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Vacanze ai Caraibi

Mercoledì 16 Dicembre 2015 11:19 Pubblicato in Recensioni
Il cinepanettone è come il cattivo dei film horror. Quando lo dai per morto e pensi che finalmente sia tutto finito, esce fuori dalla bara con un’ascia in mano per farti a pezzi. 
A quattro anni dall’ultimo capitolo del fortunato filone, Neri Parenti rimette insieme la vecchia banda in una commedia volgare e reazionaria. Tutto comincia a Roma, in un bar del quartiere Prati, dove si incontrano Parenti, Fausto Brizzi e Marco Martani, autori di decine di cinepanettoni (da Tifosi a Natale in crociera). Tutti e tre animati dall’esigenza impellente di tornare al cinepanettone duro e puro, quello con le ambientazioni esotiche in chroma key, le scorreggie e De Sica che dice «delicatissimo». 
In questi quattro anni il film di Natale targato Filmauro si è nascosto dietro la facciata pudica di una commedia dal respiro più ampio (Colpi di fulmine, Colpi di fortuna e l’imminente Natale col boss). Nel 2011, dopo Vacanze di Natale a Cortina, Aurelio De Laurentiis si era reso conto che i costi non avevano più i giusti ricavi e decise di cambiare registro. Ma a Parenti la «commedia sofisticata», come la chiama lui, andava stretta. Lui e De Sica ne girarono un paio, «anche perché – spiega Parenti - eravamo contrattualmente legati a Filmauro ancora per due anni», per poi tornare a fare quello che gli riesce meglio: le commedie con le scoreggie, perché si sa che le scoreggie fanno sempre ridere e in Vacanze ai Caraibi sono la ciliegina sulla torta. 
«Questo non è il Nothing Hill di Vigna Clara» avverte in conferenza stampa De Sica, proprio per prendere le distanze dalla piega soft dei nuovi film natalizi della Filmauro. La storia si articola in tre episodi. Mario (De Sica), un imprenditore in bancarotta, scopre che la giovane figlia intende sposare l’attempato Ottavio (Massimo Ghini). Inizialmente Mario e la moglie (Angela Finocchiaro) sono contrari, ma quando scoprono che è ricchissimo e che potrebbe risolvere i loro problemi finanziari cambiano idea, senza sapere che il futuro genero è in realtà uno squattrinato parassita. Parallelamente tra Fausto (Luca Argentero) e Claudia (Ilaria Spada) scoppia una passione irrefrenabile e animalesca, che li induce a mollare i rispettivi partner a bordo di una nave da crociera. La nave in questione è una Costa Crociere. Non è importante ai fini narrativi, ma per la dura legge del product placement il logo della compagnia di navigazione viene inquadrato ossessivamente. 
Infine, nell’episodio che è forse il meno brillante, un patito di tecnologia (Dario Bandiera) naufraga su un isola deserta senza cibo né wi-fi e si strugge in preghiere del tipo: «Aiutami o da quest’isola non me ne android». 
In questo prematuro revival, prodotto da Medusa e Wildside con il contributo della Regione Lazio, la formula torna più scollacciata che mai; la sceneggiatura autocitazionista pullula di gag che sembrano uscite da un generatore automatico di volgarità gratuite e già viste, sulle quali gli autori puntano tutto per ottenere la complicità del pubblico più nostalgico.
Secondo gli stessi autori, le mostruose maschere del cinepanettone hanno rappresentato per anni la volgarità degradante dei neoricchi rozzi e incolti sfornati dalla cultura berlusconiana, con il linguaggio scollacciato e sopra le righe della comunicazione dominante durante l’ultimo ventennio. Oggi, però, quel tessuto sociale sembra sempre più destinato a farsi da parte e lasciare il posto a un altrettanto mostruosa classe dominante, per cui, un po’ gattopardescamente, tutto va rottamato perché tutto rimanga uguale. Quei personaggi, tanto amati dal pubblico medio quanto stroncati dalla critica, oggi non possono suscitare altro che un misto di patetismo e tenerezza, come le gaffe di un Berlusconi al crepuscolo, che sbaglia comizio e si ritrova a sostenere il candidato di centrosinistra. 
Inoltre il cinepanettone non ha mai nascosto la sua natura di intrattenimento usa e getta, e quindi facilmente dimenticabile. Nei quattro anni di assenza anche il suo pubblico si è abituato ad altro, che sia la «commedia sofisticata» di cui parla Parenti – che poi di sofisticato, anche quella, ha ben poco -, o l’ascesa delle nuove star del piccolo schermo e del web. 
Per questo Vacanze ai Caraibi, oltre alle insopportabili discese abissali di uno stile vuoto e caduco, è anche un film estremamente reazionario. 
 
Angelo Santini

Heart of the Sea. Le origini di Moby Dick

Domenica 13 Dicembre 2015 13:48 Pubblicato in Recensioni
Ron Howard, come altri coraggiosi registi del passato, naviga nelle profonde e torbide acque dove alberga la balena bianca. Non tocca il romanzo di Herman Melville (1851) ma si affida al recente libro del 2000 di Nathaniel Philbrick, che racconta a suo modo le vicende della Hessex, la vera nave che secondo le cronache incontrò la fine dopo aver sfidato la natura. Owen Chase (Chris Hemsworth) è un baleniere di umili origini, amato dalla moglie e in attesa del primo figlio, il suo sogno è diventare capitano ma nonostante la bravura, sembra destinato ad essere sempre e solo il “primo ufficiale” di bordo. George Pollard (Benjamin Walker) Capitano lo è davvero, per nobili natali non per altri meriti, e la sua inettitudine, mette più volte a rischio l’avventura in cui si imbarca con il giovane Chase sull'Hessex. L’equipaggio è formato da uomini in cerca di redenzione e giovani orfani, uno di loro Tom Nickerson (Brendan Gleeson) in vecchiaia, sopravvissuto alla fine del viaggio, trova il coraggio, per soldi e spinto dalla moglie, di raccontare i veri accadimenti del suo passato all’emergente scrittore di passaggio Herman Melville (Ben Wishaw) in cerca di ispirazione per il suo nuovo romanzo Moby Dick. L’avventura viene esposta senza abbellimenti, mostrandosi una lunga traversata nel mare aperto, l’equipaggio è ansioso di udire il primo uomo urlare “Soffia” e di incontrare i giganti degli abissi che possono riempire la pancia della nave di olio e ricchi proventi. Le balene, che inizialmente sono carne da macello e soldi guadagnati con il sudore di uomini che fanno solo il loro mestiere, diventano le protagoniste quando si fanno portatrici della forza della natura che, si sa, non va mai sfidata. Crudo e grottesco il ponte che si riempie di sangue e viscere della prima balena catturata, finto e surreale il “mostro” digitale del “titolo” e il resto del “banco” di balene che lo accompagna . La sceneggiatura è semplice a tratti prevedibile. Gli attori si tormentano e si sottopongono a sforzi inumani per reggere una pellicola come tante. Chris Hemswoth, rinuncia addirittura a “metà” della sua prestanza fisica, si sottopone a una rigidissima dieta per ridurre i suoi muscoli e sembrare un naufrago “smunto e provato”, uno sforzo lodevole ma non premiato dal regista che lo fa solo percepire attraverso il trucco pesante e gli abiti logori. Il target del film non è chiaro, troppo cinico e noioso per convincere i bambini, non abbastanza rimarcabile per abbagliare gli adulti come “A Beautiful Mind” (2001). La combinazione Howard, Warner Bros, Blockbuster sembra non funzionare, se non per un godibile pomeriggio con gli amici al cinema.  
 
Francesca Tulli

Lo chiamavano Jeeg Robot

Domenica 13 Dicembre 2015 00:51 Pubblicato in Full Screen
Un film di Gabriele Mainetti con Claudio Santamaria, Luca Marinelli, Ilenia Pastorelli, Stefano Ambrogi, Maurizio Tesei. 
Dribuito da Lucky Red in sala dal 18 Febbraio.

Mon Roi

Sabato 12 Dicembre 2015 11:52 Pubblicato in Recensioni
“Bella, che c'importa del mondo?”. 
Richiama il primo verso di una delle più belle canzoni d'amore che la musica italiana possa annoverare il poster dell'ultimo lavoro di Maïwenn Le Besco, in arte, solo Maïwenn, presentato in concorso al Festival di Cannes 2015 e fruttato alla protagonista, Emmanuelle Bercot, la palma d'oro ex aequo per la migliore interpretazione femminile.
Il bacio sulla bocca che suggella gli amanti aggrovigliati come un tutt'uno, Giorgio e Marie Antoinette, due nomi regali, solo il secondo abbreviato in un confidenziale e meno altisonante Tony, dapprima mai stanchi di abbeverarsi alle labbra l'uno dell'altra, felici, curiosi, indomiti come fa essere l'amore quando non si sa cosa sia e lo si strappa al tempo perché non sia lui a strapparlo da noi.
Finché si può, perché non dura, non dura probabilmente mai, come l'infanzia che cede il passo all'adolescenza e poi all'età adulta, e anche se provi a ritrovare quegli occhi, se li cerchi dove sei sicura di averli lasciati, ti accorgi che non ci sono più, che non c'erano più già quando per la prima volta sentivi di fermare sulla retina un ricordo: tempus fugit e vince sempre. 
Appena lo pensiamo è già passato, non esiste più.
Muta il nostro sguardo, come le stagioni della vita, come l'amore, soprattutto quello vero che è tanto più vero se si smarrisce a noi stessi, alla nostra possibilità di dargli quel nome: amore. Già, ma cos'è l'amore?
Per Tony la stabilità di un rapporto di coppia, di un figlio molto amato, ma concepito, senza farla tanto lunga sul sacro fuoco della maternità, per assecondare un capriccio del partner, la maturità di un rapporto adulto.
Giorgio invece, il re degli stronzi, come si definisce da solo, è il re pazzo, libero – forse libero – non ipocrita (“perché vuoi che sia come vuoi tu se mi hai voluto perché sono come sono?” dice a un certo punto, a crisi già in corso), guascone e irresistibile.
Ma chi siano davvero Giorgio e Tony, cosa vogliano e cosa pensino, Maïwenn non ce lo racconta. L'apparente banalità di una storia come tante trova linfa nella scelta di non psicanalizzare i due protagonisti: (si) scelgono, fanno, disfanno, ma chi siano non lo sappiamo e non dovremmo neppure chiedercelo. 
Il re regna, con la fierezza dura e allo stesso tempo indulgente di un sovrano machiavellico, e nel gioco delle parti, Tony accusa tutto: i tradimenti, l'immaturità affettiva, l'impossibilità che le cose siano come le aveva predeterminate.
Il ginocchio contiene due parole, sostiene, con un azzardo da rivista di costume, apparentemente risibile, la dottoressa che incontra Tony, in seguito all'infortunio – allegoria evidente, ma strumentale, non capziosa - che le farà ripensare, a ritroso, alla sua storia d'amore: occhio e io, anche se Tony ancora non lo sa e preferisce sottolineare il superalcolico prefisso!
E' in realtà una dichiarazione d'intenti: saranno gli occhi e un Io reale, non più Ideale, a far muovere la donna in una direzione che non tiene conto dei limiti articolari.
In una sorta di rebirth che va di pari passo con la riabilitazione dei legamenti strappati di netto (come poteva essere altrimenti?), Tony re-impara a sentirsi, a toccarsi, a conoscersi – fondamentale il lavoro e il sentire sui corpi, sulla fisicità, nel lavoro della regista francese - a muoversi senza farsi troppo male, a usare un antidolorifico, se accade, a ridere per una sciocchezza, a guardare gli altri con gli occhi di una donna che non deve essere altro da quello che vuole, da quello che, in quell'istante, e quello solo, è.
Tony impara a provare compassione per se stessa, a perdonarsi, a vedersi con gli occhi indulgenti che sovente le donne si negano, e il suo re, divenuto infine, al suo sguardo, più mansueto, docile, può essere finalmente accarezzato con gli occhi/M.d.P da vicino, senza paura di sbagliare, senza il timore di vedere che ciò che si ha di fronte è diverso dalla propria innamorata proiezione, quasi senza reti. 
Il re, il meraviglioso, sensualissimo e fragile Vincent Cassel, in un ruolo cucito sulle sue corde attoriali, può essere finalmente anche ri-amato, con un sorriso, forse la natura profonda del più insondabile e impalpabile dei sentimenti. 
 
Ilaria Mainardi