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Zombieland-Doppio colpo

Giovedì 14 Novembre 2019 12:04
Benvenuti a Zombieland una terra tutt'altro che pacifica dov'è un coraggioso manipolo di uomini e donne ha imparato a convivere con la continua minaccia dei non morti. L'apocalisse ha trasformato la terra in un grottesco parco giochi. Il gruppo di sfigati capitanato da Tallahassee (Woody Harrelson) parodia di un cowboy appassionato di Elvis Presley ha deciso di trasferirsi dentro la Casa Bianca per prendersi congedo dalle lotte contro gli stupidi mangia cervelli. Sua figlia Little Rock (Abigail Breslin) non ne può più della routine, vuole uscire da casa per incontrare l'amore della sua vita. Lo fa, e costringe suo padre sua sorella Wichita (Emma Stone) e Columbus il geek della situazione (Jesse Eisenberg) a partire per un Road Trip demenziale per convincerla a tornare dalla "famiglia", dove non mancano i cliché del genere, come il fatidico incontro con Madison (Zoey Deutch) la biondina urlatrice stupida e sacrificabile e la donna pericolosa, Nevada (Rosario Dawson) imprevedibile come una palla di cannone. Questo secondo capitolo Zombieland-Doppio Colpo diretto dallo stesso regista del primo (Benvenuti a Zombiland, 2009) Ruben Fleischer, mantiene l'ironia del primo e la stessa dose di citazioni della pop cultura, un film divertente da vedere con i popcorn in mano, che va a dissacrare l'horror, prendendo un pubblico vario. Chi non si è mai perso una puntata di “The Walking Dead” lo troverà paradossalmente familiare, chi al contrario non ama sbudellamenti e sfiancanti storie sulla sopravvivenza, riderà senza impressionarsi veramente. Il primo capitolo in Italia venne distribuito solo un anno dopo l'uscita direttamente in Home Video, questa volta la pellicola è stata portata al cinema, considerando il grande interesse del pubblico, che lo considera un nuovo cult. C'è da figurarsi un seguito, stessa formula, stesso gioco, tuttavia Amazon Original ne ha già prodotto una serie TV con attori diversi e stessa modalità nel 2013 (dallì’omonimo titolo Zombieland) . La colonna sonora curata da David Sardy getta nella mischia brani di Bob Marley e Bob Dylan, senza trascurare di elevare Elvis il vero 'Re' d'America nell'economia di questa storia. Prendete le mazze e seguite la lista di consigli di Columbus per sopravvivere all'apocalisse zombie e andate al cinema senza pretese, sopportate i titoli di coda per non perdervi il cameo dell’anno. 
 
Francesca Tulli

Pinocchio

Giovedì 19 Dicembre 2019 11:54
Era il 1881, l'autore fiorentino Carlo Collodi riscriveva la concezione di romanzo di formazione per ragazzi, pubblicando su “Il giornale per i bambini” “Le avventure di Pinocchio”. Studiato nelle scuole italiane e reso celebre in tutto il mondo grazie (anche) al classico di animazione Disney del 1940 (dall’omonimo titolo Pinocchio), il burattino divenne un esempio da (non sempre) seguire per generazioni. Non sorprende che il regista romano Matteo Garrone, abbia sentito la sua storia alla tenera età di sei anni e abbia “sfruttato” la sua fama mondiale per farne un film. Geppetto (Roberto Benigni) mastro falegname in disgrazia, vive i suoi giorni di solitudine in assoluta “povertà” (la parola più ripetuta nel romanzo) un giorno vede passare il teatro dei burattini e spiando 
attraverso le grate di un carroccio si innamora dei fantocci di legno al suo interno. Si rivolge a mastro Ciliegia (Paolo Graziosi) suo vecchio collega e amico per avere un pezzo di legno da cui fabbricarsi con le proprie mani, “proprio da me un burattino di legno” desiderando che “sappia ballare, tirare di scherma e fare i salti mortali” immaginando la fortuna che avrebbe potuto avere girando per il mondo con la sua creatura. Mastro Ciliegia, gli regala a sua insaputa un ceppo magico. Pinocchio (Federico Ielapi) prende vita e Geppetto, si ritrova improvvisamente padre. Nell’Italia che fu, una serie di situazioni difficili, inganni e prove da superare porteranno il protagonista a diventare uomo o meglio “un bambino vero”. Nella fiaba compaiono personaggi antropomorfi, pupazzi parlanti e creature fantastiche, Garrone, dopo essersi affidato allo studio italiano Makinarium per gli effetti speciali del suo “Racconto dei Racconti” (2015) qui si avvale di un team internazionale, Jessica Brooks al trucco (nel dipartimento make up di grossi blockbusters, quali Star Wars L’Ascesa di Skywalker (2019), Guardiani della Galassia (2014), Animali Fantastici: I Crimini di Grindelwald (2018) Dumbo (2019) e serie TV di successo, quali Il Trono di Spade (2017-2019)) il designer esperto di trucco prostetico Mark Coulier (tra gli altri meriti) due volte Premio Oscar (2015,2012) per The Grand Budapest Hotel (2014) e The Iron Lady (2011) non sorprende che Rocco Papaleo e Massimo Ceccherini nei panni dei viscidi truffatori Il Gatto e la Volpe risultino perfettamente credibili, lo stesso vale per  il Grillo Parlante (Davide Marotta), la Lumaca (Maria Pia Timo), Il giudice  Gorilla (Teco Celio) , il Signor Tonno, Il Pesce cane, Lucignolo, la Fata Turchina (Marine Vatch) e le decine di personaggi noti, di cui forse il più “amabile” è Mangiafuoco, un “terribile” Gigi Proietti. Tra le location dove il tempo sembra essersi fermato scelte da Dimitri Capuani, troviamo le colline della Val di Chiana Senese e una frazione di Sinalunga, La Fratta, dove parte del set è stato ricostruito da zero. Garrone affidatosi alle illustrazioni storiche di Enrico Mazzanti e alle parole di Collodi (la sceneggiatura è una limatura del testo originale) ha trasposto fedelmente la storia senza osare passi falsi, conservandone anche le brutture la pesantezza, la polvere, dove per l’acclamato Dogman (2018) aveva scritto una storia inquietante e satura di realismo, qui torna all’infanzia, una fiaba anacronistica, ma dalla “morale” pur sempre “reale”.
 
Francesca Tulli

Star Wars Episodio IX: L'Ascesa di Skywalker

Mercoledì 18 Dicembre 2019 10:24
“I morti parlano!” perché i personaggi principali “vivi” non sono stati scritti abbastanza bene per poterlo fare. Così J.J. Abrams sigla il suo patto “faustiano” con l’Imperatore Palpatine, lo riporta in vita per ripristinare uno strano equilibrio, non “nella Galassia” ma nella trilogia da lui iniziata con “Episodio VII: Il Risveglio della Forza” (2015) cercando di trovare un senso alla direzione da lui stesso intrapresa, portata avanti con distacco da Rian Johnson con “Episodio VIII: Gli ultimi Jedi”. Il defunto imperatore della Galassia (Ian McDiarmid) tornato in vita, grazie a “scienze oscure, clonazione, segreti noti solo ai Sith” rovescia lo scenario politico della “Galassia lontana lontana...”. Il suo ordine finale ha  inizio, ha una flotta di Star Destroyer Xyston, nascosta nell’ombra sul pianeta Exegol dove i suoi sudditi i lealisti Sith lo venerano e si prepara ad attaccare, la notizia arriva alle orecchie della Resistenza. Finn (John Boyega) l’ex assaltatore, Poe Dameron (Oscar Isaac) giovane pilota intraprendente ora generale e la giovane Rey (Daisy Ridley), che si addestra per essere degna della spada laser di Luke Skywalker, si mettono alla ricerca dei puntatori Sith, che portano alla tana del nemico per poterlo affrontare definitivamente. Kylo Ren (Adam Driver) legato alla ragazza da una forza superiore, ora Leader Supremo del Primo Ordine, fin dall’inizio governato nell’ombra dal Oscuro Signore dei Sith, compie un cammino parallelo, verso la resa dei conti, con lei e con la sua famiglia. John Williams suona la colonna sonora come da tradizione, sottolineando i momenti più apprezzabili di calma. Siamo difronte ad un capitolo strano, ricco di elementi che offuscano i difetti più evidenti, Abrams (con la benedizione della presidente della Lucasfilm Kathleen Kennedy) si è permesso di riscrivere le leggi naturali di Star Wars, introducendo a forza possibilità mai sfruttate nei precedenti, il più grave: l’elemento di resurrezione. Quattro generazioni di appassionati “vivono” questa avventura conoscendone i minimi dettagli, abituati ad una  timeline (perlopiù) coerente (prima che il canone delle storie venisse azzerato e riscritto in funzione questa trilogia, cosiddetta sequel) dove le dinamiche possibili sono state originate dalle idee iniziali del “lodato creatore” George Lucas. Ora si trovano un “nuovo” Star Wars, gestito maldestramente da un occhio volutamente esterno, in favore del gusto del “nuovo” pubblico, che tuttavia, trova sempre difficoltà ad accogliere queste storie e apprezza quando ritrova “il vecchio” nostalgico universo presentato sotto altre forme (la serie TV The Mandalorian in onda su Disney+ è una prova) dimostrando che per fare Guerre Stellari, non bisogna osare ma restare fedeli all’originale. Quello che è stato seppellito, tra vecchi fantasmi e nuove speranze, porta la saga verso un futuro imprevedibile.
 
Francesca Tulli

Jojo Rabbit

Giovedì 16 Gennaio 2020 10:21

Jojo é determinato. Vuole diventare la "guardia" personale di Hitler. Nazista fin nel midollo tanto da vergognarsi di aver avuto un nonno che "non aveva i capelli biondi", da poco entrato nell'organizzazione della gioventù hitleriana vuole ottenere la stima dei suoi crudeli coetanei. Fallisce nel tentativo, rifiutandosi di uccidere a sangue freddo un povero innocente coniglio, si "guadagna" l'appellativo di "Jojo Rabbit" il fifone. Il giovane protagonista (Roman Griffin Davis) ha solo dieci anni, una madre bellissima e affettuosa (Scarlett Johansson) un padre assente partito per la guerra a difendere la patria germania, un amico reale Yorki (Archie Yates) della sua stessa età (altrettanto emarginato) e un amico immaginario, Adolf, parodia del "grande dittatore" interpretato dallo stesso regista del film Taika Waititi. Cresciuto con la convinzione che il fuhrer sia comprensivo, sognatore e sempre dalla parte dei giusti, lo immagina come un "salvatore". Le cose si complicano quando Jojo sente dei rumori in casa sua il "fantasma" di una ragazza si muove attraverso le pareti (Thomasin McKenzie) il bimbo desideroso di andare affondo alla faccenda sospetta che si possa trattare dell'anima senza pace della scomparsa sorella maggiore ma teme il peggio...che sia una mostruosa ebrea. Taika Waititi che si autodefinisce un regista di parodie 'anti-odio' osa giocare con un tema sempre difficile da trattare con leggerezza. Gioca con i pregiudizi dello spettatore mettendolo davanti ad un film che si presenta come comico e si rileva un efficace antidoto contro l'indifferenza. La stupidità della guerra é raccontata con disincantata ironia e viene incarnata dai tedeschi indigenti primo su tutti il capitano Klezendorf (Sam Rockwell). La guerra raccontata é fatta da persone che non fanno "quello che possono" per combatterla fermate dalla paura di finire ammazzate. Liberamente tratto da libro di Christine Launens "Il cielo in gabbia" (2004) e ambientato nella Germania del "45 ma è stato girato principalmente nella città di Praga. La colonna sonora di Michael Giacchino è stata arricchita da una selezione di brani in tedesco in cui figurano "I want to hold your hand"/"Komm gib mir deine hand" dei Beatles e "Heroes"/"Helden"di David Bowie. In lista per 6 premi Oscar è stato accostato come mood ai film di Wes Anderson, tuttavia conserva una sua originalità. Lontando dal sanguinso"Bastardi Senza Gloria" (2009) visto dagli occhi di un bambino diverso da quello protagonista de "La vita è bella" (1997) è un attuale critica verso qualsiasi tipo di violenza ingiustificata e gratuita, specchio della società attuale americana (e non solo) tra le risate facili e le macabre riflessioni nasconde una feroce voglia di denunciare i danni commessi dalla stupidità umana. Coraggioso e non facile da incasellare dentro un solo genere è una celebrazione della libertà, un dramma camuffato da commedia.

Francesca Tulli

underwater

Giovedì 30 Gennaio 2020 12:49
 
“Nello spazio nessuno può sentirti urlare” descrive perfettamente la situazione dei protagonisti di “Underwater” che vivono (letteralmente) la stessa storia ma sott’acqua. Norah (Kristen Stewart) si trova a sei miglia di profondità, lavora dentro una struttura sottomarina situata nella fossa delle Marianne con altri malcapitati ricercatori, quando un terremoto inspiegabile crea una breccia all’interno dell’installazione alveare, seguendo le istruzioni per fronteggiare l’emergenza, dopo aver sentito l’allarme cerca di raggiungere le capsule di salvataggio, con un altro giovane malcapitato Rodrigo (Mamoudou Athie) senza nessuna possibilità di fuga, sul tragitto incontra il capitano (Vincent Cassel) deciso ad affondare con “la sua nave” pur di difendere i suoi compagni, la coppia di fidanzatini, Paul (T.J. Miller) e la stagista Emily (Jessica Henwick) e Smith  (Jhon Gallagher Jr.)  il nerd  chiacchierone, simpatico (come una secchiata in faccia di prima mattina) che non fa altro che citare a caso la cultura pop. Superstiti e ignari dei pericoli che li attendono dentro una tuta speciale si fanno strada verso le tubature, i pertugi, le carcasse dei compagni in una disperata corsa verso la salvezza. Non c'è alcun dubbio, il regista William Eubank ha riciclato tutte le idee dalla saga di Alien iniziata da Ridley Scott nel 1979. A cominciare dal titolo, che compare con delle lettere bianche e allungate come fosse un film dello stesso franchise, il tipo di abbigliamento indossato dalla protagonista, una versione più mascolina e scoperta di quello indossato da Ripley (inimitabile Sigourney Weaver) ha perfino la sua stessa acconciatura (tuttavia i capelli corti di Norah sono sua scelta: non è prigioniera ne frutto di una clonazione perché si sottolinea esasperatamente il suo essere androgina, forse per volere dell'attrice) la mutazione delle creature nemiche che passano diversi stadi dall'essere larva (simile anche nel design ad un chestbuster) fino alla “xeno-forma” finale. Lo stesso vale per le scenografie, manca però il senso di "vera" claustrofobia, la paura dell'ignoto non crea aspettativa. Non siamo su un astronave, forse per questo si vede una forte influenza di altri film di genere tra primo fra tutti The Abyss di James Cameron (1989). Nella fantascienza è inevitabile seguire le tracce dei predecessori maestri, almeno da conservarne il gusto, la patina, gli ingredienti giusti, tuttavia in questo film non c’è nessuna volontà di trovare una strada originale, ci sono perfino dei cliché superati anacronistici  del vecchio cinema americano scelte questionabili e ingenue come il fatto che la protagonista nonostante il suo aspetto mascolino sia eterosessuale, nessuna novità, nessuna rivoluzione, la volontà di omaggiare crea uno duplicato sbiadito. Non è scontato sottolineare che la qualità degli effetti visivi è notevole. Il regista ha dimostrato di avere talento con il suo “The Signal” (2014) ci si domanda cosa abbia spinto la produzione ad andare in questa direzione piuttosto che esplorare nuove possibilità con questa disponibilità di budget. Avrebbe avuto senso solo se alla fine si fosse palesato un agente della Weyland-Yutani (elemento che ha salvato anche “Alien VS Predator 2” il punto più basso della saga degli Xenomorfi) almeno questa eco sarebbe stata legittimata.
 
 Francesca Tulli
Harley “fantasmagorica” Quinn (il cui vero nome è Harley Frances Quinzel) ha una storia singolare: dottoressa e psicologa al manicomio di Arkham innamoratissima della mente malata del suo paziente diviene poi sua serva e amante. E’ la fidanzatina scatenata della nemesi di Batman, il crudele pagliaccio Joker, inventata dal genio di Paul Dini e Bruce Timm per la serie animata del 1992 (Batman: The Animated Series) viene resa celebre dall’albo a fumetti “Mad Love” (1994) torna sul grande schermo interpretata da Margot Robbie, totalmente reinventata (o quasi) dopo il primo capitolo del filone firmato DC Comics, Sucide Squad (2016) ora diretta dalla regista Chaty Yan nel suo stand-alone “Birds OF Prey”. Lasciata dal sul adorato “Puddin’” con cui sognava di avere una famiglia felice, si ritrova per i vicoli di Gotham City senza protezione,come “donna del boss” godeva di una rispettabile sicurezza, senza è un “uccellino” senza meta, bersaglio dei cittadini infuriati, che vogliono restituirle i torti subiti in passato. Involontariamente, attira le attenzioni di Roman Sionis AKA Maschera Nera (Ewan McGregor), un altro super criminale, deciso a mettere le mani su un leggendario diamante appartenuto ai Bertinelli, una ricca e facoltosa famiglia mafiosa, il gioiello gli permetterebbe di conquistare l’intera città. Sullo sfondo la poliziotta Renee Montoya (Rosie Perez) messa in ombra dai suoi colleghi maschi, cerca la sua occasione per tornare in carreggiata, la cantante da piano bar Dinah Lance, ottiene un posto come autista di Sionis e una misteriosa “donna con l’arco” (Mary E. Winstead) cerca vendetta. Le quattro protagoniste si trovano coinvolte in questa caccia al tesoro, che ruota intorno al diamante e ad una ladruncola di tredici anni Cassandra Cain (Ella Jay Basco). Esplosioni, pop, scenari da cartoon, acrobatici scontri corpo a corpo, l’intero film ricorda un video clip musicale, sfavillante eccentrico come il trucco e gli abiti della protagonista che con lo stesso stile avevano conquistato l’oscar per il “Best Achievement in Makeup and Hairstyling” vinto nel 2017 da  Christopher Nelson e due italiani Alessandro Bertolazzi e Giorgio Gregorini. Squisitamente anni “90 ricorda per il mood demenziale Deadpool 2 (2018) nello stesso, il protagonista altrettanto trasgressivo aveva a che fare con un bimbetto qui Harley gioca a fare la madre sconsiderata. Si temeva un manifesto femminista sterile e retorico, tuttavia l’emancipazione delle protagoniste,  si afferma senza forzature .L’ “Arlecchino” (da qui il nome) riesce a cavarsela senza un padrone, non senza difficoltà. Crea empatia e resta assolutamente scorretta. La metà della mela marcia di Joker, si mette in proprio e come ogni ragazza che ha perduto l’amore, raccoglie le sue forze e sopravvive a tutto, senza prospettive, combatte a testa alta anche quando la speranza di una vita migliore sembra impossibile.  
 
Francesca Tulli

Tenet

Giovedì 27 Agosto 2020 10:35

Tenet è la sfida contro il tempo di Christopher Nolan, il regista inglese assembla un cast stellare per presentarci un film (volutamente) imperfetto e svegliarci dal torpore della quarantena. Il “protagonista” (John David Washington) dimostra una cieca fede nella causa a cui si è affidato, come “premio” riceve la possibilità di salvare il mondo da un disastro, dalla “terza guerra mondiale” o meglio l’estinzione istantanea dell’intera razza umana, per farlo egli deve comporre un algoritmo con il compagno di avventure Neil (Robert Pattinson) di cui non dovrebbe fidarsi, per poi disassemblarlo e permettere che questo mondo marcio sopravviva. Tenet è uno spy drama, a tutti gli effetti, il cattivone è un russo stereotipato (interpretato da Kenneth Branagh) Adrei Sator il trafficante d’armi  è il marito di Kat (Elizabeth Debicki che interpreta la stessa identica parte nella serie TV The Night Manager) una “bond girl” bellissima e ribelle. Al centro della vicenda c’è un concetto molto interessante: grazie ad una tecnologia del futuro le azioni compiute possono essere riavvolte nel tempo, così che la stessa traiettoria di un proiettile possa tornare indietro e trapassare il malcapitato al contrario, le automobili possono correre in retromarcia senza farlo davvero, le bombe possono esplodere distruggere un palazzo e poi sotto gli occhi dei presenti è possibile annullarne ogni effetto e farle tornare spente davanti alle macerie che tornano da sole al loro posto riformando l’edificio. Lo stesso vale per le persone e gli eventi ma con effetti più devastanti sulle linee temporali. Giocando su espedienti abbastanza prevedibili ogni elemento del film è condizionato da questo gioco basato in parte sulle teorie quantistiche, attraverso lunghissime spiegazioni minuziose e assolutamente stranianti. La perplessità nasce dal voler accettare a tutti i costi qualcosa che non si può davvero “cercare di capire” dal principio perché dopo su tutte le chiavi di lettura si impongono altri fattori “la forza dell’ignoranza” e i paradossi. Il non sapere rende i coinvolti liberi di agire grazie al loro libero arbitrio e il cuore: come fu per Interstellar (2014) è l’unica bussola da seguire. A differenza del film con McConaughey però, Nolan sacrifica la necessaria crescita dei personaggi e dei loro affetti dimenticando di dare spazio all’empatia, rendendo sterile gran parte del progetto. Meraviglioso il comparto sonoro, come fu per Dunkirk (2017) Best Sound Mixing agli Oscar del 2018, ogni rumore, ogni esplosione porta una eco indelebile. La colonna sonora è stata affidata al giovane talentuoso Ludwig Goransson (compositore delle musiche di The Mandalorian, 2019) segue tutto il film ravvivando l’azione. Indubbiamente porta la firma del suo regista che come ci si aspetterebbe da lui ha inserito easter eggs già dal titolo: Tenet, parola che compone la  misteriosa frase palindroma in latino del cosiddetto quadrato magico (o quadrato del Sator) “Sator Arepo Tenet Opera Rotas” troviamo anche riutilizzate all’interno del film tutte le parole, in modo  intelligente. Inutilmente complicato fa indubbiamente parlare di se.

Francesca Tulli

Molly Monster (il film)

Martedì 23 Febbraio 2021 13:41
 
Molly Monster è  una mostriciattola carina. E’ difficile capire se possa somigliare di più ad un dinosauro o ad un draghetto. La piccola “ficcanaso” vive a Mostrolandia, circondata di oggetti quotidiani, colore pastello. Con lei c’è l’adorabile diavoletto Edison il suo pestifero e geloso migliore amico (ovviamente, come suggerisce il nome è simile ad una lampadina ma caricato a molla come i vecchi giocattoli di latta). La sua famiglia, composta da mamma Etna, papà Popo e i due bizzarri zii, Alfredo e Santiago si sta per allargare. Molly osserva con curiosità l’uovo verde fluo da cui spunterà il muso di un fratellino o di una sorellina e nell’estenuante attesa lavora un cappello di maglia bianco e rosso come regalo per lui. Quando i genitori partono per un lungo viaggio “oltre le mostrocolline molto lontano” per raggiungere la città delle uova dove nascerà il nuovo arrivato, Molly, troppo piccola per andare con loro, si imbarca da sola in un viaggio ancora più “rischioso” ma decisamente elettrizzante con Edison per raggiungerli e portare il cappellino in tempo per la schiusa. Il film d’animazione tradizionale del 2015 è diretto dai tre registi Ted Sieger, Matthias Bruhn e Michael Ekbladh è una produzione Svizzera tedesca e svedese. Il lungometraggio passato per oltre 40 rassegne, vincitore del premio Calice d’oro a Shangai (nel 2016) è stato definito al 66° Festival internazionale del cinema di Berlino “particolarmente prezioso” e “estremamente adatto ai bambini per il suo andamento narrativo lento e l’animazione chiara, colorata e disegnata con amore” si distingue nel firmamento dei film di animazione su un panorama fatto di supereroi americani e animazione giapponese e propone un gusto  “vintage” europeo (simile a quello dei i Moomins) senza trascurare i temi attuali. Al centro della storia il dialogo tra genitori e figli che diventa un pretesto per raccontare una storia di amicizia e di inclusione, le differenze tra una creatura e l’altra vengono appianate dalla bellezza delle loro singolarità mettendo in luce il carattere dei personaggi a prescindere dal loro aspetto rendendo praticamente impossibile una mera classificazione negli stereotipi a cui siamo abituati. La versione italiana vanta un ottimo doppiaggio. Una fiaba deliziosa, pensata per i bimbi di 3 anni, semplice nella più positiva delle accezioni. 
 
Francesca Tulli

Raya e l'ultimo drago

Giovedì 04 Marzo 2021 11:14
Prima della comparsa delle forze malefiche, cinque draghi, con straordinari poteri cosmici, crearono una pacifica e armoniosa terra chiamata Kumandra. Poi vennero i Druun degli esseri malvagi, una piaga, senza forma con il potere di tramutare in pietra ogni avversario. I draghi si sacrificarono per difendere l’umanità, per sconfiggerli, lasciando a loro guardia un ultimo drago, dipendente da una pietra magica, che spezzata e ricomposta può ridonargli l’antico splendore perduto (il potere dei suoi fratelli e sorelle) e restituire la vita alle vittime dell’incantesimo. Cinquecento anni dopo, la combattiva principessa Raya a cavallo della sua singolare bestia da soma Tuk Tuk, si mette alla ricerca di Sisu il leggendario ultimo drago per restituire la pace al suo popolo e salvare suo padre dalla piaga dei Druun mai davvero scomparsi. A lei si unisce una compagnia strampalata formatasi per puro caso. Sulle tracce della creatura c’è anche la principessa Naamari, una sua vecchia amica di infanzia, forzata dalle circostanze a voltargli le spalle, decisa a trovare il drago e i pezzi della sfera magica prima di lei. Comincia un viaggio parallelo, per ricostruire un regno e un amicizia perduta. I registi di Raya el’ultimo drago, Don Hall e Carlo Lòpez Estrada, in tempi difficili hanno deciso di terminare questo film con tutte le difficoltà del caso dovuti alla pandemia, mirando alla semplicità e rivolgendosi principalmente ad un pubblico di bambini, davvero piccoli, una direzione interessante lontana anni luce dalle tematiche “forti” e commoventi quali la vita e la morte, presente negli ultimi Walt Disney Animation Studios (a Don Hall Big Hero 6, del 2014 valse l’oscar) e dei colleghi Pixar (tra gli altri Onward e Soul ne sono un esempio). Raya è un film sulla diversità. I cinque regni che visita la principessa sono palesemente ispirati a diverse reali locations principalmente del sud est asiatico, Vietnam e Thailandia, ma troviamo anche influenze cinesi, inuit, maori, giapponesi, africane e fantascientifiche. Un gusto orientale in salsa occidentale, l’ironia americana e latina si fonde con il tratto demenziale dei film fantasy cinesi, specialmente laddove Sisu (la cui estetica si basa su i serpenti Naga) rivela una scempiaggine che è propria di ogni continente. Il drago, femmina, si trasforma in una donna pazzarella erede del Mushu di Mulan (1998). Cosa non ha funzionato all’interno del film è evidente, la storia procede lenta a tratti si fatica ad aspettare il passaggio da uno step all’altro durante l’evoluzione della storia. Le premesse erano più che interessanti e in qualche modo, restano a fare da sfondo. Come sottolineato dai registi durante la conferenza stampa, al centro della vicenda c’è un tema poco trattato negli altri film di genere l’amicizia al femminile, proponendo dei modelli completamente differenti da quelli proposti dalle sorelle di Frozen, che sfidano il pregiudizio, così troviamo due principesse imperfette che gli fanno da specchio perché rappresentano due caratteri opposti, anche qui una “scema” ma buona, una intelligente e all’apparenza fredda cattiva e distante, ma con tutto un altro mood. Esplosioni colorate, costumi diversi, portano una ventata di positività, laddove ne abbiamo bisogno. 
 
Francesca Tulli
 

Dune

Mercoledì 15 Settembre 2021 09:13
 
Il giovane Paul Atreides è spaventato davanti a quello che sarà il suo futuro, scritto dagli altri per lui. Egli è nato per essere visto come un dio e allo stesso tempo è il frutto di un azzardo,
un capriccio dell'amore dei suoi genitori. La sua è una vita, che in divenire può portare al tutto o al niente. Egli rappresenta la perfezione è uno strumento di pace destinato al successo, l’eletto oppure il suo contrario: il fallimento totale la rovina e il caos. Il ciclo di Dune il capolavoro di fantascienza di Frank Herbert iniziata con il primo libro del 1965 ha posto ironicamente una sfida anche ad ogni regista che ha provato una trasposizione cinematografica o seriale, passando dalle sapienti mani di David Lynch che non ebbe fortuna con la sua pellicola nel 1984 al progetto incompiuto di Jodorowsky. Questa è la volta di Denis Villeneuve che realizza il suo obiettivo di appassionato compiendo un opera per i neofiti e per chi ha sempre sperato di guardare una degna rappresentazione di questo mondo. Il giovane rampollo di cui seguiamo le gesta (Timothée Chalamet) è figlio del nobile Duca Leto (Oscar Isaac) e della sua amata concubina appartenente alla sorellanza Bene Jesserit Lady Jessica (Rebecca Ferguson). Paul possiede delle capacità straordinarie, tra cui quella della preveggenza e sogna continuamente una ragazza misteriosa dagli occhi completamente azzurri Chany (Zendaya) ed uno scintillante pugnale. Una romantica allegoria che al risveglio provoca dubbi e alimenta timori soprattutto se associato allo sfondo di una guerra imminente fuori dalle mura del suo palazzo per accaparrarsi la 'Spezia' la risorsa più preziosa sul Pianeta di Arrakis altresì detto Dune. L'Imperatore ha ordinato a Leto di proteggere il pianeta dall'ascesa dei loro nemici più stretti, guidati dallo strapotere del Barone Valdimir Arkonnen (Stellan Skarsgard) la cupidigia li ha resi invincibili. Chiave per la vittoria per entrambi è l’aiuto o l’asservimento da parte parte del popolo del deserto i Fremen, che hanno imparato a sopravvivere dove solo i giganteschi vermi della sabbia hanno la meglio ed inghiottono ogni cosa al loro passaggio. Sono proprio loro i Fremen a sperare che Paul sia “Lisan al Gaib” il Messia, il salvatore,  quando in realtà questa convinzione di fede è frutto dell’astuto piano politico messo in atto da un altra forza in gioco. La complessità della trama è alla base del successo della saga, che con i suoi sei tomi rappresenta una vera e propria 'bibbia' da cui i grandi maestri della fantascienza hanno attinto. La chiave che il regista ha scelto di utilizzare per questo adattamento è stata la bellezza delle immagini evocate dalle descrizioni, egli rappresenta ogni scenario con un attenta riproduzione dell'atmosfera, retro e allo stesso tempo avveniristica. Astronavi geometriche, palazzi imponenti su fondali dai colori netti, in prevalenza nero e bianco con l'inserimento di elementi di gusto giapponese. Con la lentezza di una partita a scacchi ben giocata Hans Zimmer (coronando un sogno personale) ha scritto la colonna sonora per ogni sequenza, trovando delle sonorità primitive e cupe da brivido, riconducibili a quelle dei Pink Floyd dei primi anni. Per i costumi si sono fatte due scelte: azzeccata quella che riguarda gli abiti da cerimonia, ricchi di particolari nella loro semplicità, meno per quello che riguarda le armature, troppo “militarizzate”  con la discutibile scelta, o l'errore (già frutto di accese polemiche tra i fan di lunga data) di lasciare i Fremen in tuta a volto scoperto.
Deliberatamente Villenuve scegli di non spiegare tutti i riferimenti al romanzo, indugiandoci, lasciandone una eco. Nel suo lavoro di sottrazione per rendere il film più fruibile, della complessità dei personaggi del libro è rimasta solo un impronta. Sono stati spogliati della loro sontuosità  una scelta discutibile, un esempio su tutti il Duca Leto da impassibile e distaccato, mostra solo il suo lato di padre premuroso, ne beneficiano i personaggi d’azione come il guerriero Duncan Idaho (Jason Momoa) o Kynes (Sharon Duncan-Brewster) donna nella visione del regista) ne perdono di fascino i più complessi.Il film è una parte uno, nello specifico è l'adattamento di metà del primo libro. Un lunghissimo antefatto che sorprende lo spettatore o lo lascia assetato.
 
Francesca Tulli

 
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