“Spectre” non è la copia-carbone di “Skyfall” e questo è un bene.
Il film procede sui binari del più marcato classicismo, senza però diventare mai stantio, prova ne è il primo lungo piano-sequenza a Città del Messico, durante El Dia de los Muertos.
I morti sono vivi, come recita la didascalia, e festanti calacas danzano, ignari del loro ruolo di preludio tragico.
Anche Bond è mascherato, e naturalmente accompagnato da gentil donzella, ma il suo volto scheletrito, dal quale emerge l'azzurro intenso degli occhi, è quello di un uomo che non ha bisogno di celarsi per banchettare con la morte.
I riferimenti ai Bond passati, ormai rivisti e corretti, piaccia o meno, nella faccia segnata e intensa, e nel fisico massiccio di Craig, rappresentano probabilmente il tentativo di riallacciarsi alla tradizione dell'agente con licenza di uccidere.
Dopo l'azzardo freudiano di Skyfall, film con una prima parte strepitosa e una seconda senz'altro potente, ma troppo debitrice, complice la fotografia cupissima di Deakins, qui sostituito da Van Hoytema, capace di tratteggiare con naturalismo il caldissimo e il freddissimo della luce, all'immaginario nolaniano dell'uomo pipistrello, Spectre rimette i tasselli al loro posto, non senza qualche intralcio narrativo o caduta di ritmo.
Bond, incredibile fenice, vero man of steel senza tema di kryptonite, deve vedersela con i tentacoli piovreschi della Spectre, guidata dall'enigmatico Franz Oberhauser aka Ernst Stavro Blofeld, uno che ha qualche conticino in sospeso con l'agente segreto, fin dalla più tenera età.
Lo interpreta Christoph Waltz in modo a tratti struggente, per il breve tempo scenico che gli è concesso.
La cadenza leggermente enfatica della voce, in alcuni momenti della versione italiana, non inficia affatto la calibrata tensione del suo sguardo, quello di un uomo, non quello di un villain, termine banale e schematico che infatti l'attore austriaco detesta.
Ma, come Lynch ci ha insegnato, i gufi non sono quello che sembrano, e qualche insospettabile (o quasi) fa il gioco sporco anche nei pressi dell'MI6, capitanato, dopo la morte della M come Madre, dal Mallory di Ralph Fiennes, misurato e perfettamente in parte.
Tornano anche Q (Ben Whishaw, uno dei talenti più prodigiosi della sua generazione e non solo) e la deliziosa Naomie Harris, nel ruolo di Miss Moneypenny, più solerti a esaudire le richieste di James che quelle del loro diretto superiore.
E naturalmente ci sono le donne, diverse, almeno per un particolare che non si può svelare senza dire troppo della trama del film, da quelle alle quali l'immaginario bondesco ci ha abituati: Monica, basta la parola, fa fatica a doppiarsi – migliore infatti in inglese - ma è ugualmente una figura divina.
Il suo breve intermezzo, carezzato da una fotografia che, per contrapposizione tra gli scuri e i gialli-arancio, rimanda a un'Antonia Zarate di Goya e sottolineato, lentamente, dalla cura estatica che la M.d.P. tributa soltanto alle dive, segue la parte romana del film, una grande bellezza action che affresca di amore e rispetto mai cartolineschi la città. Lucia, questo il nome del personaggio, è statuaria, è pura presenza, appena scalfita dalla passionalità di Bond che la inchioda, la sfiora con le labbra, la indaga, nella pelle candida, e poi la contempla, bellissima e eterna, probabilmente salvifica.
La seconda figura femminile introdotta da “Spectre” gioca invece una partita completamente diversa e non potrebbe non essere così.
Siamo dalle parti di Eva Green, la prima cosiddetta Bond girl dell'era Craig, l'unica realmente amata dall'uomo, più incline, come da tradizione, a intrattenersi fugacemente nelle alcove delle moltissime splendide fanciulle che incontra, che ai sentimentalismi.
Si può pregustare persino, come già era successo con la Vesper Lynd di Casinò Royale, un retrogusto malevolo nella giovane dottoressa, dal nome proustiano, tutt'altro che succube al fascino da sciupafemmine dell'agente segreto.
All'insegna delle omissioni è caratterizzata infatti la recitazione di Lea Seydoux, provocante, ma ambigua, magari complice: e se l'identità del vero deus ex machina della Spectre subisse un ribaltamento di genere?
O forse sono solo suggestioni, chissà.
Naturalmente, pur con tutti gli svecchiamenti, per lo zoccolo duro dei fan della prima ora, talvolta quasi eretici, che si vogliono, al centro dell'azione drammatica resta Daniel Craig, a conti fatti e al di là di ogni pregiudizio iniziale, il miglior Bond dai tempi di Sean Connery, sempre più alla ricerca di un'umanità oltre i simboli – non c'è verso che riesca a bersi in pace un vodka martini – qui finalmente ironico, quale sa benissimo essere, granitico e seducente, umbratile, ma non scontroso: l'attore dimostra che la calaca è solo una maschera e, se dietro c'è il fior fiore della tecnica Guildhall, gli stereotipi vanno buttati nel gabinetto, per saltare un passaggio, stessa sorte che l'agente auspica per il frullato probiotico che vorrebbero appioppargli e che non fa in tempo neppure ad assaggiare, per cause di forza maggiore, ma un po' anche per difendere la propria integrità!
Del resto lui è Bond, James Bond (e speriamo lo resti per un altro film!).
Ilaria Mainardi