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La belle époque

Giovedì 07 Novembre 2019 22:02 Pubblicato in Recensioni
Nicolas Bedos al suo secondo lavoro da regista esplora il terreno della nostalgia, filo conduttore e allo stesso tempo deus ex machina della storia che vede protagonisti Daniel Auteil e Fanny Ardant.
Ciò che rende ardentemente desiderabile qualcosa è spesso anche quello che non possiamo avere. E cosa c’è di più irraggiungibile di un passato che non si può rivivere? Costantemente immerso nel profondo oceano di ricordi lontani Victor (Daniel Auteil), protagonista maschile del film, è un fumettista avulso dalle tecnologie contemporanee e ancorato ad un passato in cui la sua carriera e la sua vita avevano una più fervida ed appagante vitalità. L’inadeguatezza del trovarsi come un oggetto dimenticato e polveroso si rispecchia inevitabilmente nel rapporto, ormai liso, con la moglie Marianne (Fanny Ardant) una psicanalista vitale e affascinante. 
Anche Marianne è agganciata al suo passato che però non evoca con malinconico rimpianto ma piuttosto reprime e trasforma in un continuo rinvigorire di atteggiamenti e comportamenti che mistifichino un qualunque rischio di routinaria abitudine.
Ciò che separa i due protagonisti è infatti ciò che, allo stesso tempo li unisce. Il “dolore del ritorno” (nostos + algia) è un pensiero a ciò che non è più e che, se da un lato porta all’estraniamento da una realtà che non piace (Victor), dall’altro fa sì che non ci si arrenda al cambiamento o lo si adatti pensando di essere ancora ciò che eravamo prima (Marianne). 
Quello che separa i due all’inizio è quindi ciò che li fa ritrovare alla fine: la consapevolezza di non essere più quello che erano un tempo e che idealizzare troppo il passato e svilire il presente può renderlo paradossalmente illusorio (ce lo fa intendere anche la battuta di Fanny Ardant sugli anni 70) .
Se da una parte è raccontata un’amara degenerazione del fascino condiviso di una vita mirabolante, che assurgeva all’idea che la giovinezza fosse la chiave della felicità e dell’amore passionale, continuativo, viscerale, dall’altra Bedos ci parla del rapporto altalenante e appassionato dei due giovani personaggi Margot (Dora Tillier) e Antoine (Guillaume Canet) che rappresentano il contraltare dei due protagonisti più maturi e, allo stesso tempo, il legame più iconico di Victor e Marianne con il proprio passato. 
Sfruttando la magia del cinema, infatti, Antoine dirige scene nostalgiche per clienti che vogliano rivivere momenti importanti della propria vita cercando il maggior realismo possibile e la miglior suggestione che scenografie e attori possano conferire alla scena. In questo caso Victor decide di rivivere il giorno in cui ha conosciuto sua moglie Marianne, interpretata nella finzione della riproduzione proprio dalla compagna del regista che la dirige. 
Bedos racconta con un certo garbo, senza farsi mancare battute o scene più prosaiche ma coerenti con il tono della narrazione, questa liturgia di una storia d’amore al contrario, partendo dalla fine e andando all’indietro nei ricordi, cercando le emozioni più nelle scene evocate che in quelle vissute (e mostrate) sullo schermo: i veri Victor e Marianne del 1974 non si vedono mai, se non sottoforma di disegni negli schizzi di Victor stesso.
Un modo originale di raccontare il binomio tra amore e memoria, puntellandolo con gli elementi passionali e di rottura rappresentati dai due protagonisti più giovani che non sono distaccati dalla storia principale ma, anzi, ne diventano complici e artefici prendendo parte a un futuro non ancora vissuto e a un passato che non offre garanzie ma una speranza: quella di trovare o riscoprire un amore che valichi i confini del tempo e che possa resistere ai cambiamenti personali e della società nel corso degli anni, dei decenni, dei secoli. 
Quella di trovare, per ognuno, la propria belle epoque.
 
Valeria Volpini

L'immortale

Giovedì 05 Dicembre 2019 21:29 Pubblicato in Recensioni
L’attesa è finita, e Limmortale è appena uscito nelle sale italiane. Il film diretto da Marco D’Amore oltre a rappresentare un evento per tutti gli appassionati della serie, è anche un esperimento di fusione tra serialità e grande schermo.
La narrazione procede alternando il presente di Ciro a Riga, sopravvissuto ancora una volta alla morte, e il suo passato da bambino, i suoi primi passi nella malavita.
Se da un lato il film mantiene sempre alta la qualità della fotografia e alcuni stilemi cari all’universo autoriale di Gomorra (magistralmente dipinto nelle prime due stagioni dallo sguardo nitido e tagliente di Sollima), dall’altro sembra discostarsi da quella sincera congruenza che ha da sempre dominato le vicende raccontate nella serie.
A convincere poco è forse l’aspetto dispersivo della prima parte del film, che stenta a decollare, vittima forse  di un registro troppo convulso e poco decifrabile . Tra l’altro i Pochi cenni al passato dei nuovi personaggi che scorrono sullo schermo finiscono per sbiadire i contorni già labili accennati all’inizio del racconto. Una debolezza questa, che porta inevitabilmente lo spettatore su un piano di netta distanza dall’abituale tono connaturato tipico della serie.
E se nella serie si predilige un stile interpretativo misurato, freddo e impudente, qui si ha quasi l’impressione che D’Amore abbia imboccato una strada vicina al manierismo, al melodrammatico.
Il dualismo geografico-temporale tra Riga-presente e Napoli-passato, si presenta sin da subito quale motivo disgregativo a livello di trama, facendo perdere tono al racconto d’infanzia di Ciro, probabilmente tra gli aspetti più interessanti e riusciti del film (emblematica è la performance di Ciro bambino interpretato dal piccolo Giuseppe Aiello).
Giunti alle battute finali, Marco D’Amore realizza un film che ha teoricamente le carte in regola per saziare la bulimica fame degli spettatori, regalando quello che tutti in fondo desideravano vedere.
Ciò nonostante, se ci si aspetta un lavoro capace di toccare nel profondo e sorprendere, purtroppo le aspettative verranno amaramente tradite lasciando spazio soltanto ad un’interessante operazione di intrattenimento.
 
Giada Farrace

Motherless Brooklyn

Giovedì 07 Novembre 2019 00:38 Pubblicato in Recensioni
Ambientato nella New York degli anni '50, dove sono ancora avvertibili gli effetti della grande depressione e della guerra da poco conclusa, il film segue le vicende del giovane detective Lionel, detto Brooklyn (Edward Norton), orfano di madre e affetto dalla sindrome di Tourette.
Quando il suo mentore Frank (Bruce Willis) viene ucciso in circostanze misteriose, lo strano ma sveglio investigatore decide di far luce sul caso, addentrandosi nei segreti piú tetri della città.
È una decina di anni che questo copione girava sulla scrivania di Norton, colpito dal romanzo di Jonathan Lethem e assolutamente convinto a trasporlo sul grande schermo. 
Alla sua prima opera sia da regista che da scrittore, chissà quante volte però sarà tornato sui suoi passi per trovare la formula perfetta, e alla fine decide di andare sul sicuro e di attenersi al manuale, realizzando un noir aderente a tutti gli stilemi del genere. 
Ambientazioni urbane e notturne, fotografia chiaroscura molto contrastata (ottimo lavoro del veterano Dick Pope), delle inquadrature distorte e taglienti fanno da base per la messa in scena di una città dai sentimenti corrotti e malsani.
Tuttavia nella sua tecnica quasi perfetta giace anche il suo limite, perché si sente la mancanza una qualsiasi direzione prettamente personale; tanti richiami a grandi capolavori del passato, Chinatown su tutti, ma nessuno spunto originale per dare risalto alla propria creatura.
Da consuetudine noir anche la verità della vicenda è tra le ombre della narrazione, negli sguardi dei personaggi, che si stagliano attraverso fumi di sigaretta o nella penombra di vicoli oscuri. Però più che creare un'atmosfera ambigua e misteriosa, col passare dei minuti si ha la perenne sensazione che qualcosa non torni. 
La sceneggiatura costruisce e stratifica, sembra quasi che improvvisi ispirandosi alla tradizione jazz della colonna sonora, ma poi si annoda su se stessa lasciando una fastidiosa confusione. Non aiutano gli scambi tra i personaggi, sempre piuttosto artificiosi, quasi a riempire i silenzi di una pellicola che sta trascinandosi troppo a lungo.
La durata è infatti eccessiva, un ritmo colpevolmente dilatato accentua la sensazione di pesantezza della trama e qualche taglio avrebbe sicuramente giovato all'economia complessiva.
Dal punto di vista prettamente attoriale invece le cose vanno meglio, il casting è senza dubbio azzeccato, ma senza la giusta base di sceneggiatura i personaggi fanno fatica ad emergere. Bruce Willis compare sullo schermo troppo poco per lasciare il segno ed Alec Baldwin non riesce a riempire fino in fondo il ruolo di antagonista che gli viene cucito addosso. Tutto il peso quindi giace sulle spalle di Edward Norton e porta a casa il compito in maniera più che sufficiente, col suo solito talento e magnetismo, ma soprattutto nella prima parte eccede nella caratterizzazione di Brooklyn in un leggero overacting.
Dopo tutti questi anni dalla sua prima vera direzione, nel 2000 con Tentazioni d'amore, l'attore di Boston ritorna dietro la macchina da presa con un film ben costruito ma poco coraggioso. Un'opera che sarà stata complicata da portare a termine, dal parto travagliato, perché si nota la mancanza di fluidità e di decisione, tecnicamente inossidabile ma purtroppo anonimo nella sostanza. La proverbiale occasione mancata.
 
 
Omar Mourad Agha

A Marriage Story. Storia di un matrimonio

Lunedì 18 Novembre 2019 00:22 Pubblicato in Recensioni
Nicole (Scarlett Johansson) è un'attrice lanciata nel mondo di Hollywood, Charlie (Adam Driver) un giovane regista teatrale di talento in forte ascesa a New York. Dal loro incontro nasce un amore intenso e passionale, che piega carriere e scuote gli animi nelle fondamenta. Uno di quelli che non può finire con una semplice firma sui documenti di divorzio, tra belle e nostalgiche parole, ma fa riemergere tutte le incomprensioni e i rancori repressi. Tra urla di dolore e litigi a cuore aperto, va in scena il capitolo finale della storia di un matrimonio.
Noah Baumbach cura una regia precisa e al tempo stesso discreta, che ci porta alla giusta distanza dai personaggi. Le inquadrature danno l'impressione di una messa in scena teatrale piuttosto che strettamente cinematografica, acquisendo spessore e vitalità. Una dimensione più intima passa attraverso primi piani o mezzi busti che segnano tutta la sofferenza dei protagonisti.
Ne risulta un ritratto del dramma realistico ed empatico, pregno di sentimento, in cui la separazione segue dei passaggi a volte molto marcati ma sempre spontanei. Ci si può facilmente immedesimare in questa storia, nella fine di questo amore, forse malinconico, in cui si tende per tutto il tempo a desiderare una via di fuga, una svolta salvifica inaspettata. Ampio risalto è dato ad entrambe le parti, in modo quasi del tutto simmetrico sembrerebbe. Le situazioni di lui e le situazioni di lei hanno lo stesso peso, a partire da una versione delle locandine in cui prima una figura e poi l'altra si guardano e, come sfondo, uno spaccato urbano di due diverse città, due luoghi che inesorabilmente creano una frattura.
New York e Los Angeles, agli antipodi della nazione, sono quasi comprimari che dettano il tono della messa in scena, raccolta e quasi soffocata nella Grande Mela, più aperta e vivace nella Città degli Angeli.
Ma la vera colonna portante di un film così riuscito è senza dubbio la sceneggiatura. La compattezza complessiva della vicenda è figlia di dialoghi fluidi e ottimamente costruiti, e lo sviluppo degli episodi appare molto naturale. Un ritmo serrato e frizzante mantiene alto il livello di tensione dello spettacolo, soprattutto in un paio di sequenze in particolare, ma degli opportuni cambi di registro evitano di appesantire eccessivamente lo spettatore.
In questo contesto gli attori stessi appaiono in grande spolvero. A partire dai protagonisti principali, che danno molto del loro per garantire la genuinità delle emozioni che permeano la pellicola, soprattutto la Johansson, in una delle sue migliori interpretazioni. Anche i comprimari sono ottimamente in parte, Ray Liotta e Laura Dern, nel ruolo degli avvocati dei due coniugi sono sempre molto precisi e puntuali nel tratteggiare la spietatezza e l'egocentrismo dei loro ruoli.
Storia di un matrimonio è un film forte, che sbatte in faccia allo spettatore la sofferenza e le problematiche insite nelle relazioni, ma d'altro canto non lesina sulla tenerezza di certi gesti e sulle ragioni che ci portano comunque a cercarci l'un l'altro. In fin dei conti è un film che parla semplicemente d'amore e lo fa con una potenza ed un'espressività che ormai si vede raramente sul grande schermo. Lo fa da grande film.
 
Omar Mourad Agha