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Visualizza articoli per tag: elle fanning

The Neon Demon

Mercoledì 08 Giugno 2016 21:54
Io penso che il mistero in un film ci deve sempre essere, infatti mi abbinano sempre a David Lynch forse per questa cosa che non si capisce mai cosa succede.
Lory Del Santo
 
Jesse (Elle Fanning) , sedicenne di provincia, si trasferisce a Los Angeles per fare della sua straordinaria bellezza un lavoro, ma si troverà a contatto con un ambiente spregiudicato che non le perdonerà un tale dono. 
The Neon Demon, ultima fatica del regista danese Nicolas Winding Refn, è una dura critica al mondo della moda con moltissimi spunti di riflessione, un'opera che l'autore stesso dichiara matura, un punto d'arrivo di tutto il suo percorso precedente. Refn riversa qui tutte le influenze del cinema di cui si è nutrito, mostrandolo come un baluardo ma al tempo stesso volendosene distaccare, prendendone le distanze in nome di una personale presunta originalità. Ci parla di concetti filosofici, di bellezza, inoltrandosi nel suo profondo significato, del mondo dell'effimero che conduce facilmente alla perdizione, di una dura e cinica materialità che contrasta con i sani principi morali.
In the Neon Demon troviamo tutto. Ad iniziare da Bava, Argento per poi passare a De Palma, Lynch, tutto ma proprio tutto. Lo troviamo nelle inquadrature, nell'indugiare con lo sguardo sui personaggi, nei movimenti di macchina, come se studiare i grandi maestri fosse stato un lavoro certosino. La pecca purtroppo sta proprio nel non riuscire a trovare una propria identità decadendo ad una mera copia sbiadita di tutto ciò che c'ha sbattuto al muro prendendoci di peso dalla poltrona.
Elle Fanning, giovane e brava protagonista, si mostra candida e insidiosa al tempo stesso, in lei c'è tutta l'ambiguità e la malattia dei contrasti lynchani, c'è anche la Carrie di De Palma (la scena d'apertura sembrerebbe un mix tra Omicidio a luci rosse e  Carrie lo sguardo di Satana) e poi tutto ciò che turba i nostri sonni, gli infiniti ossimori tra bene/male, provincia/città, giorno/notte, castità/sesso, realtà/allucinazione divengono, senza bisogno di essere annunciati, altrettanti infiniti richiami all'autore di Twin Peaks, a quella Laura Palmer che dovrà essere uccisa, alla Mulholland Drive inghiottita da una scatola blu tra eros e thanatos. É un gioco di specchi e di rimandi, specchi fisici che riflettono le immagini e le amplificano, obiettivi fotografici che immortalano in una sovraesposizione mediatica pericolosissima, ammiccando anche un po' all' Holy Motors di Carax, per due ore di pellicola che forse sono più ostiche delle tematiche affrontate.
Il grosso gap generazionale che accusa Refn è insito proprio nel non riuscire ad essere qualcosa di più di un richiamo, nel diventare noioso a tal punto che per spegnere la monotonia bisogna virare precipitosamente sullo splatter con sbudellamenti vari e cannibalismi al seguito secondo la migliore tradizione cinematografica.
Refn vuole a tutti i costi fare l'esoterico. Dichiara di essersi avvalso delle letture di tarocchi di Alejandro Jodorowsky, delle lunghe chiacchierate quotidiane via Skype con il maestro, tanto da riversare tutta la sua influenza nel loghetto col triangolino che campeggia su locandina e in varie scene del film, un po' insomma come pensare che ingellarsi i capelli alla Elvis equivalga a far rivivere Elvis stesso.
Lui si difende dicendo che chi non ammette di aver “rubato” da qualcuno sta mentendo, in effetti in questo non c'è nulla di male, ma il contrasto rispetto al passato sta nell'apparire acerbo e compiaciuto, come se per comprendere Tarantino ci dimenticassimo di Fernando Di Leo o di Enzo Castellari. Del resto, soprattutto le nuove generazioni di spettatori, Di Leo non sanno neppure chi sia come può accadere che di Refn lo si faccia passare per un talento visionario con buona pace di De Palma e compagnia bella.
 
Chiara Nucera

L'Inganno

Sabato 27 Maggio 2017 20:26
Un’innocente bambina passeggia nei boschi con il suo cestino in cerca di funghi freschi. Improvvisamente si imbatte in un uomo ferito. Siamo in piena Guerra di Secessione americana ed il soldato in cerca di cure è il caporale John McBurney (Colin Farrell, a Cannes anche con The Killing of a Sacred Deer di Yorgos Lanthimos). L’uomo trova così ristoro in una sontuosa tenuta sudista, dove un’insegnate di nome Martha (Nicole Kidman, lei è presente con ben 4 film in questa edizione del Festival) gestisce un’esclusiva scuola per il gentil sesso. Il gruppo di donne è variegato, ci sono adulte e giovincelle. Insieme offrono una calorosa assistenza al soldato nordista, in attesa della sua completa guarigione e della consegna all’esercito. Ma le attenzioni femminili alla lunga diventano pericolose. Sorgono rivalità inaspettate per accaparrarsi l’affascinate preda. Il desiderio sessuale sale con il passare dei giorni e il frutto proibito è proprio lì davanti, pronto per essere colto. Le situazioni si complicano e la tensione schizza alle stelle verso un finale torbido e dalle decise tinte horror.  
 
Il nuovo lavoro di Sofia Coppola, in concorso a Cannes 70, è il remake de “La notte brava del soldato Jonathan” del 1971, di Don Siegel con Clint Eastwood. La regista figlia d’arte ne cura anche la sceneggiatura, liberamente ispirata al romanzo A Painted Devil di Thomas P. Cullinan. 
La vera mattatrice di The Beguiled è la regia, premiata con la prestigiosa Palma dalla giuria del Festival. Conduzione artistica con pregi e difetti. Piace per il suo formalismo e per i suoi primi piani compiaciuti. E’ una regia tanto complice quanto soddisfatta. Sofia Coppola, nella costante del suo mondo femminile, cambia gradualmente genere, da film di guerra sentimentale si passa all’horror gotico, sublimando in una sentita suspense. Orgogliosamente mostra le sue protagoniste in un’emblematica inquadratura finale (sembrano in vetrina per sfoggiare il loro abito migliore). Femminismo massimizzato, del quale però non manca di mettere in risalto le contraddizioni: tanto caste quanto impure, donne misericordiose e devote al Signore, ma allo stesso tempo vampire pronte a castrare il maschio.
La regista americana mantiene una facciata morale impeccabile, dietro alla quale vige una repressione sessuale malata. Desiderio troppo a lungo messo a tacere. Le intenzioni covano nella psiche e si tramutano in pura violenza. 
 
In questa perdita corale dell’innocenza, il punto direzionale sfavorevole fa capolino nel momento in cui la regista smette di ammiccare e di essere ambigua. Fin quando rimangono sirene ammagliatrici (prima parte), uno speziato interesse nasce nello spettatore, al contrario quando le troppe parole riempiono lo schermo (seconda parte), il coinvolgimento diminuisce e lo scontato prende il sopravvento. Ed è il motivo per il quale The Beguiled vale tre stelle, rafforzato anche da un finale un po’ sbrigativo.
 
Il film è arricchito da una meravigliosa fotografia crepuscolare che esalta la messa in scena, anch’essa studiata nel minino dettaglio, che aiuta e celebra i personaggi nel proprio contesto narrativo. Parterre de Roi composto, oltre ai sopracitati Farrell e Kidman, da Elle Fanning (lo scorso anno qui con The Neon Demon di Refn) e Kirsten Dunst (vincitrice come miglior attrice nel 2011 con Melancholia). Complessivamente ben amalgamato ed in grado di dare quel quid in più alla pellicola nel momento in cui le situazioni avvengono troppo in superficie.
 
Anche se con delle sbavature, The Beguiled ci restituisce lo sguardo di Sofia, dopo i discutibili The Bling Ring e Somewhere. Nelle sue donne, nel bene o nel male, troviamo qualcosa di contemporaneo, descritto con profondità. Donne che celano le loro intenzioni e che la fanno in barba al malcapitato uomo di turno.
 
David Siena
 
 
 
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Soltanto un occhio penetrante è in grado di dipingere un quadro dettagliato e suggestivo. Perdersi nell'osservazione di esso può coincidere con l'immedesimazione più aderente.
The beguiled - L’inganno, sembra evocare una situazione pittorica, che nei primi atti da evanescente, acquista gradualmente intensità fino a lasciare col fiato sospeso. A quattro anni di distanza da Bling Ring, Sofia Coppola realizza un film intenso, ben fatto e estremamente curato , stilisticamente lontano dall'ultimo lavoro. La vicenda prende parte in un tranquillo collegio femminile del Sud durante la Guerra civile Americana. La vita delle sei ragazze nel collegio scorre in modo ordinario e costante, ovattata dalle crudeltà della Guerra. Ad occuparsi di loro la direttrice del collegio Miss Martha, donna acuta e pratica, la cui presenza è affiancata dalla più giovane Edwina Dabney, insegnante di francese. Quando un mercenario nordista viene trovato ferito da una delle ragazze, l’equilibrio della mite esistenza nel collegio verrà radicalmente sovvertito. Egli diverrà oggetto di sorpresa e timori, fino a determinare un brusco cambiamento nei rapporti delle fanciulle e delle istitutrici. Presentato allo scorso Festival di Cannes, L’inganno, è un film diretto abilmente, in grado di assumere molteplici aspetti, conducendo lo spettatore in una direzione dai tratti prevedibili, ma non banali. Un ritratto femminile molto asciutto capace di analizzare con grande precisione lo sviluppo e il climax del rappporto tra i due sessi. Sofia Coppola dirige un film elegante e autentico,  contraddistinto da quella perfetta combinazione tra leggerezza ed efferratezza. 
 
 
Giada Farrace
 

Un giorno di pioggia a New York

Giovedì 28 Novembre 2019 12:43

Entrare in sala sapendo che si vedrà un film di Woody Allen coincide solitamente  con il momento che precede l’arrivo di una carezza piacevole e allo stesso modo eccitante. Questo meccanismo si innesta in quasi tutti i casi ed è quanto di più dolcemente confortante  possa offrirci un film di Allen. Un giorno di pioggia a New York è l’ennesima conferma che questo straordinario regista riesce sempre (tranne rarissimi casi) a centrare il bersaglio con una disinvoltura e una maestria impareggiabili. La vicenda prende vita nella grande mela, dove la giovanisima coppia composta da Gatsby (Timothée Chalamet) e Ashleigh (Elle Fanning) si trova a dover trascorrere un intenso e vulcanico weekend all’insegna dell’imprevisto.  E se da un lato Ashleigh verrà catapultata in un contesto del tutto inaspettato a seguito di un’intervista ad un noto ed affascinante regista, dall’altro Gatsby dovrà fare i conti con la polverizzazione di tutti i suoi progetti organizzati in modo impeccabile per immergere la sua dolce metà in una città malinconica ed esuberante come la sua New York.  Woody Allen torna finalmente a dirigere un film che ripercorre fieramente e senza alcun indugio quel sentiero che gli è tanto caro e familiare e che corrisponde alla commedia più vivace, romantica, da sempre arricchita da quel pizzico di cinismo che rende ogni cosa più pungente.  E anche in questo caso, a fare da colonna portante del film sono i dialoghi, fitti e sferzanti, capaci di donare al tessuto narrativo quella linfa vitale che rende il tutto più fluido e dinamico. La scorrevolezza di Un giorno di Pioggia a New York è pertanto dovuta in larga parte alla costruzione di scene riuscite e in grado di colpire con rara genialità, ma anche al talento di un cast del tutto inserito nel contesto, a partire proprio dal protagonista, Timothée Chalamet. Gatsby è infatti il riflesso più acerbo della moltitudine di personaggi interpretati da Woody Allen nel corso della sua lunghissima carriera. Cinico e dall’aria a tratti malinconica, Gatsby è l’Allen più giovane e romantico, il quale non è ancora giunto alla fase più penetrante di cinismo esistenziale. Siamo alle battute finali e risulta quindi impossibile non evidenziare quanto ci sia di speciale in questo film che rischiava seriamente di non essere distribuito affatto in sala. Con Un giorno di pioggia a New York Allen ripropone con profonda incisività alcuni temi cari al suo cinema, uno tra tutti quello legato all’imprevedibilità degli eventi e a quanto sia inafferrabile la certezza della felicità.  

Giada Farrace