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Blair Witch

Venerdì 16 Settembre 2016 09:49 Pubblicato in Recensioni
La storia della cittadina di Blair affonda le radici nel lontano 1771, data della sua fondazione.  Per circa dieci anni questo luogo prosperò offrendo una vita tranquilla ai suoi abitanti fino a quando nel 1785, accadde un evento che destabilizzò completamente l’inerzia quotidiana. Una donna fu accusata da alcuni individui di stregoneria e barbaramente condannata a morire all’interno della foresta collocata a ridosso della città. Da quel momento, a Blair si verificarono episodi funesti, quali la scomparsa e la conseguente morte  di tutti coloro che avevano accusato la donna. A distanza di anni, la foresta rimase un luogo permeato da una fitta coltre di mistero, continuamente alimentato dalla presenza di manifestazioni avverse ed inspiegabili.  Il giovane James conosce bene la storia della Foresta di Black Hills all’interno della quale, sua sorella Heather circa venti anni prima è tragicamente scomparsa assieme a tre suoi amici mentre girava un documentario su quel luogo intriso di leggende. Di loro nessuna traccia, solo il ritrovamento di un filmato angosciante che lascia una traccia enigmatica. Assieme a tre amici, James deciso nel voler trovare delle risposte alla scomparsa della sorella, si avventura all’interno della foresta munito di videocamera e drone, allo scopo di documentare ogni aspetto rilevante. Dopo essersi accampati tra i fitti e lugubri alberi della foresta, i ragazzi saranno testimoni di eventi minacciosi, che li porteranno a comprendere l’entità dell’errore che hanno commesso nel varcare il confine di Black Hills. 
A 17 anni di distanza dal primo capitolo diretto da Daniel Myrick, si torna al cinema con il sequel Blair Witch diretto da Adam Wingard per approfondire quella storia che ha originato una nuova generazione di horror addicted, quella terrorizzata da luoghi quali i boschi. Un vero e proprio fenomeno globale, che nell’oramai lontano 2000 incassò milioni di dollari divenendo un record nel settore dei found footage movie. Il regista americano Adam Wingard ( You’re next, The Guest), era uno dei tanti ragazzi che in quel periodo affascinati dal film si introducevano con in mano una videocamera all’interno di fitti boschi alla ricerca della strega di Blair, filmando scherzosamente delle parodie. Stavolta Wingard torna dietro la macchina da presa lasciandosi alle spalle le parodie, realizzando un sequel degno di nota, capace di giocare alla perfezione con l’ angoscia dello spettatore, e con le sue paure inconsce.  Blair Witch gode di una struttura ben architettata in grado di coinvolgere anche lo spettatore che non ha avuto modo di vedere il primo capitolo. La leggenda viene qui ripresa, ma approfondita e condita di nuovi elementi che conferiscono una maggiore realisticità e tensione ad un film che stavolta intende svelarci qualcosa in più. Se sperate nel poter finalmente scrutare la figura della strega che tanto ha tormentato migliaia di spettatori, pazientate perché qualcosa verrà segretamente palesato.  Tra gli aspetti interessanti di questa pellicola che vi terrà sul filo del rasoio è da sottolineare un sapiente uso del sistema audio, cadenzato da stacchi improvvisi e bruschi capaci di alimentare uno stato di pura angoscia. Una tensione che il regista sceglie di canalizzare verso un piano molto più coinvolgente rispetto al primo capitolo. Si temporeggia molto meno in Blair Witch, privilegiando l’azione e il movimento, rischiando però di invadere un po’ troppo il terreno del videogioco. Nell’ultima sequenza del film, vengono estremizzati tutti i punti nevralgici delle tensione, trascinando lo spettatore in un vero e proprio incubo claustrofobico, che viene tuttavia gestito in modo eccessivamente compulsivo e movimentato. Il film è da considerarsi nel complesso un’opera valida, che sa agghiacciare e coinvolgere lo spettatore, come raramente accade. 
 
Giada Farrace

Out of Sight

Giovedì 15 Settembre 2016 08:44 Pubblicato in Full Screen

Nel 2005, il giornalista Matt O'Brien ha scoperto una grande comunità di senza tetto stabilitisi nella rete fognaria sotto Las Vegas. Nonostante i rischi incredibili,hanno vissuto nei tunnel uomini, donne, bambini e animali completamente ignorati dalla gente della superficie. Dieci anni più tardi cosa è cambiato dall'indagine di O'Brien? 

con sottotitoli anche al link https://vimeo.com/123990521

Alla Ricerca di Dory

Giovedì 15 Settembre 2016 08:24 Pubblicato in Recensioni
‘Ciao sono Dory e soffro di memoria a breve termine' così si presenta  con una tenerezza disarmate e due occhi giganti la piccola pesce chirurgo, famosa per aver aiutato un padre disperato a ritrovare suo figlio in 'Finding Nemo' della Disney-Pixar. Oggi dopo 13 anni il regista e sceneggiatore Andrew Stanton (affiancato questa volta da Angus MacLane) prosegue l'avventura con lo spin off dedicato solo a lei 'Alla ricerca di Dory.' Smemorata e colta da una fulminante reminiscenza, per volere del destino, la pesciolina ricorda di essere finita in mezzo all'oceano dopo aver perso di vista i suoi genitori. Comincia un lungo viaggio per ritrovarli, aiutata dai suoi vecchi amici e da nuove bizzarre conoscenze, tra cui spicca Hank, un polpo imitatore scorbutico e affarista con tre cuori sotto la scorsa viscida, l’amica d’infanzia Squalo Destiny e diversi incontri inaspettati. La favola ecologista continua, affronta con delicatezza il tema dell'inquinamento, i fondali dell’oceano sono ricoperti di spazzatura, i paguri fanno la casa dentro alle scatole di latta, Dory stessa resta impigliata nella confezione di plastica delle lattine, ed è là che viene pescata da un centro di recupero per la fauna oceanografica, dove i pesci vengono curati e liberati. Voce italiana della rappresentate del parco è Licia Colò (quella di Sigourney Weaver nella versione originale), che abbiamo incontrato alla conferenza stampa tenutasi a Roma durante la promozione del film. Licia ci ha raccontato che la componente di realismo che c’è nello studio delle specie  di ogni pesce è impressionante a questo proposito ha anche scherzato con noi l’attrice comica Carla Signoris, voce storica della protagonista, raccontando questo aneddoto “per farti capire quanto sono precisi ‘questi’: durante la sessione di doppiaggio di Nemo, mi hanno fatta tornare in studio, telefonando di 14 di Agosto, perché in una battuta Dory diceva “Guarda testuggini!” quando invece si trattava di “tartarughe marine”. Non potevamo tollerare un errore così imperdonabile.” Si toccano due temi portanti delicati: la disabilità, quella che fu fisica nel caso di Nemo, che poteva contare solo su una pinna, è mentale nel caso di Dory, la smemoratezza appunto che ancora una volta da apparente debolezza diventa punto di forza e l’importanza della famiglia, vera o acquisita che sia. Sorprende come gli animatori siano riusciti a trovare un espediente diverso per far attraversare a dei pesci qualsiasi territorio ostile trovando il modo di non restare mai fuori dall'acqua. Riesce nell’importante compito di restare allo stesso livello del film precedente e vanta una qualità d’immagine e grafica 3D eccellente. Ci tuffa in un mondo colorato, tenero ed emozionate, incanta una nuova generazione. Il consiglio per chi ha amato il primo film è quello di restare fino alla fine dei titoli di coda. 
 
Francesca Tulli

The Beatles-Eight Days a Week

Mercoledì 14 Settembre 2016 14:07 Pubblicato in Recensioni
John, Paul, Ringo and George are the Beatles! Il regista statunitense Ron Howard in questo documentario ripercorre i primi cinque anni (1962-1966) della loro carriera, da quando erano famosi per essere i “bravi ragazzi” a quando in America i loro ex sostenitori arrivarono ad accusarli di blasfemia facendo un falò con i loro vinili, fino alla grande ripresa, con l’ottavo album Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band. Ogni aspetto viene affrontato con delicatezza, senza indugiare sulle speculazioni, senza toccare nello specifico, la loro vita privata. A differenza delle monotone esposizioni di fatti, date e cronaca nera che riporta talvolta la televisione, i quattro ragazzi di Liverpool vengono celebrati con entusiasmo da tutti coloro che hanno vissuto la loro epoca d'oro. Inizialmente poveri, indossate le giacche nere e tagliati i capelli con il caschetto a cipolla, presi “per mano” da Brian Epstein il loro manager, in soli quattro anni raggiunsero un successo senza precedenti da Londra agli Stati Uniti fino in Giappone riempiendo gli stadi di fans. Folle inferocite di più di ottomila persone li seguivano, facendo di loro un “pericolo” pubblico, era la rivoluzione giovanile, il “primo vero” fenomeno dei “fans” le ragazze si appuntavano le spille con il nome del favorito, si strappavano le chiome, urlavano, rischiavano la vita sulle balaustre degli stadi solo per vederli dal vivo. “Quando un calciatore fa Goal la gente grida più forte, noi dobbiamo solo scuotere la testa: quando lo facciamo loro impazziscono. E’ come fare Goal” affermano durante un’intervista spiritosi e ‘sfrontati’ senza essere cattivi le loro personalità vengono fuori mantenendo una continuità tra i filmati d’epoca e le interviste fatte oggi. La musica è la vera protagonista del film, dalla naturale creazione dei molteplici testi scritti in macchina in mezz’ora da John e Paul, alle registrazioni in studio “8 giorni alla settimana” del titolo, fino all’utilizzo di questo linguaggio universale per abbattere le differenza sociali contro le leggi razziali. Whoopi Goldberg da fan racconta di come quei quattro 'bianchi' le abbiano 'indirettamente' trasmesso la sicurezza per affermarsi come donna e artista. I Beatles vengono ritratti come 'Il gruppo ideale di amici' 'i confidenti' immaginari di una generazione. Il documentario (in Italia distribuito da Lucky Red al cinema dal 15 al 21 di settembre) ha ricevuto un'ottima accoglienza dai fan e dai neofiti perché è accessibile a tutti. Alla fine del documentario, vengono mostrati in esclusiva 30 minuti di footage, remasterizzazione a 4K dell’iconico concerto del 15 Agosto del 1965 presso lo Shea Stadium di New York, che contava più di sedicimila partecipanti. Ignari del successo che avrebbero ricevuto rispondevano a chi gli chiedeva se la loro musica avrebbe potuto portare ad un cambiamento culturale? “Quello che facciamo non è cultura! È solo divertimento”.
 
Francesca Tulli