Dracula, basta questo nome ad invocare una figura ben distinta nell’immaginario collettivo. Prima del celebre film di Francis Ford Coppola, trasposizione del romanzo di Bram Stoker, erano pochi al cinema i Dracula fascinosi. Nel suo film Gary Oldman, con il cappello a cilindro e gli occhiali fumé, trasformò il conte da orrendo Nosferatu a sex symbol circondato di donne bellissime e capace di provare grandi amori. Non a caso il qui protagonista gallese Luke Evans (famoso ai più dopo aver interpretato Bard in “Lo Hobbit la Desolazione di Smaug” ) è bello, viene dal teatro, ha un nutrito successo tra le fan e, nota curiosa, ha davvero i canini appuntiti. Conosciuto da tutti come il vampiro più famoso nella storia dell’umanità, il principe Vald III di Valacchia è invece ricordato in Transilvania, come un eroe, infaustamente etichettato come un mostro dalla cultura generale. In questo esperimento di Gary Shore, un regista emergente alla prima esperienza, il protagonista è proprio questo, un paladino della giustizia, un padre di famiglia, un marito devoto, costretto dagli eventi a impalare i nemici sul campo di battaglia e a portare la maledizione che lo renderà celebre. Senza lato oscuro nel cuore, con una blanda sete di sangue, una super vista, super forza, super udito, il patto con un vampiro più oscuro (Charles Dance) lo rende invincibile, ma non convince lo spettatore. La pellicola è uno spreco di bravi attori, costumi mostruosamente dettagliati, set giganteschi, e sarebbe anche godibile se le battaglie non fossero ridicole quanto l’acconciatura moderna e improbabile dell’antagonista, il generale turco Mehmed (Dominic Cooper), che sembra uscita da una discoteca anni Novanta. La sceneggiatura è forse la pecca più grande di questo film, insensata, fastidiosa, retorica, certi espedienti sembrano immotivati ed altri sono prevedibili. La produzione è della Legendary Pictures, che lavora a tempo pieno con maestri del fantasy del calibro di Guillermo Del Toro. Si può perdonare la fiducia data ad un regista emergente, il coraggio di costruire un blockbuster all'ombra di colossal che, anche solo considerando gli investimenti delle major, dovrebbero essere perfetti (Diseny, Marvel ecc…), ma le buone intenzioni non bastano a salvare questo titolo dall’etichetta di “guilty pleasure”, ovvero di film gradevole e senza pretese da guardare in compagnia di amici, con una scorta di pop corn.
Francesca Tulli