Tutto chirurgicamente incorniciato da un registro rigoroso, privo di punti deboli e sbavature.
 
Zvyagintsev, come sempre, trova anche lo spazio per criticare la propria madre patria. Russia che sembra guardare avanti, ma che si ferma volentieri ancora sui propri ideali.  Sotto testo che cammina a braccetto con le vicende di questa sfasciata famiglia. Non possiamo dimenticare di elogiare, come fiore all’occhiello di Loveless, la sua splendida fotografia. Le gelide immagini della maestosa natura che ci circonda aprono e chiudono il film, come fu anche per Leviathan. Madre sovrana che regna sul piccolo e misero mondo dell’uomo. Cosmo innevato e puro, fatto di calmi ruscelli, non corrotto dalla soggettiva natura dell’uomo, che allo stesso tempo è affine al freddo che domina le nostre anime.
 
Il moralista e viscerale Loveless presenta, come una unica pecca, qualche piccolo difetto di sceneggiatura. Per raggiungere il suo scopo si priva di alcune logicità e determinate situazioni risultano un po’ al limite. 
Gli si può perdonare perché la pellicola riesce nel suo scopo: maltrattare l’amore con un riuscita prepotenza scolpita a freddo nell’animo dei protagonisti. Qui le radici (nucleo famigliare) sono veramente spezzate.
 
David Siena
 

Radiance (Hicari)

Venerdì 26 Maggio 2017 21:08 Pubblicato in Recensioni
Masaya (Masatoshi Nagase), che di professione fa il fotografo, discende verso una cecità senza speranza. Per integrarsi con il mondo dei non vedenti partecipa a proiezioni di film, dove una giovane interprete di immagini, ne descrive le scene. Questo ruolo spetta alla sensibile Misako (Ayame Misaki). Il suo compito non è solo quello di esprimere oggettivamente, ma di riuscire con realismo, nell’arduo compito di trasmettere le emozioni ed i sentimenti, che sono presenti all’interno dalla pellicola. Per lei il suo lavoro è tutto. Questa sua passione gli permette di interagire nel profondo con Masaya, scoprendo le sue fotografie ed il suo sguardo. Tra di loro nasce un intimo e sussurrato rapporto, che permetterà ad entrambe di trovare la luce. Assaporeranno insieme l’abbagliante e calda luminosità della vita e dell’amore, fino ad allora reclusa nell’oscurità. 
 
Nel giorno dei festeggiamenti di Cannes 70, il concorso viene aperto da Radiance, l’ultimo e delicato lavoro della regista giapponese Naomi Kawase. (Le ricette della signora Toku – 2015). Il film è basato sui sensi e sul loro potere, e su come sia difficile accettare di perdere una parte di noi stessi.
Ancora una volta il suo cinema è contraddistinto da un lirismo pronunciato. Alle due stelle della valutazione critica andrebbe aggiunta una mezza stella. A conti fatti il film è ben curato, la messa in scena è capillare e la fotografia si armonizza finemente con gli argomenti trattati. Le note dolenti risiedono in una regia che segue il dramma e l’improvviso amore con troppo incanto. Le inquadrature intime ed i movimenti della macchina da presa sono leggeri come il battito delle ali di una farfalla, ma a questa morbidezza manca un po’ di entità. Sostanza che non ritroviamo neppure nella narrazione, complice anche la poca originalità ed un bagaglio di retorica oltre il peso consentito. Radiance ha una storia semplice, non per questo parte svantaggiata, ma ha qualche esitazione di troppo e le emozioni presenti rimangono incollate ai protagonisti e meno al pubblico.
 
L’autrice e sceneggiatrice nipponica realizza un film simile ad una canzone, peccato che i ritornelli non possano diventare un tormentone. Nelle foto di Masaya e nei frames raccontati dalla perseverante Misako troviamo il cuore dei protagonisti, peccato che il tutto sia troppo convenzionale. Momenti chiave insipidi dove la ricerca del primordiale è esente dallo stupire.
 
Radiance lascia l’amaro in bocca. Il linguaggio usato nella sua forma metacinematografica, mixato con la poesia, è sicuramente ben calibrato, ma eccessivamente semplicistico. Anche la metafora dominante della luce è proprio basica. Infine troviamo anche un commento musicale sproporzionatamente invasivo. La   sensazione nel finale, che la foto di se stessi sia a fuoco e nitida può anche essere legittimata, ma il percorso che intraprende nella camera oscura è incompleto e manca di un concreto colore.
 
David Siena

Jupiter's Moon

Giovedì 25 Maggio 2017 21:00 Pubblicato in Recensioni
Jupiter’s moon è ambientato nei giorni nostri e tratta parecchi temi, forse troppi. Uno di questi è di caldissima attualità: il problema profughi. La terra promessa, in questo preciso caso, è l’Ungheria. I clandestini faticano non poco per varcare il confine. La maggior parte vengono scoperti e fucilati senza pietà. In questo clima di rappresaglia e di odio, Aryan (Zsombor Jéger), giovane siriano in cerca di salvezza, è sul punto di entrare illegalmente nel paese. Ma qualcosa va storto e durante un inseguimento viene ferito a morte. Di lì a poco si risveglia miracolosamente e scopre di poter levitare. Aryan viene portato in un campo profughi dove il Dottor Stern (Merab Ninidze), affascinato dalle sue doti mistiche e vedendo il lui la possibilità di fare parecchi soldi, lo aiuta a fuggire. La loro sarà una fuga colma di imprevisti. Laszlo (György Cserhalmi), il direttore del campo, gli starà perennemente alle costole, convinto di poterli acciuffare e sbatterli in gatta buia. Il Dottore, persona corrotta e pronta a tutto per soddisfare i propri interessi, sa a chi rivolgersi per guadagnare denaro con i miracoli del giovane siriano. La corruzione sporca e becera e la fede religiosa, che qui si confonde troppo con il fantastico, sono gli altri aspetti alla base del nuovo lavoro di Kornél Mundruczó. La sua Luna di Giove, che realisticamente si chiama Europa, è una terra promessa irrimediabilmente compromessa. 
 
Questa strana parabola fa parte del concorso ufficiale del Festival di Cannes 2017. Il suo autore, nel 2014, vinse il premio per il miglior film nella sezione Un Certain Regard, con White God – Sinfonia per Hagen. Una specie di favola dai risvolti inquietanti, che aveva come tema di fondo il maltrattamento e l’abbandono dei cani. Se 3 anni fa uscì dal Festival francese con il plauso di aver dato un’originale vetrina ai diversi, lo stesso non si può dire per il suo Jupiter’s moon: opera pesante, confusionaria e ricattatoria.
 
Mundruczó spinge lo spettatore a riflettere su qualcosa di profondo, ma solo lui trova la profondità. La sua bussola si spinge oltre i normali punti cardinali. Punta con eccessiva presunzione verso l’alto, in tutti i sensi. La mescolanza dei generi: oggettivo (aspra denuncia verso il suo popolo decomposto e marcio) e immaginario (uomo risorto come angelo che porta alla redenzione) non funziona. È lodevole la ricerca di una morale costruttiva, ma il suo modus operandi è accartocciato su se stesso e troppo ambizioso. 
Il regista pretende oltre la misura consentita, volendo dare alla religione o a chissà quale potere superiore, il compito di significare l’unica via d’uscita per il genere umano, ormai relegato a virus che infetta tutto quello che trova sulla sua strada (la sua Budapest è descritta come l’inferno in terra).
 
Ed è proprio da questa descrizione che si tirano fuori gli unici punti a favore della pellicola. Uno sguardo presente, pronto e scattante sulla contemporaneità della città. Il viaggio del medico (il vero protagonista) nelle strade della capitale ungherese è ben diretto. La camera da presa sta appiccicata ai personaggi, li insegue senza sosta. Dinamicità e soggettività ben mixate. Entra nella vita delle persone: ottima la carrellata dall’alto verso il basso di un appartamento. Qui la regia è estremamente esplicativa e curata. 
 
A conti fatti Jupiter’s moon si può ricordare solo per qualche buon spunto tecnico, che almeno delinea con realismo i contorni di un paese, che ascolta solo il richiamo dell’immoralità. Non c’è spazio per una redenzione vera e propria. Del resto, l’esagerata carne al fuoco è chiaramente gestita male. Parte si brucia e parte non si capisce bene com’è cotta.
 
David Siena