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Ash is purest white

Sabato 19 Maggio 2018 16:06 Pubblicato in Recensioni
Gloria e potere sognano Qiao (Zhao Tao) e Bin (Liao Fan), giovane coppia di malavitosi, costantemente devoti alla triade. Il teatro delle loro imprese è Datong, città dello Shanxi. Siamo ad inizio nuovo millennio ed esattamente nel 2001. Pazzamente innamorati l’uno dell’altra, Qiao e Bin non mancano di dimostrare ai rivali la loro forza, ma una sera vengono avvicinati ed attaccati senza pietà da chi gli vuole sottrarre la leadership. Bin si difende con caparbietà, ma subisce colpi tremendi. Qiao è costretta ad estrarre una pistola e sparare verso il cielo per far terminare il massacro. E’ il momento nel quale tutto si spezza irrimediabilmente. La ragazza viene portata in carcere dove sconterà una pena di 5 anni. Una volta uscita, Qiao prende la strada di Fengjie, alla ricerca del suo grande amore. Ma ora Bin non è più il boss di un tempo, anzi è avvilito e il suo sguardo al futuro è annebbiato e senza una vera prospettiva. L’incontro non porta a nulla. Qiao non ha più presa su di lui e quella che sembrava una coppia indistruttibile deve arrendersi alla realtà. Ora dove è diretta quella giovane donna, che sognava di diventare una grande ballerina al fianco del suo leale gangster? Vaga sola con la sua anima ormai perduta, rintronata ed intontita. Le botte sembra averle prese lei e le cicatrici bruciano ad ogni suo passo. La ritroviamo dieci anni dopo, esattamente nel 2016, tornata a Datong e ora matrona e padrona di una casa da gioco. Inaspettatamente si fa vivo Bin, sempre meno uomo, costretto su una sedia a rotelle accetta le cure della sua vecchia fiamma, ma lo fa con disprezzo. 
 
Ash is purest white, in concorso al Festival di Cannes 2018, è scritto e diretto dal cinese Jia Zhang-ke (Leone d’Oro a Venezia 2006 con Still Life). Questo nuovo lavoro ricalca i suoi precedenti, a partire dalle zone geografiche dove è ambientato, tanto care all’autore. Lo Shanxi è la sua provincia natale. Non può mancare anche la sua compagna di sempre: l’attrice Zhao Tao, presente in quasi tutti i suoi film. Diviso in tre parti ben distinte come Al di là delle montagne, altra sua pellicola dal potente contenuto. Gioca in casa Jia, zona confort e modus operandi di sempre, che non gli impediscono di realizzare ancora una volta un gran film. Mette in scena il tradimento dell’amore, che si consuma in parallelo con il fallimento di quel futuro (globalizzazione) che prometteva solo felicità, ma che è solo disuguaglianza e decadenza morale. 
 
Jia Zhang-ke ci regala un film, che non manca di criticare le promesse fatte e non mantenute da quella terra promessa chiamata modernizzazione. E lo fa con un inteso melodramma. L’amore desiderato da tutti, che va ad impattare contro il muro di una realtà (tanto voluta da noi stessi), che di amorevole e complice non ha proprio nulla. Il futuro che viviamo giornalmente è violento e in perenne sofferenza. Esplicativo è il superbo piano sequenza dell’aggressione a Bin. Ash is purest white non è mai didascalico, è un film dolente e poetico. Nella sua universalità, non vediamo solo una Cina tradita, ma anche un po’ di noi stessi e il nostro sguardo abbassato su un piccolo schermo nero, in grado solo di portare alienazione. Il ritorno alla tradizione è impossibile e, usando un termine tecnologico, navighiamo senza sosta verso un mondo senza alternative. E’ questo lo sfogo del regista, e a parte una lunghezza eccessiva della pellicola, non gli si può dar torto. Non può mancare un altro suo segno di fabbrica, l’ufo che svolazza beato nei cieli e che rafforza l’incoerenza della realtà. Mondo irrazionale, che ormai non ha più la forza di tornare indietro. Felicità presente solo nei piccoli e insensati gesti. (Qiao che condivide una bottiglietta tra le sue e le mani di chi incontra per caso sul treno). Provare a credere in qualcosa, solo per il gusto di credere ancora (uomo che propone un bizzarro lavoro a Qiao in treno).
 
Tanta roba nel film di Jia Zhang-ke, che punta incessantemente il suo faro sulle discordanze del rinnovamento e sulla conseguente instabilità sociale, che innalza il divario tra ricco e povero. Sentita anche l’importanza del passare del tempo su quello che ci emozionava e che ora rimane solo un sordo sussurro. Ingente il supporto attoriale dei due protagonisti, che attraversano i primi 17 anni del nuovo millennio sprigionando magnificamente paure, orgoglio, determinazione e debolezze, con la loro superba performance. Mettono in scena l’esistenza che fa rima con sopravvivenza. La costruzione e la demolizione. 
 
David Siena
 

Ash is purest white

Sabato 19 Maggio 2018 16:06 Pubblicato in Recensioni
Gloria e potere sognano Qiao (Zhao Tao) e Bin (Liao Fan), giovane coppia di malavitosi, costantemente devoti alla triade. Il teatro delle loro imprese è Datong, città dello Shanxi. Siamo ad inizio nuovo millennio ed esattamente nel 2001. Pazzamente innamorati l’uno dell’altra, Qiao e Bin non mancano di dimostrare ai rivali la loro forza, ma una sera vengono avvicinati ed attaccati senza pietà da chi gli vuole sottrarre la leadership. Bin si difende con caparbietà, ma subisce colpi tremendi. Qiao è costretta ad estrarre una pistola e sparare verso il cielo per far terminare il massacro. E’ il momento nel quale tutto si spezza irrimediabilmente. La ragazza viene portata in carcere dove sconterà una pena di 5 anni. Una volta uscita, Qiao prende la strada di Fengjie, alla ricerca del suo grande amore. Ma ora Bin non è più il boss di un tempo, anzi è avvilito e il suo sguardo al futuro è annebbiato e senza una vera prospettiva. L’incontro non porta a nulla. Qiao non ha più presa su di lui e quella che sembrava una coppia indistruttibile deve arrendersi alla realtà. Ora dove è diretta quella giovane donna, che sognava di diventare una grande ballerina al fianco del suo leale gangster? Vaga sola con la sua anima ormai perduta, rintronata ed intontita. Le botte sembra averle prese lei e le cicatrici bruciano ad ogni suo passo. La ritroviamo dieci anni dopo, esattamente nel 2016, tornata a Datong e ora matrona e padrona di una casa da gioco. Inaspettatamente si fa vivo Bin, sempre meno uomo, costretto su una sedia a rotelle accetta le cure della sua vecchia fiamma, ma lo fa con disprezzo. 
 
Ash is purest white, in concorso al Festival di Cannes 2018, è scritto e diretto dal cinese Jia Zhang-ke (Leone d’Oro a Venezia 2006 con Still Life). Questo nuovo lavoro ricalca i suoi precedenti, a partire dalle zone geografiche dove è ambientato, tanto care all’autore. Lo Shanxi è la sua provincia natale. Non può mancare anche la sua compagna di sempre: l’attrice Zhao Tao, presente in quasi tutti i suoi film. Diviso in tre parti ben distinte come Al di là delle montagne, altra sua pellicola dal potente contenuto. Gioca in casa Jia, zona confort e modus operandi di sempre, che non gli impediscono di realizzare ancora una volta un gran film. Mette in scena il tradimento dell’amore, che si consuma in parallelo con il fallimento di quel futuro (globalizzazione) che prometteva solo felicità, ma che è solo disuguaglianza e decadenza morale. 
 
Jia Zhang-ke ci regala un film, che non manca di criticare le promesse fatte e non mantenute da quella terra promessa chiamata modernizzazione. E lo fa con un inteso melodramma. L’amore desiderato da tutti, che va ad impattare contro il muro di una realtà (tanto voluta da noi stessi), che di amorevole e complice non ha proprio nulla. Il futuro che viviamo giornalmente è violento e in perenne sofferenza. Esplicativo è il superbo piano sequenza dell’aggressione a Bin. Ash is purest white non è mai didascalico, è un film dolente e poetico. Nella sua universalità, non vediamo solo una Cina tradita, ma anche un po’ di noi stessi e il nostro sguardo abbassato su un piccolo schermo nero, in grado solo di portare alienazione. Il ritorno alla tradizione è impossibile e, usando un termine tecnologico, navighiamo senza sosta verso un mondo senza alternative. E’ questo lo sfogo del regista, e a parte una lunghezza eccessiva della pellicola, non gli si può dar torto. Non può mancare un altro suo segno di fabbrica, l’ufo che svolazza beato nei cieli e che rafforza l’incoerenza della realtà. Mondo irrazionale, che ormai non ha più la forza di tornare indietro. Felicità presente solo nei piccoli e insensati gesti. (Qiao che condivide una bottiglietta tra le sue e le mani di chi incontra per caso sul treno). Provare a credere in qualcosa, solo per il gusto di credere ancora (uomo che propone un bizzarro lavoro a Qiao in treno).
 
Tanta roba nel film di Jia Zhang-ke, che punta incessantemente il suo faro sulle discordanze del rinnovamento e sulla conseguente instabilità sociale, che innalza il divario tra ricco e povero. Sentita anche l’importanza del passare del tempo su quello che ci emozionava e che ora rimane solo un sordo sussurro. Ingente il supporto attoriale dei due protagonisti, che attraversano i primi 17 anni del nuovo millennio sprigionando magnificamente paure, orgoglio, determinazione e debolezze, con la loro superba performance. Mettono in scena l’esistenza che fa rima con sopravvivenza. La costruzione e la demolizione. 
 
David Siena
 

Plaire, aimer et courir vite

Venerdì 18 Maggio 2018 15:50 Pubblicato in Recensioni
Francia, 1990. Lo scrittore Jacques (Pierre Deladonchamps) è a Rennes per organizzare uno spettacolo teatrale. Amante delle arti non disdegna un buon film e decide di andare al cinema per svagarsi. Sceglie “Lezioni di Piano”, meraviglioso film di Jane Campion, e all’interno della sala non riesce a far a meno di notare un bel ragazzo, che di nome fa Arthur (Vincent Lacoste). La sua è una giovinezza non alterata dai dolori della vita e forse anche da questo è attratto Jacques. Arthur, appena vent’enne, è in Bretagna a studiare. Acerbo e con tanta voglia di vivere, e con palesi dubbi sulla sua sessualità, si avventura in una storia passionale con Jacques. Il drammaturgo però vive a Parigi, dove ha un figlio, ed una storia con un altro uomo. Liaison arrivata al capolinea, visto che quest’ultimo, sta morendo di Aids. Arthur e Jacques, travolti dall’amore, vivono un’ardente estate, sicuri del fatto che potrebbe essere una delle ultime. La loro storia è racchiusa nell’azzeccato titolo della pellicola: Piacere, amare e correre veloce, perché il tempo qui non viene studiato e controllato all’interno della finzione, come in un film di Christopher Nolan, ma è reale ed è poco e soprattutto scorre rapido come un fiume in piena.
 
Plaire, aimer et courir vite, in concorso a Cannes 2018, è scritto e diretto da Christophe Honoré. Regista perlopiù teatrale si è fatto notare nel 2007 con Les Chansons d'amour, sempre in concorso al Festival francese. Opera musicale ben orchestrata. E anche in questo suo ultimo lavoro (che oseremmo dire autobiografico) riesce a mettere un po’ di musicalità tra le pagine di una storia bruciata, che altrimenti sarebbe stucchevole e sinceramente vista troppe volte. Parte della critica internazionale lo ha paragonato al Gran Premio della Giuria dello scorso anno: 120 Battiti al minuto. Vero che anche lì il contesto era quello degli anni 90’ e del dilagare dell’HIV, ma il film di Robin Campillo era più politico e militante, è a dirla tutta più riuscito. Plaire, aimer et courir vite è un'operazione diversa, mesta ma diretta. I protagonisti, che ti aspetti vadano in una direzione, ne prendono una diversa e non per forza sbagliata, ma spiazzante. Evidente anche lo sminuzzamento delle narrazioni, dove però troviamo integra la connessione tra amore e morte, che diventa la colonna vertebrale dell’opera. La sua non ben delineata logica e linearità diventano così il valore aggiunto del film e di conseguenza la sua bellezza. 
 
Sorry Angel, è il titolo nella versione inglese, ha anche buoni cambi di registro. Qualche scena emerge per la sagace ironia all’interno del contesto greve. La regia quando va oltremodo in intimità stroppia e abbassa drasticamente il ritmo. Peccato soffermarsi eccessivamente perché i confronti tra i personaggi, che fanno emergere le fragilità o anche le forze, non hanno bisogno di un minutaggio così smisurato. Infatti la pellicola con i suoi 132 minuti eccede in lunghezza. Rimane tuttavia un film non retorico, che vede la piena autoconoscenza di se stabilirsi nei protagonisti dopo una vita difforme, ma per loro necessaria. 
 
Tra sali e scendi il risultato finale non è così male. Christophe Honoré crea un climax tutto suo, che riscopri rivedendo la pellicola nei tuoi pensieri, dopo qualche ora dalla visione. Il film ha una sua delicata eleganza. Nel suo dna è insito un istinto genuino, che riesce a mettere alla berlina i precetti conformisti di quegli anni, ma anche del nuovo secolo. Non si può non segnalare che in questo lungometraggio sono presenti numerose citazioni cinefile e musicali, figlie della passione del suo autore.
 
David Siena
 

7 uomini a mollo

Venerdì 18 Maggio 2018 15:39 Pubblicato in Recensioni
Bè, che dire? I francesi sanno fare le commedie. E questa ne è l’ennesima conferma. Scomodando, non ce ne vogliate, ma la somiglianza dei titoli e della presentazione ci impone di provarci, il meraviglioso Il Grande Freddo di Lawrence Kasdan, dove già nell’introduzione i protagonisti erano perfettamente identificati; anche qui si intuisce da subito chi abbiamo di fronte. Uomini di mezza età che non sono a loro agio nel mondo. Ma se nel film americano del 1983 si puntava sulla nostalgia, Le Grand Bain (Il Grande Bagno) è un crogiolo di divertimento, che ha il suo sguardo puntato sulla rinascita; film corale al maschile, che vede un gruppo di sfigati moderni alle prese con il nuoto sincronizzato.
 
Come in una barzelletta delle più classiche, ecco i protagonisti: Bertrand il depresso (Mathieu Amalric), Marcus il fallito (Benoît Poelvoorde), Simon lo scarso musicista (Jean-Hugues Anglade), Thierry il custode goffo (Philippe Katerine), Laurent il padre con problemi in famiglia (Guillaume Canet) e John l’infermiere apneista (Félix Moati). Questo gruppo mal assortito si trova abitualmente per gli allenamenti, fortemente voluti perché sono il momento nel quale si possono sviscerare le proprie problematiche. Il senso di comunità da sempre conforto e soprattutto è riparatore. Mano a mano che le sicurezze si ritrovano, guidati da due donne singolari: Delphine (Virginie Efira) e Amanda (Leïla Bekhti) coach disabile, severa e sotto certi versi violenta (nel senso più comico del termine), questi scappati di casa hanno l’ardire di partecipare ai Campionati del Mondo di nuoto sincronizzato. Una gara fuori dalla loro portata. Saranno in grado di non sfigurare o addirittura di andare sul podio? Tra di loro il pathos sale di giorno in giorno e affrontano la competizione già da vincenti. Ora il piede non è più nella fossa, ma camminano con orgoglio verso una nuova e ritrovata vita. 
 
Alla regia di Le Grand Bain troviamo Gilles Lellouche, fresco protagonista dell’esilarante C’est la vie (di Eric Toledano e Olivier Nakache, giusto per rimarcare il concetto iniziale di riuscite e spassose commedie francesi). Presentato fuori concorso al Festival di Cannes ed. 71, in Italia uscirà a ridosso di Natale (il 20 dicembre 2018) con il titolo riduttivo 7 uomini a mollo. 
 
Scritto magnificamente, lo spettatore vive momenti di grandioso divertimento, travolto da un ritmo pressante, che non va mai fuori giri. E’ qui la forza del film: la sincronia del nuoto funge da equilibratore di ogni cosa. Se lo è specificatamente di ogni essere umano, che ritrova se stesso, grazie al rigore, all’unione e alla disciplina, lo è anche per direzione artistica del film. Sempre quadrata e lontana da colpi di testa imperiosi. 
Anche quando la comicità diventa un po’ scorretta non cade mai nel volgare. Anzi la scorrettezza è un valore aggiunto. Humor che punta sul prendere in giro se stessi ed il proprio problema. Non equivoci, ma autogol sui quali puntare il dito e riderci sopra. Gag divertenti, dove la peculiarità di ogni attore è usata ad hoc per caratterizzare il proprio personaggio. Piccola pecca: un finale un po’ troppo ruffiano, ma gli si può perdonare, visto che l’intero percorso narrativo non è mai banale, ma arguto, brillante e genuino.
Se vogliamo trovarci altro in Le Grand Bain, per capirci dei sotto testi, può essere una riflessione sulla paura di invecchiare, contro il bieco strapotere dell’apparire (loro sono orgogliosi delle loro pancette) e con la sua esterofilia, una critica alla politica del paese. Insomma, la confezione è ottima. Una pellicola perfettamente immersa nei giorni nostri. 
 
Dei grandi film sullo sport ci piace accostarlo a Fuga per la Vittoria. E’ vero che Sylvester Stallone e Pelé fuggivano per la libertà e la vita (lontani dalla prigionia dei campi di concentramento), ma sotto sotto anche qui uno sport porta essere liberi. Si diventa eroi di se stessi e si ritorna, dopo una lunga prigionia mentale e sociale, a vivere. 
 
David Siena