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Se il mondo intorno crepa

Martedì 17 Giugno 2014 14:29 Pubblicato in Recensioni
In una città fantasma del vecchio west, “sospesa tra la polvere del deserto e i fantasmi del passato” si svolgono le vicende di due efferati fuorilegge, Black Burt (Stefano Jacurti), in arte e al lavoro “il Poeta”, e Butcher Joe (Simone Pieroni) alias “il Macellaio”. I banditi, in fuga verso il Messico, si imbattono in una serie di figure macchiettistiche, involontariamente grottesche e in situazioni prive di continuità drammaturgica. In un ingarbugliato (e un po’ noiosetto) sviluppo narrativo, vediamo come le atrocità compiute in passato dal Poeta/Black Burt lo inducano a ravvedersi. Indignato “dall’assenza di istituzioni” in quelle terre dimenticate pure da Dio, Black Burt fa un esame di coscienza e vende alle autorità locali il suo compare Butcher Joe in nome della legge e di un’improvvisa riscoperta civile, in un finale che puzza un po’ di moralismo spicciolo. 
I registi Stefano Jacurti ed Emiliano Ferrera non nascondono la loro passione morbosa per il cinema western. Nel 2007 realizzano Inferno bianco, western-horror innevato, girato sul Gran Sasso come immaginario Oregon; il film vince il primo premio ACEC al Tentacoli Film Festival, ricevendo, a quanto pare, una lettera di riconoscimento da Pupi Avanti. Durante la conferenza stampa di Se il mondo intorno crepa – If the world dies, Jacurti & Ferrera citano, tra i registi che li hanno maggiormente influenzati, John Ford, Sergio Leone, Sam Peckinpah, ma, guardando anche distrattamente la loro ultima fatica, i due autori/attori dimostrano di aver assorbito quell’estetica/etica western senza veramente capirci un tubo.
Infatti, l’impressione che si ha guardando il film è quella di un gruppo di bamboccioni un po’ cresciuti che giocano a fare i banditi del far west con le pistole di plastica. 
Il film emana dilettantismo da tutti i pori: recitazione scialba, musiche di sottofondo di Klaus Veri che appaiono dal nulla e spariscono nel nulla, un montaggio senza soluzione di continuità che compromette irreparabilmente lo scorrere della narrazione. I due autori realizzano infatti un omaggio approssimativo all’estetica western, curandosi poco dell’etica; i costumi, le unghie sporche e i denti marci dei banditi, il rumore artificioso degli spari, le sconfinate vallate abruzzesi in cui è girato il film (più a east che a west)creano una certa atmosfera, che però non riesce a fare i conti con la vera storia del western (spaghetti, dirty o crepuscolare che sia) e ne rimane solo una riproduzione meramente scimmiottata. Il prodotto finale somiglia piuttosto a uno di quegli sketch della Premiata Ditta, che non fanno ridere nessuno, ambientati nelle diverse epoche storiche (ce ne sarà stato sicuramente uno ambientato nel vecchio west!). 
Il tentativo è quello di una metafora universale del senso di vuoto morale generalizzato che caratterizza la società contemporanea, corrotta fino al midollo, ma il parallelismo risulta debole e a tratti qualunquista. 
Il film purtroppo è carente sia della lucida credibilità di un “prodotto serio e vendibile”, sia del consapevole e goliardico disimpegno di un b-movie. 
Quello che ne esce fuori è un lavoro trascurato e trascurabile, sia nella forma (riciclo approssimativo degli stereotipi di genere) che si decide di dare alla materia in questione, sia nella stessa materia a cui si decide di dare una forma.  
 
Angelo Santini

Bong Joon – ho: il suono di un regista totale.

Lunedì 09 Giugno 2014 11:46 Pubblicato in News
Un focus dedicato all'artefice di una delle variazioni più interessanti nella cinematografia asiatica degli ultimi anni: Bong Joon-ho. Un registro moderno, contemporaneamente lirico e disincantato, che merita di essere approfondito.
 
 
Ancora pochi film alle spalle per poter essere avvicinato ai prolifici mostri sacri del cinema orientale, ma basterebbero i due minuti iniziali di "Memories Of Murder" per spiegarne il motivo per cui Bong Joon-ho è già uno dei registi più talentuosi del panorama mondiale. Un investigatore, alle prese con il rinvenimento di un cadavere, diventa l'oggetto dello scimmiottare di un bambino irriverente che ne imita i gesti e ripete le parole.  Una commistione che sfocia nel grottesco senza snaturare la plausibilità della situazione descritta, e questa è solo una delle tante cifre esemplari di un registro profondamente innovativo. La credibilità e il realismo restano il collante dell'intreccio narrativo anche quando, appunto, sfociano nella comicità e il nonsense tipicamente orientale, congelandoli con leggerezza all'interno della funzionalità della storia e diventandone fattore fondamentale. D'altronde, se così si mescolano generi e sottogeneri, allo stesso modo le atmosfere e i punti di vista dei film di Bong variano improvvisamente, come l'umore e le situazioni della vita quotidiana, in un continuo in cui è ben chiara la morale espressa da Kurosawa in Rashomon. Seguendo lo stesso metro si possono interpretare i personaggi della triste realtà popolare abbandonata a se stessa, che affollano la periferia e le campagne di piccole realtà urbane. Sono gli antieroi senza veri centri di gravità, problematici ed emarginati, succubi di un'ingenuità e un'immaturità ancora infantile. In questo quadro è concepibile tutto un arcobaleno di sensazioni contrastanti, che coinvolgono la morale comune fino a distorcerla in situazioni in cui drammaticità, commozione ma anche ironia e umorismo risultano amplificati. 
 
 
I caratteri narrati sono figli dell'incapacità sistemica di un apparato statale farraginoso, dagli accenti comici e talvolta kafkiani, che lascia al proprio destino questi pariah della società sudcoreana fatalmente coinvolti in eventi macabri e misteriosi: un omicidio occasionale, un killer seriale, un famelico anfibio frutto di mutazioni genetiche. La violenza è sempre un fatto enorme nelle realtà sonnacchiose della Corea del Sud, dove tutti o quasi sono rassegnati alla consapevolezza di una vita sprecata, ma anche questo fardello di fronte al pericolo diventa un valore da difendere. Eppure è solo quando certi fatti non riescono a passare sotto silenzio che assumono un'importanza spaventosa, trasformandosi nel megafono della propaganda statale. L'informazione cavalca le notizie, la polizia le deforma, la magistratura cerca di gettare acqua sulla graticola dove s'adagia quella che ormai è solo lo specchio di una verità mistificata a priori, anche dallo stesso mezzo narrativo che confonde e irretisce lo spettatore come un incantatore di serpenti. Bong scherza con il potere logoro e inefficiente delle sezioni provinciali, che con movenze pachidermiche brancolano impotenti nell'oscurità degli eventi, e parallelamente mostra la miseria di una società proiettata verso la globalizzazione ad occhi bendati. 
 
Sul piano tecnico, la stessa regia sembra risentire della confusione in cui fluttuano tutti, dell'incertezza frenetica di trovare una risposta, per poi ritornare a farsi riflessiva in improvvisi momenti di bonaccia, dove l'ironia si mescola al dolore e alla dolcezza. Ma al realismo grottesco, Bong preferisce non associare anche il realismo tecnico, come ad esempio la cinematografia nordeuropea di 20 anni fa ( Dogma 95 ), e non rinuncia in maniera anacronistica ai vantaggi dell'era digitale. Il suo stile di montaggio e di ripresa sono assimilabili a quello occidentale, e anche per questo l'uso della camera a mano non è una costante ma assume una funzionalità specifica all'interno di ogni pellicola, distaccandosi dalla tecnica di altri grandi registi coreani. L'alternarsi di emozionanti primi piani,

scene fisse perfettamente calibrate e piani sequenza dal virtuosismo eccezionale e mai invadente, riesce a dare la sensazione di girar
e intorno ad una storia, di poter ridere o piangere, inorridire o stupirsi restando immersi in una lunghissima apnea. Ma questa cornice cesellata con la noncuranza studiata di un pittogramma tibetano è solo il mezzo con cui affrontare una storia mai banale, in cui tutti gli attori, anche i minori, gareggiano nel riscrivere in maniera alternativa quelli che sono dei ruoli essenzialmente classici. Basti citare prove interpretative come quelle di Kim Hye-ja in "Mother", di Bar Doo-na in "Barking Dogs Never Bite", o di Kang-ho Song in "The Host" e "Memories Of Murder", ormai diventato l'attore feticcio del regista, tanto da accompagnarlo anche nell'unico passo falso della sua cinematografia, il recentissimo Snowpiercer, che abbiamo già recensito  su Fuoritraccia.
 
E non è casuale che il senso di perfezione tecnica e recitativa rimanga scolpito in memoria per giorni, anche perchè i meccanismi delle storie di Bong si rivelano ingranaggi sparsi di una bomba ad orologeria, che a volte esplode, a volte no, altre volte si trova il modo di dimenticarsene. 
 
Pollo Scatenato

Le formiche della citta' morta

Mercoledì 28 Maggio 2014 23:24 Pubblicato in Recensioni
Una realtà conosciuta, ma di cui non se ne parla più abbastanza. Il neo-regista Simone Bartolini, nella sua opera prima, ha voluto raccontare quegli habitat dimenticati di Roma, che sono al di sotto delle meraviglie di una città apparentemente perfetta, e che nasconde disagi e incoscienze giovanili ad oggi ancora frequenti. 
E' improntato come documentario e sfumato da una trama piuttosto prevedibile.
Il messaggio è chiaro. Lo smercio di droghe continua a spopolare nelle periferie della capitale, tra giovani e non solo. Che sia nei club o per la strada, basta individuare la persona giusta. Uno come tanti, è Simon Pietro, spacciatore con la passione per il rap, che ha il suo giro di amici suoi clienti, al quale la vita si presenta avversa. Allontanatosi dalla famiglia, cerca di sopravvivere a suo modo, e aggiungerei.. illegalmente. Perseguitato dalla gente che lo cerca per il solo scopo di comprare qualcosa, o perchè gli deve dei soldi. 
Viaggia con il suo scooter alla ricerca di favori, nuovi compratori o amici debitori. E' questa la giornata tipo di Simon Pietro, consumata in tutti gli 80 minuti. Ma più che con lo scooter, viaggia con la mente: si trasporta in situazioni surreali di piacere e appagamento personale, che vorrebbe ripercorrere parallelamente nel contesto attuale.. Ma, finita l'estasi, si ritrova sommerso dai problemi e dai guai irrisolti.
Il sogno è l'elemento latente nella vita di Simon Pietro. E' l'unica dimensione in cui sparisce la parte marcia della sua vita, riuscendo ad evadere da quella banda di tossici che lo circonda e di cui ne è il capostipite. Nei suoi sogni, Simon Pietro, è sempre al centro della scena, da rapper acclamato a fidanzato presente, fino a trovarsi in un triangolo amoroso inconscio.
Per lo meno ciò che rimane della coscienza di Simon Pietro, è il fatto di riuscire a non elemosinare dalla sua famiglia, o meglio da suo padre, mantenendo quella distanza, come una sorta di palliativo che conferisce rispetto al rapporto con i suoi cari.
 
Tutti gli attori, presi dalla strada, sono alla loro prima esperienza cinematografica, che spontanei, si immedesimano in riscontri di vita attuale e vissuta. Il protagonista si cala perfettamente nella figura da lui rappresentata: è bravissimo quando canta tanto quando spaccia. Simon P è rapper del Quarto Blocco nella vita reale, gruppo che contribuisce alla musica del film. Forte punto a favore sono di fatti le colonne sonore che mescolano hip-hop, rap duro dei Noyz Narcos, Chicoria e pezzi dei Tiromancino. Spesso questo tipo di musica viene associata allo stile di vita di strada, dei sobborghi abbandonati e al mondo della droga. I testi sono dei messaggi chiari e diretti, marcando il fatto che la tossicodipendenza, è nella società odierna, l'altra faccia della disoccupazione.
 
Alcune scene sono raccontate in maniera cruda. Inquadrature strette su braccia, vene e siringhe, meglio non mostrarle se non sono destinate a rimanere nella storia.
C'è un po' di carenza filmica nelle riprese, con percezione amatoriale. Come per i dialoghi, sono grezzi e comuni, tutti i personaggi ironizzano con battute romanesche, espresse in gergo giovane e di strada. 
Forse al cinema è più bello vedere qualcosa di nuovo piuttosto che ciò che si sa già o qualcosa che già si sa ma raccontato come nessuno mai lo racconterebbe.
 
Francesca Savoia

Mashrome FilmFest: una terza edizione con Peter Greenaway

Sabato 24 Maggio 2014 11:40 Pubblicato in News
 
Dal 3 al 6 Giugno 2014, a Roma presso il Teatro dell’Orologio con la serata conclusiva all'Auditorium dell’Ara Pacis, avrà luogo la terza edizione del Mashrome Film Fest (MRFF). La manifestazione internazionale, unica in Italia, interamente dedicata al mashup e, più in generale, al cinema sperimentale è fondata e diretta da Mariangela Matarozzo e Alessandra Lo Russo. Quattro giorni di full immersion in quel mondo del cinema e non solo che ha fatto del remix, oltre che della sperimentazione, il proprio punto di curiosità e di forza. Numerosi gli ospiti da tutto il mondo, primo fra tutti Peter Greenaway che sarà protagonista di un incontro il 6 giugno all’Auditorium dell’Ara Pacis. Il 6 giugno in programma anche la Cerimonia di Premiazione; ospiti i Pollock Project, un ensemble art-jazz fondato da Marco Testoni che ha fatto del mashup e del rapporto con l’audiovisuale la propria cifra stilistica. Fra i film in programma Le Grant (categoria music) di Luca Lucchesi prodotto dalla Wenders Music del celeberrimo regista tedesco Wim Wenders; e Isaac (categoria Feature) di Federico Tocchella con la fotografia di Daniele Ciprì.
 
 
 
Oltre 62 i Paesi che hanno partecipato alla selezione con oltre 1100 film inviati da tutto il Mondo, fra i quali ne sono stati selezionati 120 inseriti in concorso. Il premio per i vincitori sarà la Distribuzione dei film in collaborazione con Ownair. Fra le novità, la partecipazione per la prima volta dell’Africa con una webseries dal Kenya e la partecipazione, significativa anche se in piccoli numeri, dell’Australia. Sempre significativa la presenza dell’Europa che, in testa Germania, Penisola Iberica, Regno Unito, Paesi Bassi, Paesi Scandinavi e Francia, raggiunge oltre la metà dei film iscritti. E mentre l’Estremo Oriente è presente con oltre il 6% dei lavori, in particolare con la Corea del Sud, il Medio Oriente ha a sua volta una significativa presenza con oltre il 5% delle opere fra Turchia, Israele, Egitto, Iran e Iraq. Si attestano entrambe su oltre il 6% America Latina, con un’importante presenza del Brasile, e Stati Uniti.
In programma, oltre alla visione dei film: masterclass, incontri con i registi, installazioni e omaggi ad alcuni grandi.
 
Maggiori informazioni consultando il sito www.mashrome.org