Sul ponte delle spie di Steve Spielberg, si combatte una lunghissima partita a scacchi, fatta di mosse e contro mosse. Tom Hanks è l’avvocato James B. Donovan, a lui nel 1957 durante la Guerra Fredda, viene affidato il compito di rappresentare in tribunale un anziano pittore senza patria il “colonnello” Abel (Mark Rylance) accusato, a buon ragione, di essere una spia russa. I due sono uomini stoici, uomini che non si sono mai piegati, l’uno osservante della legge, incorruttibile sul lavoro, padre di famiglia, dalla dialettica invidiabile. L’altro alla fine della sua vita, fedele sempre a se stesso e alla sua arte. La stima reciproca porterà inevitabilmente i due protagonisti a spalleggiarsi in un gioco più grande di loro. Mentre il governo ipocrita degli Stati Uniti spinge perché Abel finisca sulla sedia elettrica e l’avvocato difensore venga messo alla gogna dall’opinione pubblica, i Sovietici catturano vivo il (non ancora) famoso pilota americano Gary Powers (Austin Stowell) in missione segreta e un povero studente della stessa nazionalità Frederic Pryor (Will Rogers), colpevole solo di aver deciso di studiare economia e comunismo all’ombra del muro di Berlino. I due ragazzi diventano la merce di scambio con cui Abel potrebbe tornare in patria, il resto è storia. Storia vera, come fu per Schindler’s List, ancora una volta Steven Spielberg, perpetua il suo impegno a far conoscere alle nuove generazioni (e non solo) gli uomini giusti che hanno fatto (davvero senza retorica) la differenza. Si parla troppo spesso di come il regista, abbia ormai perso la scintilla che lo faceva grande negli anni 90. È Innegabile che anche in questo film, il ritmo sia soggettivo (quasi assente) le sequenze delle arringhe in tribunale sono estenuanti e faticose come quelle del suo “Lincoln” nel 2012, anche questa volta la “guerra” di sfondo ricorre come tema portante, ma questa “guerra” qualcuno al cinema la deve pur fare, e Spielberg dimostra ancora di padroneggiare la materia, la sua fotografia viene continuamente imitata, copiata, rimasticata ma mai raggiunta. Il ritratto di Berlino Est è crudo, agghiacciante, Donovan si muove nel suo cappotto a testa bassa, sotto la neve mentre il muro viene costruito, mattone su mattone. La pesantezza della storia. Il ponte del titolo è lo scenario perfetto per la sequenza cruciale, in cui la notte disegna le figure dei protagonisti quasi fermi congelati, come in un quadro. I dialoghi sono scritti da Matt Charman e dai fratelli Choen (e si vede) restano impressi come il sorrisone di Tom Hanks e gli sguardi bassi, buoni e disarmanti, di Mark Rylance (non a caso l’attore è stato scelto dallo stesso regista per interpretare “Il GGG Grande Gigante Gentile” nel suo prossimo film) è delizioso e invidiabile il suo approccio alla paura. Thomas Newman non sostituisce John Williams come compositore della colonna sonora ma fa la sua parte. Il trucco, la ricostruzione minuziosa dei costumi d’epoca, le facce delle comparse e dei comprimari, sempre “piene” sempre precise, si può intuire che si tratta di un film di Spielberg anche solo da questo, c’è una firma inconfondibile dietro a tutti i suoi lavori, una precisione invidiabile, con i suoi quasi, settanta anni, il maestro di storia più amato dal mondo, ha ancora tanto da insegnare.
Francesca Tulli