Roma, 2011. In una giornata di metà agosto, nell’estate più calda degli ultimi 150 anni, una radio locale annuncia l’imminente chiusura dello storico mercato rionale di Via Orvieto. Così stabilisce l’ultima ordinanza comunale dell’assessore al commercio Quattordicine, che vuole sostituire il mercato con un parcheggio sotterraneo. I commercianti, terrorizzati dall’idea di perdere il lavoro, bussano alla porta di un altrettanto storico circolo del Partito Democratico per chiedere aiuto e indire un referendum abrogativo contro l’ordinanza. A separare il circolo dal mercato c’è solo il decennale cantiere della metropolitana, così come le promesse mancate continuano a separare la politica dalla gente comune. Manco a dirlo, infatti, gli attivisti democratici non riescono a cavare un ragno dal buco. I commerciati esasperati decidono allora di assediare la sezione. Tra gli ostaggi ci sono un gruppo di giovani democratici, un ex partigiano nostalgico e Diego, ex attivista disilluso che si ritrova a documentare l’occupazione con la sua telecamera. Mentre fuori entra in scena il circo mediatico dei giornalisti marchettari, rapitori e ostaggi insieme cercano goffamente di mandare avanti la rappresaglia.
Diego Bianchi, in arte e a lavoro “Zoro”, comincia la sua attività di blogger nel 2003, fondando il blog La Z di Zoro. Nel 2007 inaugura la rubrica video Tolleranza Zoro; in cui interpreta un simpatizzante del Partito Democratico in perenne crisi d’identità e svolge resoconti politici attraverso alcune tappe simboliche, cariche di significati emotivi soprattutto per il centrosinistra. Dal 2008 lavora nello staff creativo di Serena Dandini, prima in Parla con me, poi in The show must go off, mentre nel 2013, si ritaglia la figura di conduttore televisivo in un programma tutto suo, Gazebo, in cui alterna la diretta in studio alle sue tipiche video inchieste. Debutta dietro la macchina da presa con Arance e martello, presentato alla Settimana della Critica durante la 71ª Mostra d’arte cinematografica di Venezia.
Il talento dimostrato da Bianchi nella sua rubrica (prima per il web poi per la televisione) è sempre stato nel suo video-occhio, in grado di saper cogliere il qui e ora nel magma brulicante della politica italiana, con poche semplici inquadrature “sporche” della sua handycam e un montaggio associativo capace di dinamizzare la visione dell’utente.
Dal momento in cui il qui e ora viene meno nella rappresentazione cinematografica, in favore di una costruzione a tavolino della mise en scène, quel video-occhio perde la genuinità dimostrata più volte in televisione e sul web. Ennesima prova dell’inconciliabilità fra il linguaggio cinematografico e quello dell’inchiesta televisiva, poiché anche quando si intende raccontare la realtà in un film a soggetto, si deve necessariamente fare i conti con i codici di una messa in scena artificiosa. Bianchi regista, infatti, si trova il più delle volte spaesato e non sa letteralmente dove piazzare la macchina da presa. L’alternarsi al montaggio tra la messa in scena canonica e le riprese brute della telecamera del protagonista sono un modo per confermare il proprio format e la speranza di conferire un ritmo alla piattezza della costruzione.
Eppure non ci troviamo di fronte al tipico caso in cui la figura del personaggio televisivo di successo viene esportata sul grande schermo da un mecenate senza scrupoli nel nome del vile denaro. Anche se il film conserva alcuni tratti caratteristici di Gazebo sarebbe sbagliato paragonarlo necessariamente a operazioni aberranti come quella dei Soliti Idioti (per dirne una). Tutt’altro, Zoro disegna con affetto e sincerità quel mondo popolare e le macchiette che ne fanno parte. Inoltre, detiene un controllo quasi totale sulla realizzazione del film; scrive, dirige, interpreta e collabora al montaggio insieme ad Alessandro Pantano. Forse è proprio questo il problema; per un debuttante senza particolare formazione e coscienza cinematografica, sostenere da solo un tal numero di competenze non può portare ad altro che a un’opera acerba. Su questo punto Bianchi mette le mani avanti nel monologo a favore camera in cui tenta di esorcizzare preventivamente ogni accusa di narcisismo. Non resta altro da fare quindi che aggrapparsi a modelli di culto già belli che rodati, come si può notare dai continui omaggi a Spike Lee, in particolare a Fa la cosa giusta, proiettato anche durante l’occupazione.
A fare le spese di questa inadeguatezza formale sono proprio i personaggi stessi; nostalgici, progressisti, ipocriti, qualunquisti, veltroniani, laziali, romanisti, tutti parte di un microcosmo in cui sono ammassate le diverse “correnti” degli ultimi vent’anni di storia italiana. Dal reduce democristiano (Andrea Salerno) che vota a favore della chiusura del mercato (perché “cosa c’è di più moderato, cattolico e riformista di un bel parcheggio sotterraneo”) all’ex partigiano nostalgico di una lotta che non esiste più, dall’indiano venditore di aglio al Sindaco ex picchiatore (Giorgio Tirabassi), che mostra ottuso riguardo per le marachelle dei fascisti del terzo millennio (ogni riferimento a Gianni Alemanno non è puramente casuale), dal comunista represso all’ambientalista in fissa per il macrobiotico.
La convivenza di realtà così frammentarie non può che finire in caciara; la sezione viene distrutta dall’irruzione delle guardie, insieme alle reliquie delle incontrastabili icone di sinistra (da Guevara a D’Alema, passando per Togliatti, Berlinguer e Occhetto). Uccidi i tuoi padri prima che loro uccidano te, diceva qualcuno.
L’ennesima analisi della sconfitta da parte della sinistra italiana, che nell’ultimo ventennio ha perso di vista la salvaguardia delle classi subalterne, innalzandosi su un piedistallo di narcisismo etico, in favore di lotte utopiche per salvare il mondo dal male del berlusconismo. Ma come può la sinistra salvare il mondo dall’ignoranza generata dal berlusconismo se non intende prima di tutto confrontarsi con essa? È questo il paradosso che Bianchi vuole mettere in luce con il suo film, quello di una sinistra che vuole salvare il mondo ma che non riesce nemmeno a pisciare senza bagnarsi i pantaloni, ed è anche lo stimolo che lo ha spinto nella sue precedenti video inchieste, (auto)ironici ritratti di una politica estraniata nell’Olimpo dei buoni propositi.
Con estremo rammarico dello spettatore però, il film non risulta qualitativamente all’altezza di Gazebo, uno dei pochi fari nel desolante panorama della televisione generalista.
Nonostante questo, si ride molto, grazie all’assortita galleria di personaggi e alle loro vere e proprie perle nazionalpopolari.
Angelo Santini