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Co-produzione internazionale tra Stati Uniti, Italia e Arabia Saudita, Road to Urmi racconta le terribili vicende del massacro degli assiri perpetrato dall’esercito ottomano. Una poco conosciuta pagina di storia segnata dalla morte di oltre un milione di persone tra il 1914 e il 1916 e a proposito di cui il regista dichiara: “Quella che rievochiamo nel film è una storia vera dallo spaventoso impatto emotivo che troppo spesso il mondo sembra non ricordare. Una pagina buia che qualcuno, prima o poi, doveva affrontare sullo schermo, poiché le persone hanno dimenticato la tragedia del mio popolo assiro”.
In cerca di una cura per la malattia della pelle di suo figlio Emanuel, durante la Prima Guerra Mondiale Mary, partita dal villaggio montuoso di Hakkari, incontra nella città di Ninive Fatma, infermiera marocchina che la aiuta senza chiedere nulla in cambio. Mentre Mary, una volta tornata al villaggio, viene arrestata insieme ad Emanuel da un battaglione dell'esercito ottomano che li porta nella città di Diar Baker, Fatma si ritrova trasferita nello stesso posto, dove le donne vengono vaccinate contro la salmonella. Decide quindi di aiutarla a fuggire in un luogo sicuro, finendo però arrestata a sua volta. La mamma e il bambino, invece, nel corso della fuga incontrano un uomo pronto a difenderli e con il quale formano una famiglia.
Fanno parte del variegato cast Casper Van Dien (Alita – Angelo della battaglia), Natalie Burn (i mercenari 3), Rewan Elghaba (la serie tv The godfather), gli egiziani Hala Marzouk e Yassin Wael Nour, il marocchino Anas El Baz e gli Italiani Martina Marotta, Valerio Largo, Antonio Ciarallo e Gianluca Scuotto. Il Coach per gli attori di Hollywood é il regista italiano Alessandro Derviso, mentre casting è diretto dall'attrice Ira Noemi Fronten.
Road to Urmi è prodotto da FG Productions inc., Artemation Productions e la Bic Production di Daniele Gramiccia.Il cast tecnico include il direttore della fotografia Yohan Charin, l’autore della colonna sonora Erkan Erginci e, agli effetti speciali, il candidato al premio Oscar e due volte vincitore del David di Donatello Vittorio Sodano.
Felix Van Groeningen e Charlotte Vandermeersch, i registi dell’intenso Alabama Monroe, portano in sala Le otto montagne, con i nostri Alessandro Borghi e Luca Marinelli. Premio della giuria a Cannes 75, il film è tratto dal libro omonimo di Paolo Cognetti, premio Strega nel 2017. Ottima l’alchimia cinematografica tra i due attori italiani, che si immergono anima e corpo in un nuovo “Into the Wild”. Narrativamente incalzante, il film fa riflettere sul proprio essere e su quanti siano i nostri posti nel mondo: dal più piccolo e remoto posto italiano, agli innumerevoli luoghi meraviglie del pianeta.
La storia d’amicizia raccontata ne Le otto montagne è il fulcro indissolubile del film. Ce la racconta proprio Pietro (Marinelli), attraverso le parole dello stesso Cognetti, per tutta la durata della pellicola. Pietro è un ragazzino che vive in una grande città e passa sempre le vacanze estive in montagna con la famiglia. Il giovane pastore Bruno (Borghi) conosce invece solo la sua casa incastonata nelle montagne. I due si incontrano durante l’estate e tra di loro si crea un rapporto unico ed onesto. Legame che si perpetuerà nei molti anni a venire, fino all’età adulta. Anche se Pietro va e viene dalla montagna, gli incontri con Bruno sono fondamentali per la sua formazione. Entrambi assorbono ed imparano i dolci e i duri dettami della vita: l’amore, la sconfitta, la privazione e il lutto. Senza mai dimenticare le proprie origini, diventano l’uno complementare all’altro e quindi amici per sempre. Insieme imparano a fare molte cose e il tempo li aiuta a scoprire le bellezze e le difficoltà della montagna: i verdi prati e il loro profumo genuino per poi arrivare agli sconfinati boschi, che ci introducono alle prime salite e ai paesaggi vuoti. Qui la vegetazione è minima e secca. Una grande metafora della vita, che loro abbracciano insieme senza mai staccarsi veramente.
I due registi belgi hanno girato prevalentemente tra le vette della Val d’Aosta. Ed al contrario di quanto ci si poteva aspettare, hanno usato un formato cinematografico anomalo per rappresentare una storia ambientata per lo più in spazi sterminati e ampi. Non il classico 16:9, ma un 4:3 (quattro terzi). Registicamente parlando hanno voluto puntare l’attenzione sulle persone e sulla loro intima evoluzione, tagliando nel vero senso della parola gli spazi naturalistici. Spazi perennemente cercarti dai due personaggi in maniera oggettiva e soggettiva. E se queste ampie zone non le vediamo sullo schermo è perché i protagonisti le hanno trovate dentro di loro e ne fanno tesoro, sia che queste siano fra alte vette o in qualche zona sperduta dell’Asia, l’importante è che tra amici vengano rispettati i reciproci spazi. La vita di tutti i giorni viene lasciata appositamente fuori campo e ci si concentra sulle visite di Pietro a Bruno: meeting brevi, ma carichi di vita e suggestioni. Una vita per Bruno sempre vissuta nella propria zona comfort, il contrario per Pietro, che osa. Lontananze che possono dividere, ma che qui avvicinano più che mai. Si culmina con l’apoteosi di un inverno tra le nevi vissuto finalmente insieme. I registi hanno la maestria di raccontare con un linguaggio filmico intenso e con uno sguardo raffinato e autentico una vicenda incentrata sullo scorrere del tempo. Tempo che quasi si ferma per il montanaro Bruno, che non lascia mai la propria montagna. Tempo che scorre velocissimo per Pietro che viaggia e vive il mondo.
Le otto montagne ha un focus al maschile, che dà comunque una grande importanza all’universo femminile. Consigliato a tutti, ma soprattutto a chi ama le storie tormentate, vivide e toccanti. Unica vera pecca sono le 2h30 di girato: si poteva ridurre di qualcosa, ma lascia comunque, dopo la visione, un retrogusto piacevole e gratificante.
David Siena
Alberto De Venezia presenta Volti coperti – Storia di un ultras, disponibile su Prime Video a partire dal 27 Dicembre 2022.
Distribuito da Ipnotica Film, Volti coperti – Storia di un ultras è il nuovo lungometraggio diretto da Stefano Calvagna, regista di Non escludo il ritorno e Il lupo.
Un docufilm che racconta la vera storia di Fabrizio Toffolo, uno dei protagonisti della tifoseria laziale nel mondo ultras. Attraverso le proprie vicende, dalla prima volta allo stadio a diventare uno dei leader della Curva Nord della Lazio, Toffolo fornisce aneddoti di un nostalgico mondo che, a partire dagli anni Settanta, si è contraddistinto per il suo "credo calcistico". E lo fa affidandosi alla macchina da presa di Calvagna, con il quale ha condiviso diversi momenti negli anni Ottanta, sia in casa che in trasferta.
Il regista dichiara: “Frequentavo insieme a Fabrizio Toffolo la Curva Nord dagli anni Ottanta, siamo stati insieme nello stesso gruppo, Irriducibili; poi, per diverso tempo, non ci siamo più visti e ci siamo rincontrati, quando mi ha proposto di realizzare questo docufilm che già aveva provato a mettere in piedi con altre persone che, purtroppo, però, non hanno portato a compimento il lavoro. Si trattava di un’intervista all’interno di un teatro, mentre io ho tentato di portare avanti tramite la sua vicenda la mia idea di cinema, cercando di mettere in strada Fabrizio e ricorrendo anche a pianosequenze. Non c’era un copione, tutto è stato tirato fuori spontaneamente da Fabrizio e ciò credo che arrivi a tutti, anche a chi non ama il calcio. In realtà il film era stato terminato nel Maggio 2019, ma, tra pandemia dovuta al Covid-19 e tipici problemi generali relativi alla distribuzione di un’opera indipendente, siamo riusciti soltanto ora a renderlo visibile al pubblico”.
Impreziosiscono Volti coperti – Storia di un ultras un contributo vocale di Pino Insegno e immagini di repertorio del mondo Lazio cui ha collaborato il giornalista Michele Plastino; mentre l’attore Claudio Vanni, già più volte interprete per Calvagna, affianca come co-protagonista Fabrizio Toffolo, il quale osserva: “Ho voluto raccontare quel mondo ultras che mi rapì sin da bambino e di cui, poi, ho orgogliosamente incarnato i valori. Che possa piacere o no, è stata parte della mia vita, nel bene e nel male. Fanculo la quiete”.
Prodotto da Poker Film 2005 e da Ettore Terzo per Strikemonth, in collaborazione con Associazione Culturale Trevi, Volti coperti – Storia di un ultras vede Massimiliano Cuzzupoli alla fotografia, Roberto Salvatori al montaggio e Paolo Carnevali alla sonorizzazione e mix audio. Responsabile dei materiali di distribuzione è Andrea D’Emilio.
La diffusione del film su Prime Video anticipa delle uscite evento nelle sale cinematografiche previste a partire dalla metà di Gennaio 2023.
L’opera seconda del giovane regista Gianluca Mangiasciutti è un thriller ambientato nella provincia nordica di una Italia cupa, grigia, isolata. Eterea e allo stesso tempo profondamente concreta, con le sue fabbriche e i suoi tir.
La storia si spande su tre dimensioni temporali: la prima narra l’antefatto che sarà anche l’espediente narrativo per lo svolgimento del corpo della trama nella parte centrale, a cui farà seguito l’epilogo.
In un bosco di una imprecisata provincia nordica Irene, una bambina di otto anni, sta raccogliendo funghi con il papà che, improvvisamente, viene investito mortalmente da una macchina. La bambina accorre sulla scena ma il volto del guidatore è nascosto dal riflesso del finestrino alzato che le fa solo intravedere i lineamenti sbiaditi per pochi istanti, prima della fuga dell’omicida.
Questo evento traumatico porterà la bambina, poi diciottenne (Aurora Giovinazzo), a rendersi prigioniera di una vicenda da cui non riuscirà a scollarsi e che le comporterà l’alterazione del suo modo di relazionarsi con gli altri e con il resto della famiglia. Irene, invasa dal senso di colpa per non ricordare nettamente il volto di chi le aveva portato via il padre, non riesce ad esprimere le proprie emozioni senza trasformarle in sferzate rabbiose di manifestazioni emotive. Implacabili e verso tutto e tutti: in piscina, verso l’avversaria durante la gara di nuoto; in casa, verso la sorella minore, figlia del nuovo compagno della madre e verso la madre stessa che, a un certo punto, decide di mandarla via proponendole di trovare un lavoro. Irene si trasferisce allora a casa della zia, proprio nello stesso paese che, dieci anni prima, era stato lo scenario dell’incidente mortale di suo padre.
E il lavoro che trova è, per uno strano gioco del destino, come operaia nella fabbrica il cui proprietario è Michele, quello stesso pirata della strada il cui volto sfocato era rimasto incastonato nella testa della giovane protagonista che lo ricercherà per dieci anni in tutti gli uomini che si troverà di fronte, imprimendolo su un blocco da disegno e cercandone i lineamenti più definiti.
Michele (Lorenzo Richelmy) è il contraltare della rabbia cieca e adolescenziale della protagonista femminile. E’ invorticato in una vita che non avrebbe voluto ma che sceglie di condurre per scontare una pena che, scappando, aveva eluso. E’ consapevole di non essere più padrone della propria esistenza, accompagnata costantemente dal senso di colpa che si tramuta in possibilità di redenzione quando incontra Irene, che lui sa essere la figlia dell’uomo che, dieci anni prima, ha indebitamente ucciso a causa dell’incoscienza dei suoi 20 anni.
I due protagonisti sono abitati ognuno dal proprio senso di colpa che entrambi custodiscono come un oggetto da sublimare. Quando Michele inizierà a seguire, controllare Irene, come una figura protettiva che la possa salvare dallo stesso destino beffardo che lo aveva reso protagonista della sua condizione di orfana, la sua vera anima sopita comincerà a riemergere dalle acque profonde della sua identità fantoccio. Le stesse acque che per Irene rappresentano, con il nuoto, una immersione nella sua adolescenza turbata dal trauma. Michele incoraggerà infatti Irene a non abbandonare il nuoto, l’unica dimensione dove la ragazza riesce ad esprimere le proprie emozioni e dar loro sfogo senza una rabbia disfunzionale.
Il regista riesce a rendere credibile, grazie soprattutto all’interpretazione dei due bravi protagonisti, l’esegesi psicologica dei due personaggi, senza approfondirla più del necessario funzionalmente alla storia raccontata. La regia è asciutta e i colori delle scene grigi, freddi s’inoltrano tra le crepe delle loro anime tormentate. La misura c’è e salva la pellicola che finisce per risultare un thriller che scimmiotta lo stile dello stesso genere oltreoceano: nel linguaggio, nei personaggi, nella scrittura, in alcuni set. E dove l’imitazione prende il posto dell’omaggio, chi ne fa le spese è l’autenticità dell’opera che viene un po’ sacrificata per far posto a delle velleità non necessarie.
Valeria Volpini