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1917

Giovedì 23 Gennaio 2020 16:40 Pubblicato in Recensioni
Prima Guerra Mondiale, ai due caporali Schofield (Goerge MacKay) e Blake (Dean-Charles Chapman) viene affidato l'incarico di raggiungere un reggimento stanziato al largo della città di Ecoust. Devono consegnare un messaggio contenente l'ordine di fermare l'imminente attacco alle linee tedesche, che stanno preparando una trappola alle truppe inglesi. Un compito che potrebbe salvare la vita di 1600 soldati, compreso il fratello di uno dei due ragazzi.
Liberamente ispirato dai racconti del nonno, che attraversava veramente i campi di battaglia per consegnare missive da un reparto all'altro, per questo film Sam Mendes (American Beauty, Skyfall) decide di avvalersi di un punto di vista particolare.
Sceglie di accompagnare la missione con una serie di piani sequenza opportunamente uniti, simulando uno scatto unico per tutta la durata della pellicola. Un modo per essere ancora piú vicino ai protagonisti nel loro incedere attraverso l'orrore. 
Si è testimoni di tutto, dal timore che dietro il prossimo angolo possa esserci un nemico, alla speranza che gli aerei alleati vincano il duello aereo che imperversa nei cieli, fino alle battute tra commilitoni, che provano in tutti i modi ad alleggerire la sensazione che quelle potrebbero essere le loro ultime parole.
Questa tecnica, recentemente già vista in Birdman, è stata opportunamente elaborata in mesi e mesi di prove con precise mappe per i movimenti degli attori e dispiegamenti lungo il set, e in questo particolare teatro degli eventi conferisce una tensione alla scena assolutamente unica.
La colonna sonora rimane in secondo piano, a tratti cadenzata dall'incedere dei due soldati nella terra di nessuno, un accompagnamento che non distoglie lo spettatore dal focus della narrazione, ma che è anche capace di salire con toni sontuosi in determinate scene ad alta spettacolarizzazione.
Il film procede molto veloce verso il suo obiettivo, con la stessa urgenza che hanno i due protagonisti di consegnare il messaggio, e c'è poco tempo per soffermarsi sulla tragicità degli eventi che si susseguono. La morte si palesa ovunque e bisogna proseguire ad ogni costo, ricacciando dentro le emozioni.
E' forse questo uno dei pochi limiti di questa pellicola, la sceneggiatura è funzionale alla dinamicità della vicenda, e lascia poco spazio per le sensazioni che scaturiscono dalla drammaticità di certi avvenimenti. Le linee di dialogo sono scarne e taglienti, e servono piú che altro a spezzare il ritmo concitato della vicenda.
I personaggi vengono quindi tratteggiati molto poco, si susseguono eterei come fantasmi, consci che potrebbero uscire dalla scena con la stessa rapidità con cui sono entrati. Ciònondimeno assistiamo a una serie di cameo di gran valore, attori del calibro di Colin Firth, Mark Strong e Benedict Cumberbatch, si rendono protagonisti di momenti iconici all'interno degli eventi della missione, ma ovviamente la prova attoriale piú importante è quella dei due caporali, in particolare dal giovane George MacKay. 
La sua è un'interpretazione molto fisica, sporca e di fatica, perfettamente in tono con una produzione del genere ma anche precisa ed accurata, vista la natura della particolare tecnica con cui il film è stato girato.
Impossibile non citare anche la straordinaria fotografia di Roger Deakins, già vincitore due anni fa dell'Oscar con Blade Runner 2049, qua autore di un lavoro eccezionale, che si manifesta, oltre che nella ricostruzione di campi di battaglia in campo aperto e tra le trincee, soprattutto nella messa in scena di una meravigliosa sequenza in notturna all'interno della città bombardata di Ecoust, una delle migliori della pellicola.
1917 è in definitiva un'opera che lascia senza fiato, è un'incursione rapida e tesa nell'inferno di uno degli eventi piú drammatici della storia, avvalorato da una tecnica di altissimo livello. Sebbene passi forse troppo veloce da un dramma al successivo, le sue scene rimangono impresse nella mente come fuoco vivo. Uno dei film di guerra piú riusciti degli ultimi decenni.
 
Omar Mourad Agha

The Lodge

Giovedì 16 Gennaio 2020 16:05 Pubblicato in Recensioni
Il topos dell’abitazione sperduta in un luogo dalle atmosfere lugubri e minacciose, è quanto di più ricorrente nel cinema horror. Si tratta infatti di quella che viene definita la premessa costante di molteplici trame che hanno come perno il fenomeno paranormale. Il nuovo lavoro diretto da Severin Fiala e Veronika Franz ripropone avvedutamente una trama che ruota attorno al senso di isolamento generato da un luogo capace di dilatare il tempo, generando alienazione ed inquietudine. The Lodge è infatti ambientato in una dimora sperduta nelle lande di un silente paesaggio nevoso, dove la neo coppia formata da Richard e Grace decide di passare alcuni giorni in compagnia dei due figli dell’uomo. Un equilibrio instabile quello dei due bambini, ancora fortemente turbati dalla fresca perdita della loro madre naturale, e che a stento riescono a rapportarsi con la nuova compagna del padre. Ma le cose arriveranno ad una svolta ancor più critica, quando Richard sarà costretto ad assentarsi qualche giorno per motivi di lavoro, lasciando i due bambini assieme a Grace in questo luogo tutt’altro che confortante. La figura di Grace non fa che approfondire quel senso di disagio e ambiguità che si percepisce sin dalle prime battute del film. I due registi, dopo il successo dell’ultimo lavoro Goodnight mommy (2014), tornano a dirigere una storia che ruota attorno a temi cari ai due autori, quali la religione, il paranormale e il rituale, inteso come momento di incontro tra reale e forze oscure. Ma se l’incipit si presenta intrigante e ben disposto a percorrere una strada coerente e tenebrosa, lo sviluppo ha un’andatura incerta e piena di lacune che inevitabilmente pesano sul film fino alle battute finali. Probabilmente un lavoro del genere necessita di una seconda visione per poter essere compreso nelle sue svariate angolature, anche se in questo caso sono proprio le stesse nella loro moltitudine a portare fuori strada la storia nella sua interezza. L’eccesso nel voler creare enigma conduce ad un rallentamento del ritmo e inevitabilmente all’abbassamento della soglia d’attenzione dello spettatore. I 100 min di film  iniziano a farsi sentire soprattutto dalla seconda metà in poi, quando quella suspense che all’inizio procurava un conturbante senso di angoscia e isolamento, perde tono mano a mano che ci si approssima alla fine. Molto interessanti i richiami non soltanto narrativi, ma anche fotografici di stampo Kubrickiano, legati a Shining. The Lodge è un film che se da un lato merita attenzione per lo sforzo e per l’intento di raccontare una storia di stampo psicologico, dall’altro purtroppo non riesce a catalizzare a dovere tutti gli elementi a sua disposizione, restando in un limbo di incertezza. 
 
Giada Farrace 
 

Richard Jewell

Martedì 14 Gennaio 2020 11:50 Pubblicato in Recensioni

Il dono della narrazione è un privilegio raro e riservato a pochi nomi della Hollywood  odierna. La spasmodica ricerca dello spettacolare al cinema, la quale tuttavia non sempre genera prodotti eccelsi, pone ancor di più in evidenza quei narratori che imperterriti seguono il loro fulgido cammino. Ebbene Clint Eastwood a quasi 90 anni, è uno dei grandi veterani che ancora oggi pone come cuore della sua missione narrativa l’essere umano, e talvolta l’eroe. Il regista di Gran Torino, decide ora di raccontarci la vicenda accaduta realmente a Richard Jewell, un giovane americano travolto da un’inarrestabile polverone di eventi disastrosi sollevato dalla bulimica invadenza dei media.  Tutto ha inizio il 27 luglio del 1996, quando durante i giochi olimpici di Atlanta, Richard, in veste di guardia di sicurezza dell’evento, scopre uno zaino sospetto. Il giovane riesce a lanciare l’allarme in un tempo ridotto, mettendo in salvo molte vite prima dell’esplosione, e tentando di limitare il numero dei lesi. Dopo giorni intensi e gloriosi, in cui Richard viene considerato all’unanimità un erore, arriva il colpo basso da parte dei mass media, i quali diffonderanno la notizia che il ragazzo risulta per l’FBI il primo sospettato dell’esplosione. Da qui ha inizio ufficialmente il frustrante calvario di Jewell, ritenuto ingiustamente un individuo psicolabile e pericoloso, nonchè un fanatico in cerca soltanto di attenzione. Clint Eastwood rimane colpito da questa vicenda e decide di raccontarcela come soltanto lui sa fare con tali fatti di cronaca, ossia con assoluta minuzia e grande umanità. Nella seconda parte del film, la ricostruzione del fatto in sè viene poi seguita dall’esplorazione dei rapporti che intercorrono tra i vari protagonisti e questo avviene con molta naturalezza senza cedere il passo ad eccessi di sentimentalismi. Perchè il cinema di Eastwood non si limita mai a riportare una vicenda nella sua fredda linearità, ma abbraccia anche quel piano intimo e profondo che rende tutti i personaggi delle sue storie più vicini a noi. Una lode speciale va agli interpreti, da Sam Rockwell, che restituisce il ritratto sincero e ironico dell’avvocato, a Kathy Bates madre dell’eroe alla gogna, arrivando infine al protagonista Paul Walter Hauser, perfetto in ogni istante nel suo ruolo. Richard Jewell è sicuramente un film molto diverso dal precedente The Mule, poichè viaggia su un binario emotivo differente, ma non per questo meno incline a coinvolgere. Certo è che, di registi come Eastwood non ce ne sono e mai ce ne saranno, pertanto questa sua impronta unica, capace di colpire il bersaglio senza sbavature resta di fatto il suo tratto principale, quello che rende i suoi film dei grandi momenti di cinema. 

 

Giada Farrace

 

 

 

Un giorno di pioggia a New York

Giovedì 28 Novembre 2019 12:43 Pubblicato in Recensioni

Entrare in sala sapendo che si vedrà un film di Woody Allen coincide solitamente  con il momento che precede l’arrivo di una carezza piacevole e allo stesso modo eccitante. Questo meccanismo si innesta in quasi tutti i casi ed è quanto di più dolcemente confortante  possa offrirci un film di Allen. Un giorno di pioggia a New York è l’ennesima conferma che questo straordinario regista riesce sempre (tranne rarissimi casi) a centrare il bersaglio con una disinvoltura e una maestria impareggiabili. La vicenda prende vita nella grande mela, dove la giovanisima coppia composta da Gatsby (Timothée Chalamet) e Ashleigh (Elle Fanning) si trova a dover trascorrere un intenso e vulcanico weekend all’insegna dell’imprevisto.  E se da un lato Ashleigh verrà catapultata in un contesto del tutto inaspettato a seguito di un’intervista ad un noto ed affascinante regista, dall’altro Gatsby dovrà fare i conti con la polverizzazione di tutti i suoi progetti organizzati in modo impeccabile per immergere la sua dolce metà in una città malinconica ed esuberante come la sua New York.  Woody Allen torna finalmente a dirigere un film che ripercorre fieramente e senza alcun indugio quel sentiero che gli è tanto caro e familiare e che corrisponde alla commedia più vivace, romantica, da sempre arricchita da quel pizzico di cinismo che rende ogni cosa più pungente.  E anche in questo caso, a fare da colonna portante del film sono i dialoghi, fitti e sferzanti, capaci di donare al tessuto narrativo quella linfa vitale che rende il tutto più fluido e dinamico. La scorrevolezza di Un giorno di Pioggia a New York è pertanto dovuta in larga parte alla costruzione di scene riuscite e in grado di colpire con rara genialità, ma anche al talento di un cast del tutto inserito nel contesto, a partire proprio dal protagonista, Timothée Chalamet. Gatsby è infatti il riflesso più acerbo della moltitudine di personaggi interpretati da Woody Allen nel corso della sua lunghissima carriera. Cinico e dall’aria a tratti malinconica, Gatsby è l’Allen più giovane e romantico, il quale non è ancora giunto alla fase più penetrante di cinismo esistenziale. Siamo alle battute finali e risulta quindi impossibile non evidenziare quanto ci sia di speciale in questo film che rischiava seriamente di non essere distribuito affatto in sala. Con Un giorno di pioggia a New York Allen ripropone con profonda incisività alcuni temi cari al suo cinema, uno tra tutti quello legato all’imprevedibilità degli eventi e a quanto sia inafferrabile la certezza della felicità.  

Giada Farrace