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Arance e Martello

Mercoledì 08 Ottobre 2014 10:11 Pubblicato in Recensioni
Roma, 2011. In una giornata di metà agosto, nell’estate più calda degli ultimi 150 anni, una radio locale annuncia l’imminente chiusura dello storico mercato rionale di Via Orvieto. Così stabilisce l’ultima ordinanza comunale dell’assessore al commercio Quattordicine, che vuole sostituire il mercato con un parcheggio sotterraneo. I commercianti, terrorizzati dall’idea di perdere il lavoro, bussano alla porta di un altrettanto storico circolo del Partito Democratico per chiedere aiuto e indire un referendum abrogativo contro l’ordinanza. A separare il circolo dal mercato c’è solo il decennale cantiere della metropolitana, così come le promesse mancate continuano a separare la politica dalla gente comune. Manco a dirlo, infatti, gli attivisti democratici non riescono a cavare un ragno dal buco. I commerciati esasperati decidono allora di assediare la sezione. Tra gli ostaggi ci sono un gruppo di giovani democratici, un ex partigiano nostalgico e Diego, ex attivista disilluso che si ritrova a documentare l’occupazione con la sua telecamera. Mentre fuori entra in scena il circo mediatico dei giornalisti marchettari, rapitori e ostaggi insieme cercano goffamente di mandare avanti la rappresaglia. 
Diego Bianchi, in arte e a lavoro “Zoro”, comincia la sua attività di blogger nel 2003, fondando il blog La Z di Zoro. Nel 2007 inaugura la rubrica video Tolleranza Zoro; in cui interpreta un simpatizzante del Partito Democratico in perenne crisi d’identità e svolge resoconti politici attraverso alcune tappe simboliche, cariche di significati emotivi soprattutto per il centrosinistra. Dal 2008 lavora nello staff creativo di Serena Dandini, prima in Parla con me, poi in The show must go off, mentre nel 2013, si ritaglia la figura di conduttore televisivo in un programma tutto suo, Gazebo, in cui alterna la diretta in studio alle sue tipiche video inchieste. Debutta dietro la macchina da presa con Arance e martello, presentato alla Settimana della Critica durante la 71ª Mostra d’arte cinematografica di Venezia.
Il talento dimostrato da Bianchi nella sua rubrica (prima per il web poi per la televisione) è sempre stato nel suo video-occhio, in grado di saper cogliere il qui e ora nel magma brulicante della politica italiana, con poche semplici inquadrature “sporche” della sua handycam e un montaggio associativo capace di dinamizzare la visione dell’utente. 
Dal momento in cui il qui e ora viene meno nella rappresentazione cinematografica, in favore di una costruzione a tavolino della mise en scène, quel video-occhio perde la genuinità dimostrata più volte in televisione e sul web. Ennesima prova dell’inconciliabilità fra il linguaggio cinematografico e quello dell’inchiesta televisiva, poiché anche quando si intende raccontare la realtà in un film a soggetto, si deve necessariamente fare i conti con i codici di una messa in scena artificiosa. Bianchi regista, infatti, si trova il più delle volte spaesato e non sa letteralmente dove piazzare la macchina da presa. L’alternarsi al montaggio tra la messa in scena canonica e le riprese brute della telecamera del protagonista sono un modo per confermare il proprio format e la speranza di conferire un ritmo alla piattezza della costruzione. 
Eppure non ci troviamo di fronte al tipico caso in cui la figura del personaggio televisivo di successo viene esportata sul grande schermo da un mecenate senza scrupoli nel nome del vile denaro. Anche se il film conserva alcuni tratti caratteristici di Gazebo sarebbe sbagliato paragonarlo necessariamente a operazioni aberranti come quella dei Soliti Idioti (per dirne una). Tutt’altro, Zoro disegna con affetto e sincerità quel mondo popolare e le macchiette che ne fanno parte. Inoltre, detiene un controllo quasi totale sulla realizzazione del film; scrive, dirige, interpreta e collabora al montaggio insieme ad Alessandro Pantano. Forse è proprio questo il problema; per un debuttante senza particolare formazione e coscienza cinematografica, sostenere da solo un tal numero di competenze non può portare ad altro che a un’opera acerba. Su questo punto Bianchi mette le mani avanti nel monologo a favore camera in cui tenta di esorcizzare preventivamente ogni accusa di narcisismo. Non resta altro da fare quindi che aggrapparsi a modelli di culto già belli che rodati, come si può notare dai continui omaggi a Spike Lee, in particolare a Fa la cosa giusta, proiettato anche durante l’occupazione. 
A fare le spese di questa inadeguatezza formale sono proprio i personaggi stessi; nostalgici, progressisti, ipocriti, qualunquisti, veltroniani, laziali, romanisti, tutti parte di un microcosmo in cui sono ammassate le diverse “correnti” degli ultimi vent’anni di storia italiana. Dal reduce democristiano (Andrea Salerno) che vota a favore della chiusura del mercato (perché “cosa c’è di più moderato, cattolico e riformista di un bel parcheggio sotterraneo”) all’ex partigiano nostalgico di una lotta che non esiste più, dall’indiano venditore di aglio al Sindaco ex picchiatore (Giorgio Tirabassi), che mostra ottuso riguardo per le marachelle dei fascisti del terzo millennio (ogni riferimento a Gianni Alemanno non è puramente casuale), dal comunista represso all’ambientalista in fissa per il macrobiotico. 
La convivenza di realtà così frammentarie non può che finire in caciara; la sezione viene distrutta dall’irruzione delle guardie, insieme alle reliquie delle incontrastabili icone di sinistra (da Guevara a D’Alema, passando per Togliatti, Berlinguer e Occhetto). Uccidi i tuoi padri prima che loro uccidano te, diceva qualcuno. 
L’ennesima analisi della sconfitta da parte della sinistra italiana, che nell’ultimo ventennio ha perso di vista la salvaguardia delle classi subalterne, innalzandosi su un piedistallo di narcisismo etico, in favore di lotte utopiche per salvare il mondo dal male del berlusconismo. Ma come può la sinistra salvare il mondo dall’ignoranza generata dal berlusconismo se non intende prima di tutto confrontarsi con essa? È questo il paradosso che Bianchi vuole mettere in luce con il suo film, quello di una sinistra che vuole salvare il mondo ma che non riesce nemmeno a pisciare senza bagnarsi i pantaloni, ed è anche lo stimolo che lo ha spinto nella sue precedenti video inchieste, (auto)ironici ritratti di una politica estraniata nell’Olimpo dei buoni propositi.
Con estremo rammarico dello spettatore però, il film non risulta qualitativamente all’altezza di Gazebo, uno dei pochi fari nel desolante panorama della televisione generalista. 
Nonostante questo, si ride molto, grazie all’assortita galleria di personaggi e alle loro vere e proprie perle nazionalpopolari.
 
Angelo Santini

La Bella Virginia al Bagno

Martedì 07 Ottobre 2014 00:52 Pubblicato in Recensioni
La giovane Eleonora Marino affronta le dinamiche dello spettacolo viaggiante, dei circhi e delle giostre itineranti, ripercorrendo la vita dei propri genitori, giostrai romani “strapiantati” per tutta la vita, con una interessante analisi sui cambiamenti sociali dell'Italia del miracolo economico. 
Così come aveva già fatto qualche anno prima ne "La Città invisibile del divertimento", la regista punta i riflettori sul fascino della scoperta, frutto di un'artigianalità fervida e sempre pronta a stupire il pubblico per regalare un'emozione o un sorriso, senza però dimenticare quel che si cela dietro le quinte: un'attività intensa e faticosa, raccontata tramite gli aneddoti di chi si è visto costretto a fare i conti anche con i pregiudizi della vita zingara. Attraverso un interessante excursus genealogico della famiglia dell'autrice, viene mostrato come la passione di giostrai fabbricanti di sogni affondi le proprie radici nei più nobili dei palcoscenici teatrali e circensi d'Europa. 
Ma "La bella Virginia al bagno" descrive anche, di riflesso, una società che si è spostata verso la pornografia dei rapporti, delle esigenze, delle aspettative, dimenticando l'arte dell'arrangiarsi tipica di quella presenza di spirito abituata a vedere il bicchiere mezzo pieno. Viene rivissuto così un periodo che va dal dopoguerra fino a fine boom anni '80, in cui certi valori erano più importanti delle semplici necessità, fino ai giorni nostri dove questi stessi diventano stridenti con una vuota modernità fatta di simulatori di guida. Un parallelo folgorante che sintetizza la realtà disorientata di un'Italia ammassata nei centri commerciali e ormai sempre più dimentica di quell'arte di felliniana memoria, delle sue piazze e delle sue storie. Per questo il titolo del documentario vuole essere una metafora dei tempi, e ricorda il nome con cui veniva chiamato un numero d'imbonimento delle fiere di fine '800, quando per uno spicciolo il pubblico accorreva speranzoso di placare le curiosità più pruriginose, finendo con l'imbattersi con la genialità teatrale e magica dell'inventiva umana che si celava sotto il tendone. Tutto ciò ora sembra scomparso, e quella passione è rimasta fagocitata dall'interesse e dal profitto, in un'amara riflessione che coinvolge anche le dinamiche che hanno portato alla chiusura del LunEur (tra i più grandi parchi giochi d'Europa). Ne esce un'immagine spietata dell'Italia, rimasta vittima di un progresso economico cieco, che ha dimenticato la cultura e le tradizioni, sacrificando le proprie risorse in una becera corsa al rinnovamento, senza riuscire - come denunciato da Pasolini fino al giorno della sua morte - a trovare un equilibrio tra necessità e razionalità, finendo col rivoluzionare irrimediabilmente, in una spirale tutt'altro che virtuosa, anche il costume degli italiani.
 
Pollo Scatenato

Vincent Ward: da Hollywood alle sirene

Lunedì 06 Ottobre 2014 11:47 Pubblicato in Interviste
Abbiamo incontrato il regista neozelandese Vincent Ward, classe 1956, in un’area storica della città di Shanghai, vicino al Suzhou River dell’omonimo film di Lou Ye. Ward è stato in Cina per un ciclo di conferenze, ma anche per il progetto con il quale ha preso parte alla Biennale di Shanghai del 2012. Il regista, vincitore dell’Oscar per gli effetti visivi del film “Aldilà dei Sogni” (1998), “mancato” regista di “Alien 3” (la sua versione mai realizzata del film è considerata un cult dagli amanti del sci-fi) e produttore de “L’Ultimo Samurai” (2003), dopo aver girato film indipendenti incentrati su temi sociali come la problematica integrazione di minoranze etniche e culturali, e seguendo la sua iniziale vocazione di pittore, si è dedicato alla realizzazione di opere video che gli hanno permesso di esplorare la pura immagine in movimento, nei suoi colori e nel modo dinamico che ha di occupare lo spazio e dargli forma, modellarlo con luci e ombre, ma anche con il suono.
 
 
Ward esprime una certa amarezza per l’esperienza hollywoodiana, la stessa che si trova nelle parole di molti registi non-americani che hanno lavorato a lungo nella capitale del cinema mainstream. Non manifesta il suo disappunto in modo esplicito o enfatico, ma dalle sue parole si evince come la frustrazione per una fondamentale mancanza di libertà “creativa” lo abbia portato alla decisione di dedicarsi esclusivamente a progetti lontani dal cinema commerciale e rivolti al pubblico delle mostre d’arte e degli esperimenti “inter” o “crossmediali” che negli ultimi anni, grazie alla comparsa di canali di diffusione sempre più numerosi e differenziati (non ultima la rete), hanno trovato un numero sempre maggiore di estimatori ed esponenti. Si possono citare registi a cavallo tra i due mondi – arte e cinema – come Peter Greenaway e il più giovane Steve McQueen.
 
 
Il caso di Vincent Ward è estremamente interessante nella sua anomala esemplarità: il film più noto del regista è certamente “Aldilà dei Sogni”, premiato nel 1999 con un Oscar per gli effetti visivi. Il film è uno strano ibrido, sottilmente deprimente come forse solo i film “oceanici” – ovvero provenienti da Australia e Nuova Zelanda – riescono a essere (penso a Peter Weir e ai suoi riusciti esperimenti sull’isolamento materiale ed esistenziale di un popolo), ma anche eccezionale dal punto di vista visivo: visioni che prendono vita per diventare paesaggi e rappresentazioni/interpretazioni di paradisi, limbi e inferni evidentemente ispirati alle descrizioni dantesche. Quello che fa Ward è abbinare immagini a un immaginario pregresso fatto di ricordi e atmosfere: per realizzare questa non facile impresa il regista ha fatto confluire nei suoi film la vocazione iniziale per la pittura – ha una laurea in Belle Arti dell’Ilam School of Fine Arts, Università di Canterbury – partendo dalla tecnica di animazione di sfondi dipinti con tecniche tradizionali. Il trattamento delle immagini presente del film sembra però contraddire la sua struttura narrativa convenzionale (e in questo tipicamente “hollywoodiana”), che non rende giustizia all’approccio sperimentale di Ward. Questo approccio sfocia oggi in ripetute incursioni nel mondo dell’arte contemporanea. Uno dei suoi progetti più recenti, come già anticipato, è stato presentato come progetto collaterale alla Biennale di Shanghai 2012 con il titolo di Auckland Station: Destinies Lost and Found e consiste in un’istallazione multi-screen combinata a dipinti su seta: soggetto delle proiezioni sono eteree danzatrici che si muovono all’interno di un cilindro di luce, immerse nell’acqua. Proiettate nell’ambiente scuro e solenne di una chiesa sconsacrata sul Bund – l’area di Shanghai famosa per la sua architettura coloniale che si sviluppa sulla sponda occidentale del fiume Huangpu – queste immagini evocano come in un déjà vu un mondo perduto che non ci è dato conoscere, o che forse appartiene al passato di Ward e alle sue tante vite. Durante l’incontro e la piacevole chiacchierata con il regista abbiamo ripercorso le tappe più importanti della sua carriera e della sua esperienza umana:
 
 
Che tipo di influenza ha esercitato il tuo paese di provenienza, la Nuova Zelanda, sulla tua esperienza di vita e sul tuo lavoro, stile ed evoluzione come regista?
Sono cresciuto in una fattoria nella campagna neozelandese, dove la mia infanzia è trascorsa in solitudine, vagando nelle terre selvagge della mia famiglia. Mia madre, una giovane ebrea tedesca sposa di guerra, ha lavorato duramente per adattarsi alla vita di moglie di un agricoltore, in una famiglia cattolica. Penso che queste circostanze affiorano all’interno del microcosmo delle storie che racconto. L’adolescente protagonista del mio primo film “Vigil” (1984) è spesso solo, mentre in “In Spring One Plants Alone” mi sono calato nei panni di un outsider all’interno di un’isolata comunità insulare Maori.
Se la Nuova Zelanda sarà sempre la mia “casa”, come molti “kiwi” (N.B. modo colloquiale con cui i neozelandesi chiamano se stessi) ho un’indole avventurosa e infatti ho vissuto in molti paesi del mondo. In realtà sono una specie di vagabondo, con una costante fascinazione per le altre culture. La memoria e le storie individuali, di qualsiasi persona, sono una fonte costante di ispirazione. Raggiungere gli spettatori all’interno di uno spazio emotivo e psicologico è essenziale per me: quello che lo spettatore legge in un film, per sua volontà o perchè gli viene dato lo spazio per farlo, equivale almeno alla metà dei dialoghi. I miei film intercettano la psiche del protagonista o degli altri personaggi per esplorare il loro coinvolgimento, sempre unico, nella memoria e nelle esperienze. Nel fare questo spero possano raggiungere una verità sull’esistenza.
Molti dei miei film riguardano amicizie e relazioni tra culture diverse – ad esempio “Map of the Human Heart” (1993), “River Queen” (2005) e “Rain of the Children” (2008) – cosa che deriva probabilmente dalla mia infanzia. La negoziazione tra culture infatti è stata sempre parte del mio contesto domestico. Come già accennato, mia madre era tedesca mentre mio padre neozelandese, perciò ho dovuto sempre cercare di trovare l’equazione tra la mia terra e la loro relazione. 
 
C’è qualche tratto distintivo che puoi individuare all’interno della tua cultura di appartenenza?
Dicono spesso che c’è un elemento lirico e una crudezza di fondo nel mio lavoro. Per esempio in “Vigil” ho cercato di ritrarre il paesaggio misterioso e aspro che fa da sfondo alle vicende di un contadino, un uomo solido, d’altri tempo. Essendo un paese giovane, la nostra relazione con la terra e la nostra identità nazionale sono ancora in via di formazione. Il paesaggio volubile e indomito della Nuova Zelanda è qualcosa che penso pervada la nostra coscienza nazionale e emerga a sua volta in buona parte del nostro cinema più crepuscolare e umanistico (a volte persino gotico). I film sono davvero un fantastico veicolo di espressione ed esplorazione culturale.
 
Puoi dirci qualcosa della tua esperienza a Hollywood?
Ho vissuto a Los Angeles per sette anni. Quello che mi ha portato lì per la prima volta è stata la necessità di trovare una storia originale per “Alien 3”, dal momento che mi era stato chiesto di girarlo. 
In quel momento stava crescendo la mia reputazione di regista in grado di rappresentare una voce originale, in sintonia con le idee dei personaggi, capace di descrivere i loro mondi interiori e di creare universi di forte impatto visivo. La laurea in belle arti mi permetteva una certa abilità nel disegno e nell’ideazione, nonchè nella narrazione di storie. I miei film precedenti erano stati in concorso a Cannes e avevano vinto diversi premi. Ho lavorato ad “Alien 3” e alla sua sceneggiatura per nove mesi, ed è stata un’esperienza decisamente frustrante; tra gli aspetti positivi, c’è il fatto che il tipo di immaginario cui ho dato vita ha conquistato negli anni un grosso seguito cult, però allo studio fece paura l’audacia dell’idea perciò il risultato è che il film esiste principalmente negli articoli e in pubblicazioni come il libro ‘The Greatest Sci-fi Movies Never Made’ scritto da un giornalista del London Times. Mi è stata accreditata la storia ma non mi sono voluto adeguare a quel tipo di compromesso, così mi sono dedicato a un progetto indipendente e ugualmente ambizioso, “Map of the Human Heart”, prodotto da Australia, Gran Bretagna e Canda, prima di ritornare a Hollywood quattro anni dopo.
È stato un periodo entusiasmante. Avevo una piccola compagnia e alcune persone disposte ad aiutarmi, con le quali andavamo soprattutto in cerca di progetti originali, da sviluppare in direzione di una realizzazione materiale in cui potessero confluire le mie capacità e il mio stile. In quel periodo sviluppai un numero di sceneggiature, inclusa quella che sarebbe diventata “L’ultimo Samurai” e un film diretto da me, “Aldilà dei Sogni”, con  Robin Williams. Ho lavorato nella convinzione di poter realizzare una serie di film amibiziosi, dentro e fuori il sistema. Dopo “Aldilà dei Sogni” sono tornato in Nuova Zelanda per fare film più personali e alla fine sono tornato al mio interesse iniziale per l’arte.
 
Cosa ti ha portato a concepire e scrivere What Dreams May Come (Aldilà dei Sogni)?
“What Dreams May Come” è basato su un racconto di Richard Matheson. Quello che inizialmente mi ha affascinato era il potenziale psicologico e scenico di questa storia, narrata dal punto di vista di un Orfeo e ambientata in larga parte nell’aldilà. La mia prima priorità è stata trovare il nucleo del film, un fulcro da cui partire e da reinventare attraverso le immagini e la storia. In pratica ho dovuto prima identificare il concetto visivo che avrebbe trainato l’intero film. La chiave è stata immaginare una vita soggettiva nell’aldilà. Questo quando mi sono reso conto se il personaggio centrale del film fosse stata una pittrice, nuove e fantastiche possibilità estetiche sarebbero emerse. E quindi decisi che il film avrebbe evocato un mondo simile alla pittura dell’Ottocento e Novecento, viva ed emozionante.
Ora che avevo il cardine concettuale, mi restava da capire come dare vita al ricco ambiente materico che volevo creare: per rendere il mondo viscerale della pittura viva che avevo immaginato avrei dovuto osare inoltrarmi in territori inesplorati; dovevo spingere la tecnologia che avrei usato al punto da farla sembrare e “sentire” credibile, far vedere la trama pittorica sullo schermo. Ho fatto scelte che hanno conferito autenticità al progetto: per esempio all’artista digitale specializzato in pittura a olio ho affiancato un bravo pittore per dare forma alle singole pennelate. È così che abbiamo sviluppato una nuova tecnica chiamata “motion painting”, che ha ottenuto un Oscar per i risultati tecnici e visivi raggiunti.
 
 
Cosa è successo con Alien 3?
Fui contattato dai produttori di “Alien 3” perché avevano visto un mio film precedente,”The Navigator: a Medieval Odyssey” e, per usare le loro stesse parole, ne erano rimasti  “sconvolti”. Mi chiesero di unirmi alla squadra e io accettai, anche se non volevo fare una copia degli altri capitoli. Per “Alien 3” ero intenzionato a portare il genere della fantascienza in un’altra direzione. Decisi che la mia storia sarebbe stata incentrata su un gruppo di monaci-ludditi isolati in un monastero satellite nello spazio. Il solito trucchetto del bottone che fa cento cose diventò così cento cose – o meglio cento monaci – che facevano una sola cosa, con la loro tecnologia arcaica. La storia si sarebbe sviluppata in un mondo tanto distintivo da risultare indimenticabile.
Anche se il film non è mai stato realizzato e questa visione non è stata più portata sullo schermo, molte persone sentirono che quell’universo fantastico era in qualche modo nuovo e diverso, forse persino in anticipo sui tempi. Senza alcun tipo di pubblicità, un articolo su “The Wooden Planet” uscito sul Empire Online del 2010 ha avuto 136.000 visualizzazioni solo nella prima settimana.
 
… e con la sceneggiatura de L’ultimo Samurai?
Ho sviluppato le basi di “The Last Samurai” in un arco di tempo di tre, quattro anni, durante il quale ho condotto molte ricerche sul Giappone del diciannovesimo secolo. Avevo avuto anche la fortuna di collaborare con uno scrittore vincitore del Pulitzer entrato a far parte del progetto. Alla fine capii che avrei preferito lavorare come produttore per questo film, per cui scelsi una regista per portare avanti la lavorazione. Anche se devo dire che il prodotto finito mi è piaciuto abbastanza, il mio timore – che poi era anche la logica stessa alla base del film – era che nelle mani di uno studio americano il risultato finale non avrebbe avuto l’integrità culturale cui do sempre la massima importanza.
 
 
Quale pensi sia la direzione che il cinema mainstream ha preso in questo momento? E quale il ruolo di Hollywood in questo scenario?
Il cinema mainstream è diventato come un franchising. Considerate le spese enormi che l’uscita di un film richiede, molto sono diventati cauti e i prodotti più interessanti sono ormai le serie via cavo (penso a Breaking Bad o In Treatment) e occasionalmente qualche esempio di cinema indipendente dagli Stati Uniti. Ovviamente il cinema europeo ha una tradizione più rigorosa da questo punto di vista. 
 
Pensi che questo sistema sarà messo in discussione dall’ascesa di realtà produttive relativamente nuove come quella indiana o cinese?
Non credo, l’America ha una rete distributiva così forte e i film americani sono così popolari presso il pubblico più giovane che continueranno a detenere la loro egemonia in questo settore.
 
Quando hai iniziato a sviluppare i tuoi progetti indipendenti e a considerarli centrali della tua carriera di regista?
Mi sono sempre dedicato a questo. Ho sempre voluto tornare alla mia prima passione – la pittura. Ho iniziato a lavorare a progetti di questo tipo dopo “Aldilà dei Sogni”, sviluppando schizzi e dipinti ispirati alla ricca tavolozza del film. Mi sono dilettato con qualche lavoro negli anni, ma è stato quando la Govett-Brewster Gallery in Nuova Zelanda mi ha chiesto di fare una mostra che l’arte è passata in primo piano. Nei due anni successivi ho partecipato a una serie di mostre in grosse gallerie, devo dire che quel periodo è incredibilmente intenso ma ha segnato un cambiamento che ho accolto con gioia. 
 
 
Per quanto riguarda l’esplorazione del linguaggio artistico, qual è l’aspetto cui sei maggiormente interessato?
La percezione. L’intepretazione delle culture e la disparità. E ancora la psiche, i momenti di trasformazione nel cinema e nell’arte. Il titolo cinese del libro sul mio lavoro scritto da Dan Fleming è Making the Transformational Moments in Film (“Fare Momenti di Trasformazione nel Cinema”) e ritengo che in diversi punti rintracci con esattezza i miei principali oggetti di interesse e studio.
 
Attraverso quali canali vorresti che la gente si avvicinasse ai tuoi lavori?
Tramite media di tutti i tipi. Lungometraggi, installazioni, pittura, fotografia, testi. Per me sono tutti interconnessi.
 
 
Mariagrazia Costantino

Sin City 3D - Una donna per cui uccidere

Venerdì 03 Ottobre 2014 15:33 Pubblicato in Recensioni
Al KadiÈs Bar di Sin City si incrociano le vite di sei personaggi mossi dalla stessa intensa sete di vendetta, delle maschere che già conoscevamo, in un seguito tanto atteso che dopo 9 anni riporta sul grande schermo la graphic novel di Frank Miller, co-regista assieme a Robert Rodriguez. Con estrema fedeltà al testo originario, con additivi concepiti per l'occasione da Miller in continuità di spirito e plot, resta la stessa estetica, come il cast seppur con qualche variazione(Josh Brolin per Clive Owen, Jamie Chung per Devon Aoki). L'unica grande novità sembra essere l'utilizzo del 3D che, come sostiene Rodriguez, diviene necessario per la sua specificità perchè può meglio rendere la particolarità dello stile da cui attinge, trasportandoci efficacemente all'interno del surreale scenario rappresentato. Sin City 3D segue in maniera pedissequa anche le stesse modalità narrative dei testi di Miller nella tendenza a compiere salti temporali, in un concatenarsi di eventi e flashback che si amalgamano gli uni con gli altri, passando con disinvoltura da una dimensione all'altra fino a sconfinare nel sogno o nelle derive allucinatorie. Alcune delle storie di questo secondo episodio sono ad esempio precedenti rispetto a quelle raccontate nel primo film. Personaggi come Marv (Mickey Rourke), Goldie (Jamie King) e Hartigan (Bruce Willis), che sembravano necessariamente aver concluso il loro iter, ritornano, in questo nuovo capitolo e senza che ciò spiazzi lo spettatore, "sopravvissuti" ad truce epilogo, attraverso una serie di escamotage temporali atti a garantire ancora una volta la presenza di interpreti forti a cui eravamo stati abituati.
Le varie storie che si snodano lungo il corso della pellicola sono l'elemento peculiare e determinante, oltre alla caratterizzazione dei protagonisti, e confluiscono forse nel segmento più rappresentativo di tutti, una punta di diamante per i due autori, quello dedicato alla temibile femme fatale Ava Lord (Eva Green), mantide religiosa fuoriuscita dai più crudi noir hollywoodiani. L'accento sul cinismo è caricato al massimo, attraverso dialoghi ammantati di classicismo, le battute alla Bogart o alla Cagney si sprecano, abbondano fino ad autoimplodere risultando a tratti forzose ed eccessive. Eva Green più nuda che mai, ricalcando indole e movenze della Phyllis Dietrichson de "La fiamma del peccato" di Wilder, si assicura la sua parte di storia sul grande schermo, masticando e sputando via il proprio partner con una perfetta insensibile noncuranza. Il ricordo di Hartigan a tratti commuove attraverso la disperata follia di Nancy (Jessica Alba) e forse rievoca un po' troppo quel "Sesto Senso" che traumatizzò molti spettatori 15 anni prima. La sua voce off ci avvisa che "l'inferno è vedere soffrire chi ami" perchè qui, a Basin City, l'amore e la morte sono legati a doppio filo e il dolore è il ritmo cadenzato di amare esistenze. Lo spettacolo regge, assicura al pubblico una bella dose di divertimento ma non arriva mai a toccare gli alti livelli del primo film, un vero e proprio caso per dei palati che mai prima di allora avevano assaporato uno spettacolo talmente dirompente e originale. 
 
Chiara Nucera