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U-July 22

Mercoledì 21 Febbraio 2018 12:42 Pubblicato in Recensioni
Sinceramente non ci si aspettava una tale cannonata, in tutti i sensi, dal film di Erik Poppe. Pugno allo stomaco alle 9 del mattino, che risveglia senza tanti fronzoli la paura del terrore, che troppo volte pensiamo possa riguardare solo gli altri, dando per scontato che il nostro universo sia protetto da chissà quale entità superiore. Utøya –July 22 ci impone di non sottovalutare. L’inferno è più vero di qualsiasi idealizzato paradiso. Il regista norvegese che portò nel 2017, nella sezione Panorama qui alla Berlinale, lo storico The King’s Choice, quest’anno vede il suo U- July 22 concorrere per l’Orso d’Oro. Una pellicola a dir poco micidiale, che racconta del massacro di Utøya in Norvegia il 22 Luglio 2011; lo stesso giorno della bomba alla sede del Governo norvegese. Kaja (Andrea Berntzen), diciannovenne in vacanza con amici, è il boccino di tutta la vicenda, che cerca la via d’uscita in un labirinto colmo di orrore e ansia.
 
Per essere più precisi i fatti si svolgono su un’isola davanti ad Oslo. Il campeggio estivo è molto in uso nei paesi nordici e sull’isola di Utøya si trova l’accampamento organizzato dal partito laburista. E’ mattina e l’intero gruppo di adolescenti si sta preparando per una giornata all’insegna di escursioni e svago. Il risveglio non è dei migliori, visto che si apprende subito delle bombe scoppiate presso il Governo. Dopo le telefonate di rito a genitori e parenti la calma si fa strada tra i giovani, che si sentono protetti visto anche il mare che li separa dalla capitale. Ma degli spari, che provengono dal bosco, interrompono la ritrovata quiete. In un primo momento si pensa ad una esercitazione. Il panico arriva a dosi massicce quando si capisce che siamo in presenza di uno squilibrato con fucile, che sta uccidendo senza pietà chi gli capita davanti. Kaja è la protagonista che cerca di mettere in salvo la sorella minore, ma soprattutto è l’occhio del regista, che tramite la ragazzina ci fa rivivere le angoscianti situazioni, che vive l’intera giovane comunità. 
 
Poppe parla diretto allo spettatore, lo porta dentro al massacro, in piena zona di guerra. Con la potenza verista delle immagini e grazie al piano sequenza in tempo reale, che dura esattamente quanto l’intera operazione del folle terrorista, rende vividi gli stati d’animo dei ragazzi. E’ estremamente consapevole del suo girato e lo dimostra non lasciando nulla al caso. Il suo è un virtuosismo bello e buono, ma non fine a se stesso. La paura, la disperazione e l’oppressione rivivono senza filtri e lo stress che invade il pubblico diventa parte stessa della narrazione. Si perché si entra in quei maledetti boschi e la discesa all’inferno è purtroppo senza ritorno.
U -July 22 ricorda Elephant di Gus Van Sant, Palma d’Oro 2003 al Festival di Cannes. Lì però i punti di vista erano diversi. Gli avvenimenti narrati erano visti non da una sola persona, ma da più protagonisti. Ma il senso di impotenza è il medesimo.
 
C’è anche un altro aspetto che ha farà molto discutere: la dura frecciata verso chi comandava all’epoca dei tragici eventi. La pellicola di Poppe è assolutamente un’aspra critica verso le istituzioni, non preparate e smarrite. Ci volle un’ora e mezza per intravedere i primi soccorsi. Questo non trascurabile sotto testo etichetta U-July 22 come film politico. Biglietto da visita forse non troppo gradito in previsione dei premi, ma se ci concentriamo unicamente sul valore assoluto del film, della politica non c’è più traccia. Indimenticabile.
 
David Siena

Eva

Domenica 25 Febbraio 2018 12:36 Pubblicato in Recensioni
Ci ha preso gusto Isabelle Huppert a scegliere ruoli da femme fatale. L’ultimo, per intenderci quello in Elle di Paul Verhoeven, gli aveva procurato una meritata candidatura agli Oscar 2017. Allora perché non riprovarci. Il progetto di Benoît Jacquot però, senza minimizzare le doti di seduttrice dell’attrice francese, meritava un’ammaliatrice (Eva che dà il titolo al film) più junior e più improntata a trasudare carnalità. E’ probabile che fin già dal casting, anche il Bertrand Valade di Gaspard Ulliel (E’ solo la fine del mondo – 2016) è troppo imbambolato e sinceramente fuori parte, il film si porti dietro dei deficit non recuperabili. E se il buongiorno si vede dal mattino, qui siamo di fronte ad un far del giorno dai tratti chiaramente temporaleschi. Burrasca nella quale si trova per tangibili colpe il regista/sceneggiatore Benoît Jacquot (dell’autore si ricorda il recente e non esaltante Tre Cuori, in concorso a Venezia 2014). La sua Eva richiedeva una drammaturgia spinta verso l’ambiguità, con subdoli slanci verso l’immoralità. Questo è alla base del romanzo di James Hadley Chase del 1945. In Eva troviamo solo i tratti distintivi del noir (e neanche troppo riusciti). Le linee guida all’interno della narrazione sono sbilanciate, ahimè, verso aspetti psicologici spicci, che non offrono veri punti di riferimento. Basandosi su queste personalità (per intenderci quelle dei due protagonisti sopra citati), alle quali viene affibbiata solo debolezza e nessuna particolare dote narrativa, non si riesce mai a chiudere un cerchio. Tutto abbozzato e mai veramente concretizzato. La fascinazione non sale mai e qui dovrebbe essere la madre di tutto. 
 
Eva è in concorso alla Berlinale edizione 68. Il film aveva avuto una prima trasposizione nel lontano 1962 diretta da Joseph Losey, con la nostra splendida Virna Lisi. Il ruolo di Eva fu affidato a Jeanne Moreau e quello del malcapitato Bertrand Valade a Stanley Baker. Il film di Losey ottenne una critica positiva; la versione 2018, come già accennato sopra, risulta la brutta copia della pellicola del 1962. La bocciatura non è completamente categorica solo perché la storia riesce a trasmettere curiosità nello spettatore. Peccato perché il regista fa di tutto per far perdere questo appeal.
 
Le intriganti vicende scaturite in immagini vedono un aitante giovanotto, che di nome fa Bertrand, alle prese con il sogno di una vita: diventare un famoso scrittore, in modo da potersi garantire un futuro prosperoso e di successo. L’occasione rende l’uomo ladro e quando Bertrand si trova tra le mani un inedito manoscritto di uno stimato romanziere morto davanti a suoi occhi per cause naturali, non esita a farlo diventare suo. La fama e la gloria arrivano copiose. Ora deve mantenere questo livello qualitativo di scrittura e non sa proprio come farlo. Improvvisamente entra nella sua vita Eva, Escort d’alta società. Il giovane ne rimane stregato e decide di conquistarla ad ogni costo. Userà questa sua torbida liaison come base del suo prossimo romanzo. Ma non ha fatto i conti con Eva, per nulla propensa a concedersi senza riserve. Bertrand entra così in un vortice di tentazione e bramosia, che mette a rischio il suo fidanzamento con l’innocente e pura Caroline (Julia Roy). Il suo editore aspetta con ansia il nuovo libro, da tutti preannunciato come l’ennesimo capolavoro. Malauguratamente l’immaturo Bertrand diventa lui succube del gioco di Eva. Cede così tutto se stesso ed entra, senza ritorno, in un artificio oscuro fitto di falsità ed inganni.
 
La storia è stuzzicante, ma qui proprio non ci siamo. Il film del regista francese a tratti sembra un telenovela impazzita. Protagonisti troppo finti, che non sembrano esseri appartenenti alla società descritta. Confinati in un limbo tragicomico, che non ha ragione di essere per un film del genere. 
 
David Siena
 

Black 47

Sabato 24 Febbraio 2018 12:29 Pubblicato in Recensioni
Black 47 racconta, senza tanti fronzoli, della “Grande fame” che attanagliò l’Irlanda a metà del diciannovesimo secolo. La terra del trifoglio è stata sfruttata nei secoli soprattutto dalla tirannia britannica, che nel 1847 (anno che dà il titolo al film), contribuii con brutale vigore a rendere quell’anno uno tra i più neri della storia irlandese. Le vicende della pellicola diretta da Lance Daly sono focalizzate sull’inverno, il periodo più rigido, dove la drammaticità degli eventi tocca il suo apice. Stagione in cui fa il suo ritorno a Connemare il soldato Michael Feeney (James Frecheville). Il reduce, che si è fatto valere in difesa dell’esercito inglese, non vede l’ora di riabbracciare la sua famiglia. Ma a casa lo aspetta una brutta sorpresa. I suoi cari, la madre ed il fratello, sono periti in situazioni misere. E anche la moglie Ellie (Sarah Greene) ed i figli sono in condizioni disperate. Di lì a poco non avranno più un tetto sotto il quale proteggersi, in quanto cacciati dalla proprio baracca, moriranno assiderati senza alcuna pietà. Ora il sogno di Fenney, portare la sua famiglia in America alla ricerca di benessere, si infrange contro la Union Jack, che ha difeso con onore. In questo clima rabbioso, dove non solo la sua famiglia è scomparsa, ma anche tutto il suo popolo arranca gravemente (morirono un milione di irlandesi), Fenney impugna una violenta vendetta senza esclusione di colpi contro gli usurpatori inglesi. Ne nasce un revenge movie in salsa western, con luci ed ombre, che ha il pregio di sviscerare una storia mai raccontata. Black 47 è anche un viaggio nella coscienza di Hannah (Hugo Weaving), mutevole carnefice che riflette sull’importanza di chiamarsi uomo in difesa del giusto, nel suo significato più profondo.
 
Irlandese fino al midollo (in parte in lingua gaelica), il film del regista Lance Daly, presentato fuori concorso al Festival di Berlino 2018, ha nel suo DNA il coraggio di Braveheart e la sete di punizione del Giustiziere della notte. A parte la storia inedita, il resto è già tutto visto. Rimane comunque un discreto lavoro, che alterna fasi da film televisivo a momenti più dinamici (seconda parte) e indiscutibilmente più riusciti. Qui la regia esce dal proprio imbambolamento e regala una drammaticità più vera e genuina. Scene contraddistinte dalla ribellione, ritmate e dalla forte intensità che scuotono e ravvivano l’appeal verso il film, indirizzando così la drammaturgia in acque ad essa più famigliari. Anche il finale aperto, con una più ampia visione sulle intenzioni, riesce a conferire alla pellicola un inaspettato valore aggiunto. Peccato che in precedenza l’autore cada nella trappola manierista di mettere in vetrina la morte di Ellie con il figlioletto in braccio come se fosse la marmorea Pietà di Michelangelo. Sentiero virtuoso troppo fine a se stesso. 
 
Da segnalare un’ottima fotografia che esalta gli splendidi paesaggi irlandesi. Le luce desaturata si accomoda perfettamente anche al senso di povertà, che impera in tutto il film. Anche il casting è azzeccato. Il volto assente di James Frecheville e il suo ferreo mutismo conferiscono a Fenney l’appropriato grado di drammaticità. Rabbia e amarezza non potevano trovare miglior modo di esprimersi. Anche la trasformazione e la consapevolezza del cattivo Hannah, intensamente incarnate da Hugo Weaving, fanno fare un saltino di qualità al film.
Comparsate che lasciano un’impronta deboluccia sono quelle di due stimati attori come: Jim Broadbent e Stephen Rea.
 
In Black 47 la strada della giustizia era un sentiero sconnesso ed oscuro, l’unica via d’uscita si chiamava America.  
 
David Siena

3 Days in Quiberon

Domenica 25 Febbraio 2018 12:21 Pubblicato in Recensioni
Francia, Bretagna, 1981 ed esattamente Quiberon. Un nostalgico bianco e nero ci introduce nel film scritto e diretto dalla regista tedesca Emily Atef, che porta sullo schermo l’ultima amara intervista all’attrice Romy Schneider. In concorso alla Berlinale edizione 68, 3 days in Quiberon è un riflettore puntato sull’iconica principessa Sissi, vista attraverso lo sguardo di amici e di un giornalista detrattore. La bicromia usata mette in risalto i chiari scuri della donna, riagganciandosi fedelmente al reportage fotografico scattato in una spa durante la sua disintossicazione dall’alcol. Il book di foto fu realizzato da Robert Lebeck (Charly Hübner) e l’intervista “manipolata” fu opera del giornalista Stern Michael Jürgs (Robert Gwisdek). Nella lussuosa struttura era presente anche l’amica di sempre Hilde Fritsch (Birgit Minichmayr); una via di fuga per Romy, che con lei al suo fianco riuscì a limitare le sincere risposte, che invece si aspettava l’agguerrito reporter. In questi 3 giorni l’attrice ritrovò un po’ se stessa, ma i demoni che l’affliggevano la portarono, di lì a poco, verso una deriva di autodistruzione senza ritorno. Romy perse la vita un anno dopo gli avvenimenti descritti in questo film, nel Maggio del 1982, all’età di 44 anni. Tra le sue opere più memorabili, oltre ad essere la principessa per antonomasia, ricordiamo: L’enfer (1964), L’importante è amare (1975) e la Morte in diretta (1980).
 
Emily Atef confeziona un vero omaggio a Romy Schneider. La sua è un’opera delicata. Un ritratto intimo, lontano dai riflettori. Non si limita a mettere in scena lo sfavillio dell’attrice, ma evidenzia anche il tormento, la depressione e l’ansia che la affliggono. Lo fa con eleganza e garbo. Con la stessa sensibilità che contraddistingue la donna Schneider. Egregia la performance di Marie Baumer (Il falsario - Operazione Bernhard), che dà voce e corpo alla splendida Romy. La sua è un’interpretazione intensa ed allo stesso tempo raffinata.
 
Lo sguardo della regista gira intorno al carisma e allo splendore della protagonista. Ne mette in risalto il fascino in contrapposizione con il male che la sconfigge internamente. Tutte le inquadrature hanno un significato ben definito e non lasciano nulla al caso. Immortalate nella splendido contrasto tra i due colori del bene e del male.
Non ci sono particolari novità stilistiche. E anche se i cliché sono presenti nella narrazione, tanto quanto la grazia infinita dell’attrice austriaca, il film non perde mai mordente. La sua schietta linearità non è un difetto, ma anzi, è la maniera migliore per entrare nelle pieghe di un racconto breve ma intenso, che punta alla sincerità, tralasciando giustamente orpelli visionari e prese di posizione. Descrizione spietata di un dolore finito in tragedia di lì a poco, dove la bella muore per mano della bestia (interiore). Ingiustamente. Il ricordo è franco e leale. La regista restituisce ai noi osservatori una donna reale con un mezzo di finzione, dove quest’ultima falsità si spera possa non finire mai. L’immortalità della bellezza è descritta con amabilità e morbidezza.
 
David Siena