Fuoritraccia

Newsletter

Messaggio
  • EU e-Privacy Directive

    This website uses cookies to manage authentication, navigation, and other functions. By using our website, you agree that we can place these types of cookies on your device.

    View e-Privacy Directive Documents

Home » News » Info
A+ R A-
Info

Info

E-mail: Questo indirizzo e-mail è protetto dallo spam bot. Abilita Javascript per vederlo.

Light of my life

Martedì 12 Febbraio 2019 08:51 Pubblicato in Recensioni

Gli Aerosmith cantavano nella loro bellissima Amazing: “la vita è un’avventura, non una destinazione”. Qui l’avventura ce l’abbiamo, ma possiamo anche affermare che la vita è una destinazione. Sopravvivere, rimanere in vita, portare se stessi e qualcosa dei nostri cari nel futuro, questa è la destinazione di Light of my life.

Un padre (Casey Affleck), che non ha nome, è sdraiato con la giovane figlia Rag all’interno di una tenda. Fuori solo alberi ed i rumori di un silenziosissimo bosco. Le parole, che rompono il silenzio, raccontano di una volpe che mette in salvo l’amata consorte, ma anche molti altri esseri viventi. Ed è il genitore che con dolcezza e convinzione narra la storia alla figlia, dove troviamo diluvi ed arche a completare la biblica novella (sequenza meravigliosa che incarna appieno il senso del film). Il mondo al loro risveglio non è quello solito, una malattia ignota ha sterminato completamente il genere femminile. Il contesto distopico obbliga il padre e la figlia a vivere da eremiti ed a nascondersi perennemente. La ragazzina è camuffata da maschio per la costante paura di subire violenze dettate da un mondo in cui gli uomini ucciderebbero per una donna. Soprattutto ora che Rag lo sta diventando, Affleck ha il suo ben da fare per proteggerla da ogni persona che incontrano, che incarna un possibile pericolo.

Light of my life è un film che ha molto in comune con “I figli degli uomini” di Alfonso Cuaron e con The Road di John Hillcoat, quest’ultimo tratto dal romanzo capolavoro di Cormac McCarthy.

Casey Affleck, al suo debutto dietro la macchina da presa, si focalizza sulla forza dell’amore di un padre verso la figlia. Non in concorso qui alla Berlinale 2019, il film rientra nella line-up della sezione Panorama. Il premio Oscar per Manchester by the Sea scrive, dirige ed interpreta un padre che mette in risalto le proprie paure più profonde, sorretto dalla figlioletta Anna Pniowsky.

Casey Affleck confeziona un survivor movie intimo. Concentra la sua regia sul rapporto padre/figlia. Il regista cesella con cura queste immagini, le smussa, le accarezza, le coccola e così facendo gli dona respiro e profondità. Questi sono i momenti clou del film. Sembrano poveri in un primo momento, ma il contenuto è robusto e vigoroso. La sua è una sceneggiatura disidratata di materialità, da pochi punti di riferimento, decontestualizza e così facendo il climax è di paura perpetua. Il film ti tiene sempre lì, sull’attenti.

Light of my life pone la sua lente d’ingrandimento sull’umanità e sui suoi istinti, ma anche sulla disperazione, sugli affanni ed infine sulla speranza. Il film guarda verso la società contemporanea, che non sa bene come sarà il proprio futuro. Incertezza uguale a debolezza. Un’umanità senza nessun punto di riferimento fa da contraltare alla ricchezza di sentimento tra padre e figlia, dal quale scaturiscono emozioni palpabili e la speranza di un futuro. Assistiamo al ribaltamento dei ruoli, dove la figlia diventa genitore. Una sorta di   angelo salvifico, non solo del padre, ma anche del genere umano.

Il tutto è ambientato nei boschi e in quelle strade di provincia, nessun grattacielo o l’ombra di una società post-moderna, dove la genuinità regna sovrana, o comunque regnava. Incertezza che globalizza tutto il nostro mondo, anche quello più sincero e naturale.  

David Siena

The Miracle of the Sargasso Sea

Giovedì 14 Febbraio 2019 08:14 Pubblicato in Recensioni

La cinematografia ellenica giova negli ultimi anni di un buon credito fornito dall’ormai consolidato regista Yorgos Lanthimos (The Lobster, La Favorita). Ispirati e spinti da questo creativo e scioccante autore, altri registi suoi connazionali tentano, non sempre con i risultati sperati, di sorprendere e stuzzicare il pubblico. E’ il caso di Syllas Tzoumerkas, che confeziona un’opera a tratti molto interessante, ma non pienamente riuscita. Un thriller dai risvolti disturbanti e controversi ambientato ai confini del mondo greco, nelle zone paludose di Missolungi. Città dimenticata da Dio tanto che gli stessi greci etichettano gli abitanti di Missolungi “quelli dell’aldilà”. Zona morta che vide anche la dipartita di George Gordon Byron, conosciuto come Lord Byron. In questo sito sperduto hanno luogo le vicende di The miracle of the Sargasso Sea, thriller perverso che mette a fuoco la vita di due donne, che non hanno avuto un’esistenza ordinaria. Non si veleggia solo all’interno delle soggettività e delle personalità, formatesi dà famiglie disagiate, ma si naviga e si scava anche nelle problematiche sociali e politiche del paese. Tutto questo usando un registro schizofrenico, cupo e a tratti surreale. Non mancano sequenze spaventose, che colpiscono. La tensione emotiva è alta, anche con qualche imperfezione nella sceneggiatura e l’uso eccessivo di simboli. Il viaggio in questo caso è più avvincente della risoluzione. Dove non tutto trova una risposta, vista anche la mole di sotto testi trattati. “Fuggi per la tua vita. Non guardare indietro e non fermarti dentro la valle: fuggi sulle montagne per non essere travolto!” (Genesi 19:17). Questa biblica frase può essere ben accostata alle due protagoniste del film, in fuga dalla loro Sodoma e Gomorra.

The miracle of the Sargasso Sea, inserito nella line up di Panorama al Festival di Berlino 2019, è scritto dal regista Syllas Tzoumerkas assieme a Youla Boudali (che nel film interpreta il personaggio cardine di Rita). Accostabile come climax alla prima serie di True Detective, con un taglio europeo e meno americaneggiante. Sostanzialmente più sporco, ma non per questo declassabile. Una sorta, al contrario, de La notte brava del soldato Jonathan con Clint Eastwood e con temi vicini allo Snowtown di Justin Kurzel.

2008, Grecia peninsulare. Elisabeth (Angeliki Papoulia) svolge con serietà il suo mestiere di investigatrice. Purtroppo è ricattata da terroristi pronti a riservarle una vendetta trasversale se decide di consegnarli alla polizia. Declassata e spedita a Missolungi in veste di capo del distretto, inizia una vita all’insegna dell’alcol e della depressione. Momento della sua vita che si protrae per ben 10 anni. Il suo compagno di bottiglia ed anche amante è Vassilis (Argyris Xafis). Non proprio la persona giusta per auto rivalutarsi. Ma la persona giusta arriva e si chiama Rita (Youla Boudali). Quest’ultima è una donna provata dalla vita, con un passato orribile. Rita lavora in un’azienda che alleva anguille. Malauguratamente il fratello drogato Manolis (Hristos Passalis) la perseguita continuamente. E’ da questo abominevole rapporto che Rita non riesce a ripristinare adeguatamente la sua dignità. Durante un’esibizione canora di Manolis, cantante da quattro soldi, Rita subisce ulteriori diffamazioni davanti a tutto il paese. E rischia di prendere severe botte dagli albanesi locali, che vogliono vendicarsi delle frasi scagliate contro di loro dal fratello, in evidente stato allucinatorio. Il giorno seguente Manolis viene trovato senza vita appeso ad una pianta. Qui entra in gioco Elisabeth, incaricata di far luce sull’accaduto. All’interno di questa macabra dinamica nasce il rapporto di aiuto e ricerca di assoluzione tra Elisabeth e Rita. Dalle ceneri dell’oblio, rinnegando le loro appartenenze e non solo, le due donne istaurano una loro comunità riparatrice, che Dio volendo le farà risorgere fenici.

In conclusione, ricalcando le riflessioni fatte precedentemente, il film di Syllas Tzoumerkas è un’opera sulle occasioni perdute, ma anche sulle possibilità di redenzione che ci offre la vita. Una rinascita al femminile che è legittima e attuale, in tema con i movimenti pro femministi degli ultimi anni. Diretto senza delle regole precise e con uno stile psicologicamente instabile. La macchina da presa è decisamente più potente della scrittura. Ne consegue una scarsa compattezza. Il lungometraggio è sorta di western moderno, nel quale vivono persone strambe e al limite. Nella terra di nessuno, l’esatto posto dove non essere. Essere inteso come “io”, soffocato dalla misoginia e da una cultura troppo arcaica.

David Siena

The Golden Glove

Mercoledì 13 Febbraio 2019 17:25 Pubblicato in Recensioni
The Golden Gloves (guanti d’oro), notare che qui troviamo una “s” in più rispetto al titolo del film, ma poco cambia per la disamina e il parallelismo che andiamo a spiegare, era una competizione di boxe amatoriale americana in voga dalla fine degli anni 20. Ci si deve essere ispirato Fritz Honka, il protagonista di questo film. E di conseguenza scommettiamo che il suo sport preferito sia stato proprio il pugilato, visto che era il numero uno, ahinoi, a prendere a pugni delle povere donne per poi ridurle a brandelli. I suoi non erano guanti d’oro, ma pugni di morte: il mezzo per esternare una grave malattia mentale, colma di diseducazione e di frustrazione.
The Golden Glove di Fatih Akin sconvolge così la kermesse berlinese (in concorso).  Il vincitore del Golden Globe 2018 per Oltre la Notte adatta l’omonimo romanzo di Heinz Strunk ,che racconta degli efferati delitti del serial killer Fritz Honka ad Amburgo nei primi anni 70. 
 
Nel quartiere a luci rosse della città tedesca vive l’alcolizzato Honka (Jonas Dassler). Il suo appartamento trasuda colpe e cattivi odori. Nelle sue mani tiene sempre ben salde una bottiglia ed un sega. Quest’ultima la usa per tagliare le sue vittime, per poi stipare i pezzi del corpo nei muri. Tutti si lamentano del fetore proveniente dalla sua casa, ma lui dà la colpa alla cucina dei suoi coinquilini di origine greca. L’attuale malcapitata si chiama Gerda Voss (Margarethe Tiesel), che accortasi degli strani atteggiamenti di Fritz riesce a scappare mentre lui è al lavoro. Quando tutto sembra precipitare l’uomo sembra rinsavire, fino al momento in cui si invaghisce di una collega ed i suoi incubi tornano a visitarlo. L’alcol diventa ancora il suo miglior amico. A braccetto vanno verso l’autodistruzione. La goccia che farà traboccare il vaso ha il viso di una bellissima teen-ager, che trascinerà il viscido individuo fino alle fiamme dell’inferno.
 
Fatih Akin dirige con mano da navigato cineasta. Piani sequenza magistrali che mettono in mostra l’estremismo di una mente malata. La regia si allinea all’oltranzismo del killer così da rendere il film estremamente vivido ed angosciante, complice anche una messa in scena impeccabile.
Il regista tedesco si affida ad una violenza vontrieriana ed a una scarsa sceneggiatura per legittimare le proprie intenzioni: comporre un film piatto, volutamente non empatico, ma rivoltante da far attorcigliare lo stomaco. Si perché il mostro di Firenze tedesco è privo di sostanza, è brutalità pura. Non c’era bisogno di entrare in chissà quale psicologismo. Solo ferocia per descrivere questo mostro contemporaneo.
Un riuscito B movie tendente al grottesco e non retorico, che se ne sbatte degli attuali movimenti pro-femminismo. Qui non c’è nessuna pietà per le donne, sgraziate e oltre l’orlo della crisi di nervi.
 
Di spessore la prova attoriale di Jonas Dassler. Il suo mostro è impressionante, aiutato anche da un trucco da Oscar. Spodesta il diavolo dal suo trono degli inferi e ci conduce al suo interno. Mondo di prostitute, desideri malati, alcol a fiumi, flatulenze e divampanti fiamme. 
 
The Golden Glove esce completamente dai canoni dei film precedenti del regista. I temi dell’integrazione, emigrazione lasciano spazio agli incubi e alle paure dell’autore. Fatih Akin è nato proprio ad Amburgo. Mettendo in scena l’uomo nero si propone di combattere i propri demoni e lo fa non risparmiandosi. Confeziona un film moralmente discutibile visto il suo atteggiamento scorretto, ma corretto nell’essenza e nei contenuti.
 
David Siena
 

Grazie a Dio

Martedì 12 Febbraio 2019 16:28 Pubblicato in Recensioni
Una delle ultime esternazioni, da parte di un difensore delle Chiesa durante una conferenza stampa, che con quello che pronuncia fa più male che bene al mondo ecclesiastico, è: “Grazie a Dio è andata in prescrizione l’accusa verso padre Bernard Preynat”. Accusa pesantissima: pedofilia. Ed è proprio da Grâce à Dieu, il titolo del film, che il suo regista François Ozon vuole scuotere e provocare. Denunciare senza tanti fronzoli le malefatte di una figura paterna, che dovrebbe proteggere non distruggere. 
Grâce à Dieu non concede nessun alibi alla Chiesa, anzi gli va contro come un fiume in piena, senza diritto di replica. Nella diocesi di Lione le tre, ma anche tante altre, vite spezzate dagli abusi del parroco Preyant (Bernard Verley), vengono raccontate con l’uso di e-mail, che sono il mezzo per far venire a galla gli abomini commessi dal prete. Lettere che fungono da voci fuori campo, che raccontano senza troppi filtri le atrocità subite dai bimbi.
 
Non solo diretto, ma anche scritto dal regista francese François Ozon, il film, che si discosta parecchio dal cinema del regista parigino, è in concorso alla Berlinale 69 e si porta a casa il secondo premio: l’Orso d’Argento - Gran Premio della Giuria. Alla Berlinale del 2009 portò invece un film diametralmente opposto: la fiaba Ricky - Una storia d'amore e libertà.
 
Come già anticipato in precedenza questa storia realmente accaduta si concentra sugli abusi subiti da Alexandre (Melvil Poupaud) negli anni 80 a cavallo con i 90. Alexandre ora è padre di famiglia, con ben 5 figli. La sua vita ha preso una strada di soddisfazioni, ma quando scopre che Padre Preynat è tornato nella diocesi di Lione e che lavora sempre a stretto contatto con i più piccoli, la sua rabbia scoppia e intraprende una lotta senza esclusioni di colpi contro le figure apicali della Chiesa, che chiudono gli occhi davanti ai crimini di Padre Preynat. Al suo fianco François (Denis Ménochet) e Emmanuel (Swann Arlaud) non mollano un colpo e vanno diritti verso l’obiettivo comune: fermare e punire l’uomo che gli ha portato via l’innocenza. 
 
Ozon si affida al romanzo epistolare per mettere in scena la sua opera. La narrazione non è diretta, ma è improntata su scambi di e-mail. L’evoluzione degli avvenimenti nasce dalle lettere scritte dai personaggi principali. Le e-mail forniscono tutti i dati e danno la sostanza che porta avanti la storia. Attraverso questi scambi comunicativi Ozon riesce a caratterizzare i suoi personaggi compreso l’ambiente in cui vivono, riuscendo così a presentare al pubblico una situazione oggettiva, che non lascia nulla al caso. Il regista è il collante tra le missive. Il suo linguaggio cinematografico è al servizio dell’utente. Una sceneggiatura originale ed asciutta riesce ad infondere al film una carica emotiva non indifferente. Denunce che fanno scaturire altre denunce. Un susseguirsi di aperture di scatole che portano davanti alla scatola più grande, chiusa col cemento dell’omertà.
 
Il film ricorda il premio Oscar Spotlight. Questo perlopiù investigativo, qui invece si dà più voce alle vittime ed il progetto riesce appieno. Ottime anche le prove attoriali di tutto il cast. Si crea la cosiddetta comunità riparatrice. Gruppo di sconosciuti che hanno in comune un male atroce, che tra di loro riescono a lenire. Una prova corale sentita e convincente. Il film ha l’unico vero difetto nella lunghezza, qualcosa si poteva tagliare. 
 
Grâce à Dieu è un film di attualità, che entra prepotentemente nel sociale e che mette in risalto i problemi della chiesa, sempre meno portatrice di fiducia. Questo si evince in quanto Padre Preyant, allo stato attuale, è ancora in libertà pur essendo accusato da più di settanta persone. Chissà se Papa Francesco, che proprio questa settimana presenzierà ad un summit sulla pedofilia in Vaticano, riuscirà a dare la giusta inversione di marcia ad una comunità ecclesiastica davvero discutibile e che non sembra dare il giusto esempio.
 
David Siena